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La credenza che
i fiori possano nascere dal sangue umano o aprirsi sulle tombe, alimentandosi le
radici delle piante nel cuore o sulle labbra di un povero morto, è assai estesa
in certe regioni delle Alpi, ed è ancora una poetica memoria del passato
rimasta fra gli alpigiani; poiché il rododendro che nasce dal sangue e
tingesi di colore più bello, ricorda le rose che dovettero la tinta vivissima
al sangue di Adone, ucciso dal cinghiale.
Una leggenda
delle Alpi dice pure che una specie di garofano (dianthus Carygophyl), che vedesi con
frequenza sulle montagne, si alimenta sulle tombe nel cuore dei poveri morti;
ed è forza che usi ogni cura, chi passa in un camposanto, per non guastare le
pianticelle. Se avviene di spezzare uno stelo delicato del triste garofanetto,
devesi chiedere scusa alle anime dei poveri morti.
Una leggenda
svizzera, invece, che trovasi con qualche variante
anche sulle Alpi del Tirolo, narra di certi gigli
meravigliosi che fiorivano sulle tombe; ma il racconto più noto fra gli
alpigiani è quello che ricorda un Duca Leopoldo d’Austria, possente signore ed
amato dai suoi vassalli, il quale mentre era uscito a cavallo dalla città di
Sempach fu assalito sulla via ed ucciso. Un anno dopo la sua morte nel 1387,
nel giorno di San Cirillo, un fiore bellissimo si aprì nel sito che era stato
bagnato dal suo sangue, ed essendo raccolto con ogni cura fu deposto in una
cappella. Sul terreno ove erasi aperto il fiore così raro e bello, fu eretta
una cappella, e nel 1515 anche nel giorno di San Cirillo, un altro fiore, che
si poteva dire cosa di paradiso, si aprì ancora nel sito ove era morto il duca
Leopoldo. Questo fatto vien pure ricordato in un documento del 1516.
.
Intorno alla primola auricola che fiorisce fra le rupi altissime
delle Alpi narrasi altra leggenda che rassomiglia a quella del rododendro; solo il pastore che morì
miseramente precipitando da vertiginosa altezza, e non lasciò il bel mazzo
raccolto per la fidanzata, erasi messo in quel cimento senza esserne pregato.
Dicesi ancora nell’Unterwald che il diavolo si diletti nel far crescere quei fiori
in siti quasi inaccessibili onde mettere a rischio la vita degli uomini, che
allettati dalla loro bellezza vogliono raccoglierli; e quasi inevitabilmente
debbono precipitare da rupe a rupe e morire nei burroni, o fra la rapida
corrente dei fiumi e dei torrenti che passano in mezzo ai massi neri.
Forse perché l’anima umana è più avvezza al dolore che alla gioia, le
leggende di certi fiori pur gentili e belli che rallegrano la terra, sono
tristi assai.
Il Diavolo — non abbiate paura, leggitrici gentili egli non è poi tanto brutto
come si dipinge — il diavolo, che ha
eseguilo in questo basso mondo tante opere mirabili di architettura, che ha
costruito stupende Cattedrali e gettato sui torrenti e sui fiumi arditissimi
ponti, deve anche essere stato l’inventore dei giardini.
Non mi citate
contro il giardino dell’Eden, dove l’onnipotente
volontà del Creatore pose in villeggiatura quelle due buone lane de’
progenitori nostri. Nessuno ha mai detto chi avesse disegnato i viali e piantato
i boschetti del Paradiso terrestre, dove sorgeva l’albero del Bene e del Male;
ma quel che sappiamo di sicuro è che il
Demonio faceva da padrone là dentro, e l’Angelo dalla spada fiammeggiante,
posto a guardia del cancello, non ebbe mai potestà di contendergli il passo.
Questa opinione, che mi pare perfettamente ortodossa, mi è saltata in testa pensando
come, dal padre Adamo in poi, la più bella fioritura in tutti i giardini della
terra sia stata sempre la fioritura de’ peccati mortali. Non istiamo a
rammentare il fatai pomo e le sue terribili conseguenze per i più tardi nepoti.
Ormai la frittata è fatta, e i serpenti, grazie a Dio, non offrono più mele
alle signore. Offrono loro piuttosto delle collane di brillanti e delle
carrozze a due cavalli; ma cotesto genere di seduzioni, che mette qualche
dispiacere pel capo a’ mariti, non ha influenza veruna sulle generazioni
future.
Pensiamo piuttosto
a tutte le mariuolerie compiute nei giardini d’Alcinoo,
ne’ sacri boschetti di Diana Efesia, negli orti di Epicuro, nei pensili
giardini di Babilonia, in quelli dello buon re Renato nei tepidari del Trianon,
fra le aiuole di Sceaux, e fra le ombre silenti de’ cespugli del Belvedere e
del Quirinale. Si direbbe che sotto i lunghi pergolati, nella calda atmosfera
delle stufe, al rezzo delle siepi di lauro e di mortella, nascano spontanee le
infrazioni a tutti e dieci i comandamenti di Dio e le ubbidienze agli astuti
consigli del Demonio.
Vero è che noi dobbiamo al diavolo una immensa riconoscenza. Senza di lui l’uomo e la donna sarebbero
ornati di tutte le perfezioni.... e immaginatevi che noia!... Noi però, senza
aver l’aria di darcene troppo pensiero, abbiamo di molto perfezionata l’opera e
l’invenzione di Belzebù.
I nostri
giardini pigliano a prestito ogni maniera di seduzioni da tutte le arti, da
tutte le scienze di questo mondo.
Ci vogliamo dei tepidari, dove una dolce sonnolenza invita al molle
abbandono e all’oblio degli obblighi del proprio stato; ci innalziamo delle
stufe, dove il calore dell’ambiente fa bollire il sangue nelle vene; ci
pratichiamo dei recessi misteriosi, dove occhio indiscreto non penetra a
scoprire le marachelle de’ visitatori; a tutte le piante attacchiamo un
cartellino con certi nomi che solleticano la tentazione e mandano in risate il
pentimento…
…Popoliamo i boschetti con certe statue da farsi il segno della croce; e disponiamo pei
viali, ne’ padiglioni e nelle Aranciere certi mobiletti graziosi, leggeri e
solidi al tempo stesso, con delle forme provocanti che suscitano alla prima gli
stimoli dell’accidia, ovvero.... pigrizia! Andate a vagolare per una mezz’ora
sotto i porticati laterali del grande edificio dell’Esposizione, e tornerete a
casa con un intero patrimonio di peccati di desideri.
Vedrete gli
apparecchi di riscaldamento, dalle grandi stufe di
ferro e cristallo de’ Mathian padre e figlio, di Lione, ai disegni ridotti in
minime proporzioni dallo Zani di Suint-Germain-en-Laye e dal Britton di
Bruxelles; da’ telai di moltiplicazione del Guynat di Francheville, alle
cassette di riproduzione del Veitch di Londra. Mettete lì dentro un povero
fiore inpocentino e modesto, una pianticella morigerata cresciuta nel santo
timor di Dio, e subito quella temperatura diabolica, quel contatto che
moltiplica le occasioni, faranno nascere un visibilio di conoscenze
clandestine, di relazioni peccaminose, e di ibridismi riprovati dal codice
civile de’ vegetabili.
Il signor Mathian ha un bel guadagnarsi delle medaglie d’oro in
questo mondo, ma il giorno del giudizio universale, quando il Padre comune
degli uomini e de’ legumi gli domanderà con voce tonante:
Che hai tu fatto
delle vergini Orchidèe affidate alla tua custodia
…garantisco io che il signor Mathian passerà un brutto quarto d’ora,
e tutte le sue medaglie, neanco se fossero di San Venanzio, non lo salveranno
dalla gran cascata!...
E poi vedrete i vasi e le cassette, di terra cotta e di porcellana, le
giardiniere, i deschetti, i tripodi, le panierine, le sedie, le poltrone, le
graticciate, e i ponticelli destinati all’adornamento dei giardini.
Il cavalier Pasquale Franci di Siena piega i tondelli e rintaglia le
lastre di ferro, come se fossero semplici bacchette di giunco e sottilissimi
cartoncini per biglietti da visita. Su quelle belle poltroncine soffici come di
velluto imbottito ci si deve stare d’incanto, all’ombra d’una pergola carica di
grappoli d’uva, con una buona tazza di caffè, un sigaro d’avana, e.... una buona
occasione di barattare quattro parole a voce bassa, fra i tropeoli dell’amicizia.
Anco i mobili del signor Bencini di Firenze hanno un’aria di
civettesca semplicità e di solida leggerezza, che invita prenderci posto e a
passarci una mezz’ora in santa pace. Ah! come prenderei volentieri una dozzina
di quelle seggiole e un paio di que’ tavolini in legno e ferro.... con una
villetta annessa e otto o dieci poderi!... Mi ci sdraierei sopra a pancia
piena, ci leggerei la Nazione a tempo avanzato, sorriderei a’ ghiribizzi d’un
altro Yorick purchessia, e brontolerei fra uno sbadiglio e l’altro:
Gran matto quell’ Yorick!...
Dev’essere un uomo che non ha mai nulla da fare!...
Anco il Méry
Picard di Parigi, che imita colla ghisa e col ferro fuso i
ramoscelli degli alberi e i fuscellini degli arbusti, ha mandato quaggiù una
collezione di sgabelletti, di tripodi, di piedistalli da vasi.... e perfino un
ponticello destinato a qualche fiume in miniatura, a qualche ruscelletto
diminutivo, di quelli che apostrofava con sì comica bile il nostro Giambattista
Fagiuoli, e a cui il Testi cantava: ‘Non gorgogliar cotanto/ Non gir sì torvo a flagellar la sponda/ Che,
benché Maggio alquanto/ Di liquefatto gel t’accresca l’onda,/ Sopravverrà ben
tosto,/ Essiccator di tue gonfiezze, Agosto!’.
Ma intanto sedere nell’agile barchetta, dondolarsi sull’onda al lume della luna
e vedere i piedi chinesi della bella castellana zampettare furtivi sulle assicelle
del ponto, dev’essere una beatitudine da andare in brodo di succiole. Gli
eleganti steccati e i graziosi cancellini del Bourget di Lione mi hanno
risvegliato tutte le sopite concupiscenze giovanili. Me li figuro drizzati
lungo la proda, sul limite di due possessi contigui, mentre da una parte sta il
giovinetto intraprendente e dall’altra la fanciulla.... intrapresa. Lo steccato
rappresenta allora il così detto baluardo della morale, del dovere e della
convenienza. Il male è che a questi tempi in cui s’insegna tanta ginnastica a’
ragazzi e alle signorine.... Basta!... uno steccato m’è sempre parso una cosa
messa lì apposta per far venir la voglia di saltare dalla parte di là!...
Cotesta tentazione però non viene di sicuro a chi guarda le
incalocchiate del Mure di Torino, ch’egli intitola tranquillamente:
Cancellate a
tavola.
Vedete un po’ che bella cosa! Anco le cancellate vanno a tavola, in
que’ paesi benedetti dove non manca la voglia di banchettare nemmeno alle
calocchie. Buon’appetito alle cancellate del signor Mure! Elle debbono durare
un pezzo in buono stato, se non è bugiardo il nostro famoso proverbio che dice:
A tavola non ci s’invecchia!...
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