CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

domenica 14 gennaio 2018

AVE A TE GIULIO CESARE (ovvero pensieri del regal giorno) (75)














Precedenti capitoli:

Ave a Te Giulio Cesare (che i savi poco t'intendono....) (74)

Prosegue in:

Il Caos Primordiale: ovvero Triperuno (76)

& Nel regno degli sperduti 







                              FORSE IL MATTO TE LO SEI SOGNATO


                                    Ovvero Pensieri del Regale Giorno






L'altra sera dopo cena, havendo tocco alquanto il boccale mi levai da tavola assai più cotto, che crudo, per cortesia di messer Bacco, il quale col suo buon liquore m'aveva un poco intorbidato la memoria, e cosi havendo piena la zucca d'altro, che di lessiva fui assalito da un sonno tanto grave, che non m'haveriano svegliato le bombarde, onde non havendo tempo di gire a letto m'addormentai suso una panca nell'anticamera del mio studio, e così dormendo fisso mi pareua essere diventato un'oca; e che gli ebrei mi volevano fagatare, dove per fuggire da loro io svolatai tanto, che al fine io gli lasciai la testa in mano, e scampai via, ed arrivai in un bellissimo prato, e subito doventai un pastore, e volendo baciare una ninfa, ecco, che viene un lupo a bocca aperta, e mi mangia, poi mi va a evacuare sopra un'alto monte, dove che venendo giù sdrucciolone parve ch'io doventassi una botte di tribbiano, ed eccoti giongere una compagnia di tedeschi, e mi bevettero tutto, poi mi parve, ch'essi m'andassero a orinare in un pozzone cosi tosto fui nel fondo, che doventai una rana, e venendo una serva a prendere dell'acqua mi tirò fuora con il secchio, onde tosto saltai nell'herba, e doventai un babbuino, e subito parve ch'io fussj preso da un cerretano, il quale mi menò a tombolar per piazze, e mentre ch'io salto in suso pare ch'io doventi un boccale, ed un'hoste mi piglia, e m'empie d'aceto, in quella viene la moglie per accociar l'insalata, e mi pone suso una credenza, eccoti un gatto salta su la credenza, e mi getta in cinquanta pezzi, allora io comincio a piangere quanto posso, onde corse l'hoste, e la moglie, e tutti e forestieri, e mi fanno cucire insieme, e pare ch'io doventi un paio di stivali di vacchetta, ed un corriero mi si pone in gamba e corre cinquanta poste senza fermarsi mai, di maniera che mi caderono tutte due le suole, e quando fui stacconato gli saltai fuora delle gambe, e tosto doventai una mula d'un medico, e mentre che esso andava in visita io lo sentiva disputar, e cosi cominciai a imparare di grammatica, ed a fare le concordanze per tutti i casi, i numeri, e le figure, di modo che io sbattevo tutto l'altro bestiame, e paretemi ch'io entrassi nello studio del patrone, e gli mangiai tutti i libri sì di Medicina, e di Filosofia, come di Matematica, e di Poesia e me n'havevo fatto tal corpacciata, ch'io parevo proprio pregno, onde il patrone accortosi di questo, prese un legno, e mi rassettò il pelo, di maniera, che mi fece risentire, tal che svegliatomi con quella impression nel capo, mi trovai pieno di poetico furore, perché dormendo io havevo digerito l'altre scienze tutte, e perché in sogno mi son fatto Poeta, mi è parso di fare il presente capitolo sopra i sogni, che si fanno dormendo, mostrando quante chimere passano per il nostro cervello, concludendo in ultimo l'opinione ch'io tengo sopra di ciò, e questo servirà per Proemio dell'Opera, leggete, e state....





























Bramoso di vedere di parte in parte

Il mondo, l’ho girato in ogni via,

Ponendo a rischio ogn’hor la vita mia

Sopra l’onde del mar, fra velel e sarte.

 

E di quel, che Natura non comparte

A queste bande, ho fatto mercantia,

Facendola venir per lunga via,

Con gran sudor, fatica, ingegno e arte.

 

Trascorso ho tutto il globo de la terra,

E monti, e piani, e mari, e rivi e fiumi,

E quanto il cielo in sè rinchiude e serra.

 

Strane genti ho vedute, e stran costumi,

E mostri spaventosi, e fatto guerra

Con orsi e draghi, tra spelonche e dumi.

 

Genti che senza lumi

Vivono, ed altri ch’un sol’ occhio in testa

Tengon, e nudi van per la foresta.

 

Altri c’hanno la cresta

E ‘l becco torto, e cantan come galli,

Altri, dal petto in giù tutti cavalli.

 

Altri, che ne le valli

Vivono, altri in caverne e scure grotte,

Sotto aspri monti con perpetua notte.

 

Altri che vanno in frotte

Pe’ boschi, come serpi sibilando;

Altri, che come can vanno latrando.

 

Altri vanno ululando

Qual nottole, civette o barbagianni,

Altri, che al mondo sol vivono cinque anni.

 

Altri, che senza panni

Stanno sepolti vivi nell’arene,

nel sito ardente dell’aprica Siene.

 

Ho viste le Sirene,

Il can trifauce, l’Orca e la Chimera,

Ed ho fatto a le braccia con Megera.

 

Con la Sfinge una sera

Stetti, e mangiai un serpe a bolardello,

E mi diede da ber tosco e mapello.

 

Ho veduto l’avello

Dov’è rinchiuso il corpo di Medusa,

E i serpi horrendi, ch’a portar era usa.

 

Lo spirto di Lanfusa

Vidi una sera in groppa d’un montone,

Scorrer per aria sopra il mar Leone.

 

E con Demogorgone

Stei più d’un hora un giorno a parlamento,

Poi arrivai a l’isola del vento.

 

Ma d’indi, in un momento,

Soffiato indietro fui, con tal ruina,

Ch’io fui portato a l’isola di Alcina.

 

Vist’ho di Fallerina

L’horto, a là dove incantato brando

Le tolse (suo mal grado) il fiero Orlando.

 

E così costeggiando

Veduto ho la riviera, ove Medea

Fuggendo il padre, il frate morto havea.

 

Ne la selva Grinea

Veduto ho l’ombre de’ poeti, e molti

Ne riconobbi per quei luochi folti.

 

E per paesi incolti

Girando, vidi il crin de la Fortuna,

E gli Arcadi più antichi de la Luna.

 

Parnaso, ove s’aduna

Il choro de le Muse, e ‘l sacro fonte

Dove s’honora il padre di Fetonte.

 

Veduto ho l’alto monte

D’Atlante, e de l’Egira tutto il lido,

Dove già un tempo s’adorò Cupido.

 

Ho visto Papho, e Gnido,

Ed il paese dove nacque Bacco,

E la grotta dove i buoi nascose Cacco.

 

Ho veduto Lampsacco,

Dove sacrificare anticamente

Soleva a Priapo l’asin quella gente.

 

Ho veduto il tridente

Di Nettuno, ed insieme il loco ho visto

Dove già in orsa si cangiò Callisto.

 

Anco il paese tristo

Dove Corone si mutò in cornacchia,

Talo in perdice, che sovente gracchia.

 

Vedut’ho su una macchia

Il crudo Terreo in upupa converso,

E Filomena far dolente verso.

 

Itis andar disperso,

In forma di fiagiano, ed il thesoro

Di Mida, e u’ Dafne si cangiò in alloro.

 

Veduto ho il pomo d’oro

Che ‘l pastor frigio diede a Citharea,

Onde ne nacque poi guerra sì rea.

 

De la selva Neemea

Ho veduto il leon fiero e tremendo,

E ‘l porco Calidonio aspro ed horrendo.

 

L’altissimo e stupendo

Cavallo di Sinone ho visto ancora,

Ed albergato in casa de l’Aurora.

 

Il vaso di Pandora

Ho veduto, e la cetra di Anfione,

Tutta stemprata, e ‘l corno di Tritone.

 

Ho veduto il tizzone

Di Meleagro, e i pomi d’Atalanta,

E Mirrha convertita in dura pianta.

 

Di Circe tutta quanta

L’isola ho vista, e dove il saggio Ulisse

Ne l’occhio al fier Ciclope il ferro affisse.

 

La lancia che trafisse

Cigno, qual si vestì di bianche piume,

E di morir cantando è suo costume.

 

Del mal rettor del lume

Il carro vidi tutto fracassato,

E lo scoglio in cui Licha fu cangiato.

 

Narciso tramutato

In fiore ho visto, e dove in freddo humore

Bibli cangiossi per incesto amore.

 

Adon mutato in fiore,

Ati in pino, Aci in fiume e Batto in sasso,

E dove Nesso fu di vita casso.

 

Veduto ho il cane e il lasso

Di Paride, con cui solea talhotta

Per le selve cacciar le fiere in frotta.

 

Il loco, ove a la lotta

Fece il feroce Alcide e ‘l forte Anteo,

E ‘l folgore ch’uccise Capaneo.

 

La nave che già feo

Tiphi, per gire a l’isola di Colco,

E ‘l campo ove Giason fece il bifolco.

 

Ancor, l’aratro e ‘l solco

Che fece Cadmo, e i denti del serpente,

E dove Scilla il padre fe’ dolente.

 

Veduto ho parimente

D’Icaro l’ali tutte spennacchiate

Per non seguir del padre le pedate.

 

E le ricche contrate

Ho visto, ov’eran gli horti d’Alcinoo,

E dove Hercol tre’ il corno ad Acheloo.

 

Là dove Perithoo

Fe’ la gran pugna col crudel Centauro,

E di Pasiphe ho visto il Minotauro.

 

E dove in pioggia d’auro

In grembo a Danae Giove si converse,

E dove in mar Leandro si sommerse.

 

E la sorella d’Herse.

Cangiata in sasso, ed ho vista la pelle

Del monton, che portò già Friso ed Helle.

E dove le sorelle

Di Fetonte già fero amaro pianto,

Che ‘l re de’ fiumi poi ornaron tanto.

 

Vist’ho di Radamanto

Il palazzo, e quel d’Eaco e di Minosse,

E ove Tiresia in femmina cangiosse.

 

Son stato su le fosse

De l’intricato e scuro Labirinto,

E vist’ho dove in fior si fe’ Giacinto.

 

Veduto ho tutto il cinto

De l’horto hesperio, u’ sono i pomi d’oro,

E ‘l drago horrendo posto in guardia loro.

 

Veduto ho dive in toro

Giove cangiossi, in ripa a la marina,

Quand’Europa fe’ dolce rapina.

 

Ho vista la fucina

Del zoppo fabbro, dove a ogni stagione

Battono i magli Bronte e Piragmone.

 

Vedute ho d’Atteone

Le corna, e gli horti ne l’aria sospesi

D’Adonide, e di lor gran cose intesi.

 

E pure in quei paesi

Gli ministri del sonno ho visto in tanto,

Quai sono Morfeos, Fabetore e Fanto.

 

La selva d’Eromanto

Ho vista tutta, e gli arbori del sole,

E là v’è Amone il Daramanto cole.

 

L’alta superba mole

Del Colosso di Rhodi, e d’Hippocrene

Il chiaro fonte, e ‘l gran studio d’Athene.

 

E quanto gira e tiene

Di Menfi il muro, e la città di Pilo,

E tutte le piramidi del Nilo.

 

Ho ancor veduto il filo

Col qual del labirinto uscì Theseo,

E ‘l dolce plettro del famoso Orfeo.

 

Ho visto Briareo,

Il crudel Diomede, e ‘l fier Busiri,

Tantalo, Lichaon, e l’arco d’Iri.

 

Veduto ho fra gli Assiri

Un teatro, c’havea mille e trecento

Colonne, e tutto d’oro il pavimento.

 

E se ben mi rammento,

Veduto ho il tempio di famoso grido

Ch’a Giuno eresse la regina Dido.

 

Son stato dove il nido

Fa la Fenice, e visto ove s’accende

Quando nel rogo nuova vita prende.

 

Son stato ove non splende

Il sole, e u’ son l’acque ogn’hor gelate,

E dove si sta sotto perpetua estate.

 

L’isole Fortunate

Ho viste, e gli Arimaspi, e tutti i liti

De’ barbari crudeli e gli empi sciti.

 

Vist’ho gli Ermafroditi

I Caleidensi, gli Astomi, gli Achei,

gli Artabati, i Cureti gli Arinfei.

 

I ricchi Nabathei,

Gli Panfiglij ingegnosi e i Battriani,

Gli Derbici, gli Corcirei, gl’Hircani

 

Che fan mangiare a i cani

I lor defonti, e visto ho i sospettosi

Bitinij, e i Boeti furiosi.

 

Veduto ho gli schivosi

Budini, che si pascon di pedocchi,

E i Cauci, che sol vivon di ranocchi.

 

Ho veduto con gli occhi

Gli Agresti, Paramesidi e i Pandori,

Che prima son bianchi, e poi doventan mori.

 

I Marsi domatori

Di serpenti, e gli scopedi, che stanno

Al sole, e con un piede ombra si fanno.

 

L’hinospital Britanno

Ho visto, e il Medio gran cavalcatore,

E ‘l Mando, di locuste mangiatore.

 

Ancho il saettatore

Leuco, col lusitano invidioso,

Ed il Lacedemonio bellicoso.

 

Il vago e delitioso

Ionico ho visto, e ‘l Lido taverniero

Col falso Megarete e mpio e severo.

 

Il Taprobano altiero

Ho visto, col Mosineco spietato,

E ‘l Parian gentile e delicato.

 

Ancora il fortunato

Lothofago ho veduto, con l’audace

E fiero Sogdio, e ‘l smemorato Thrace.

 

Il Tartaro rapace,

Il Numida spietato ed il Norico

Di fero ricco, e di militia amico.

 

Il Cilicio nimico

Del riposo, e di furto così vago,

E quante gemme ha in sen Pattolo e ‘l Tago.

 

Vist’ho un antropofago,

E le spelonche in cavi sassi, e duri

De’ Trogloditi intrepidi e sicuri.

 

Ho visto i laghi oscuri

Di Stige, di Cocito e Caronte,

L’horrenda Cimbra e l’onde di Acheronte.

 

Averno, e Flegetonte,

L’augel di Titio, e ‘l seggio di Plutone,

E la ruota rigirata da Issione.

 

Ed in conclusione,

Girato ho questa sfera d’ogn’intorno,

Sin dove nasce, e dove muore il giorno.

 

Al fine ogni contorno

Havendo visto, e ricercato tutto

Il mondo, hora con spasso, hora con lutto,

 

Per trar qualche costrutto

Del gran viaggio e de la lunga via,

E non haver gettato il tempo via,

 

Di varia mercantia

Son ritornato carico, secondo

Le profession de l’arti, che pel mondo

Si fanno atondo, atondo.

 

E di Spagna ho condotti de’ metalli,

E d’Eolia finissimi christalli,

Ho condotto cavalli

Di Polonia, Moscovia e di Croatia,

E del miglio ho portato di Sarmatia.

 

De l’oro di Dalmatia,

Cotoni fini e rari di Soria,

Crini di Lidia e nitro d’Albania,

 

E de la Schiavonia,

Assai schiavine, e pece di Noricia,

E pepe e zafferano di Cilicia.

 

Porpore di Fenicia,

Tappeti rari e fin di Babilonia,

E de l’allume ancor di Macedonia.

 

E de la Paflagonia

Del bosso, e d’Alessandria assai spalliere,

E d’Attica ho condotto de le cere.

 

Portato ho delle vere

Perle d’Oceano, e di Levante

Muschio, e di Creta frezze non so quante.

 

De l’isola del Zante

E di Candia ho condotto ottimi vini,

E di Fiandra assai panni buoni e fini.

 

Gemme da li confini

Di Taprobana, e Lane di Miletto,

E di Numidia marmo bianco e schietto.

 

Di Sparta un bossoletto

D’alabastro ho portato, e de le rose

Di Pesto, molto grate e odorose.

 

E frutte saporose

Di Mauritania, ed ho portato fiori

Di Papho, e de l’Arabia mille odori.

 

Di più sorte colori

Uccelli ho ancor condotti in ste contrade

Da l’isole Felici, ovver Beate.

 

Polvi soavi e grate

Tolto ove stava l’amorosa dea,

E balsamo ho portato di Giudea.

 

E fin di Galilea,

Palme, e cedri di Libano, e fagiani

Di Scitia, e di Sicilia molti grani.

 

Di Francia vari cani,

E mele d’Hibra, e pigne di Licea,

E incenso, colto a l’isola Sabea.

 

De la selva Neemea

Strani animali e vari di Corinto,

Di Palestina gomma e terebinto.

 

E fin dal labirinto

Di Dedalo ho condotti in ste confine

Alti cipressi, e piante pellegrine.

 

Mirra dalle colline

Trogloditi ho tolta, e avorio fino

D’India ho portate, e conche di Lucrino.

 

E smeraldi, vicino

Eritrea tolti, e tratti in queste strade,

E d’Africa ho condotte molte biade.

 

Ambri in gran quantitade

Ho qua portati, tolti in Etiopia,

E d’Assiria bambagio in molta copia.

 

E con mia industria propria

Di Nebride ho condotte molte pelle,

Vasi di terra ed altre cose belle.

 

Di Pithecusa, e quelle

Guidate in queste parti, e oglio chiaro

Di Vanaso, e d’Armenia amomo raro.

 

Condotto ho de l’acciaro

Di Damasco, e per far maggior profitto,

Ho portato de l’herbe fin d’Egitto.

 

D’Arcadia il cammin dritto

Pigliando, ho latticinij qua portati,

E frutti molto cari e delicati.

 

E poscia ricercati

Ho i siti de l’Italia similmente,

spendendo de’ miei soldi il rimanente.

 

E tolto ho primamente

Sproni di Reggio, e aghi di Milano,

Raso lucchese e vetri da Murano.

 

Carta da Fabriano,

Velluto di tre peli genovese,

Tela cremasca e sarza cremonese.

 

Velluto ferrarese,

Tagliato ad opra in varie fogge belle,

E maschare da Modona, e rotelle.

 

D’Urbin varie scodelle

Di terra, nobilmente figurate,

E di Bitonto, olive al gusto grate.

 

Corone profumate

Di Roma, e stringhe, borse e saponetti,

Di Napoli, odoriferi e perfetti.

 

E forbici, e stuzzetti,

Di Brescia, lavorati a la zimina,

E seta di Montalto, rara e fina.

 

Di Nardò bambagina,

broccato e raffa fina di Fiorenza,

E piatti lavorati di Faenza.

 

Theriaca d’eccellenza

Fatta a Tortona, e specie venetiane,

Berrette veronesi e padovane.

 

Calzette mantovane,

Di seta bianche, nere, rosse e gialle,

E lame fine, fatte a Saravalle.

 

Del Regno, assai cavalle

Di buona razza ho tolte, e assai stalloni,

Per far corsieri a tutta prova buoni.

 

Così in tutti i cantoni

Ov’io son stato, e in ogni parte e loco,

Di quel che qua non nasce ho tolto un poco.

 

Sperando in tempo poco

Sopra tal merci far guadagno tale,

Se la spesa non rode il capitale,

 

In breve, esser uguale

A qual si voglia pratico mercante,

C’hoggi cavalchi il Ponente e il Levante.

 

E perché dopo tante

Fatiche, a la mia patria salvo e sano

Son gionto, di paese sì lontano,

 

Faccio palese e piano

A chi ha bisogna di tal mercantia,

Se vuol trovarmi a la bottega mia

Venghi dritto a la via

De’ Malcontenti, e batta a le mie porte,

Ch’io sto a l’insegna de la Poca Sorte.

 

IL FINE

 









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