CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

martedì 10 ottobre 2023

NEL CREPACCIO (26)

 








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con Paul Preuss (25)


Prosegue ancora...:


Nel crepaccio 








il capitolo completo [27] 








& con gli orrori dei... (28) 


.... e che Iddio ci aiuti!










Ero di nuovo più gaio e senza presentimenti.

 

E tuttavia dietro di me già stava l’attimo nero con la scure levata in alto, ma io non lo vedevo, non sentivo il suo freddo alito sulla mia nuca. Ero stanco per dodici ore di fatica aspra e senza fare attenzione feci alcuni passi piano piano...

 

Ed ecco la neve si apre sotto i miei piedi e già un povero corpo umano precipita senza resistenza rombando nel buio. Sento ancora una voce roca gracchiare né piano né forte:

 

‘Questa è la morte’.

 

Essa dev’essere pur venuta dalla mia gola.




Già sbatto pesantemente davanti a me alla parete, dietro di me alla parete e più in basso di nuovo davanti a me alla parete. ‘Vigliacco!’ questo è l’ultimo pensiero di cui mi ricordo. A tale rude trattamento del santo corpo umano non si è abituati, questo fece rivoltare il mio sentimento per la decenza: un gatto preso per le piote posteriori e scaraventato violentemente contro una scala:

 

...io ero il gatto!

 

Dopo il terzo urto durante la caduta, cioè ancora prima del suo arresto, la mia memoria ha una pausa per un numero di battute che non so: di conseguenza ero svenuto.




Nebbia... buio... nebbia... ronzìo... un velo grigio con una piccola macchia più chiara... nebbia... crepuscolo scialbo... bisbiglio basso... un sordo malessere... nebbia... a qualcuno è successo qualche cosa... nebbia più cupa, sempre quel punto chiaro... brividi di freddo: qualche cosa di freddo e bagnato... nebbia...

 

A che punto si era?

 

...Sforzo di pensare... Ah, sempre nebbia ancora; ma oltre quel punto chiaro lì fuori, un altro emerge di dentro: bene, questo sono io!...

 

Nebbia, un tintinnio ottuso, gelo... un sogno?...




Sì, certo... un brutto, brutto, brutto sogno!...

 

Ha sognato... no, propriamente: io ho sognato...

 

Che cosa?... Caduta...

 

Sì, io sognavo che ero caduto in un crepaccio...

 

Respiro più leggero... ah!...

 

‘Sì, perché era solo un sogno..’




Che cosa era? Chi è che ha cantato forte qui? Chi ha canterellato una melodia di Offenbach...

 

La nebbia intorno al mio interno si schiarisce un poco... Io? qui? al buio? e perché? perché così freddo e umido? e qui cos’è che afferro così gelato?... Ghiaccio!

 

Come un ago di acciaio aguzzo, sottile, mi passa ad un tratto per il cervello: io sono nel crepaccio... Non è un sogno.., realtà gelida! Ma non comprendo ancora tutto quello che è accaduto... la mia coscienza è solo per metà chiara, metà ancora avviluppata... e ancora la nebbia avvolge il mio occhio, sempre con quel punto chiaro.




La spaccatura è stretta, a destra e a sinistra le mie mani urtano nel ghiaccio duro; giaccio mezzo inclinato all'indietro, sopra un mucchio di neve incastrato dentro, ma non si va più profondi... forse!...

 

No, all’apparenza questo è il fondo del crepaccio... Non c’è niente che mi faccia male, però sono così pestato, pestato, come se ciascuno dei miei nervi fosse stato sotto il martello del fabbro, e così sfinito!... Mi riverso di nuovo all’indietro in una smemoratezza stranamente dolce... nebbia... bisbigli.., freddo umido... nebbia...

 

D’improvviso mi riscuoto: orrore, dov’è il mondo? il mio mondo?... guardo pesantemente in alto, ma vedo sempre nebbia e solo una piccola macchia chiara come prima... Perché nebbia? Ferito? O del tutto (i miei denti si battono a vicenda) ... o del tutto cieco? Ma no! Io vedo tuttavia davanti a me la neve!... Ma sempre nebbia!




Caccio meccanicamente la mano nel taschino dell’orologio, apro il coperchio interno della cassa, che nelle escursioni mi serve da specchio e lo avvicino alla faccia: sangue... sangue dappertutto!

 

L’occhio destro quasi chiuso, paonazzo e il sangue cola giù per il bulbo, cola per la guancia, lungo i baffi e giù per il collo, sulla mano, nella neve.

 

Sangue sgorga dal labbro, sangue esce dal mento.




Sono preoccupato del mio occhio destro, lo apro col dito, strizzo l’occhio sinistro; no, ci vedo come prima. Sopra la palpebra si apre uno squarcio breve e profondo fino all’arco dei sopraccigli. La guancia destra è molto rigonfia, ma sento poco dolore; non sapevo ancora che l’osso zigomatico era fratturato in due punti. Mi mancano gli occhiali da neve, che sono adattati alla mia vista; dove sono? Non importa; ho due occhialini di riserva: sono ben conservati nel taschino della camicia. Non c’è che da pulirli e inforcarli. Ah, finalmente vedo in un modo tollerabile!

 

Mi guardo intorno: un carcere orrendo! Alte, spaventosamente glabre, e tuttavia con una certa irregolarità, si lanciano le pareti di ghiaccio. Lassù, circa all’altezza di un piano, la spaccatura è chiusa da un masso di ghiaccio. La mia caduta ne ha sfondato un grosso pezzo; attraverso quest’apertura, a una distanza sgomentante dallo strato superiore di neve, occhieggia una seconda apertura: là solo è l’azzurro del cielo, di là si riversa nella notte quel po’ di luce per l’uomo solitario che sanguina sul ghiaccio...




Dunque condannato a una lenta morte?

 

Lontano da ogni aiuto, lontano dalla patria, non ritrovabile per i miei. Tra cinquant’anni circa, il ghiacciaio deporrà al suo margine inferiore uno scheletro misterioso.

 

E tuttavia non ero disperato.

 

Nella mia memoria era balenato ciò che già da molti anni avevo calcolato fin nei minimi particolari, cioè come dovevo comportarmi, nel caso fossi caduto in un crepaccio. E appena pensato, mi si impose nello spirito con nitidezza cristallina il piano per l’opera di liberazione. Ero pieno di lieta confidenza, tutte le mie forze spirituali miravano ora ad una sola cosa, a ciò che era necessario in quel momento; per la mezz’ora che seguì, tutto il mio io fu trasformato in attività baldanzosa. Chi non ha ancora difeso coi denti la vita, non sa che cosa significhi vivere momenti di concentrazione assoluta.




 D’altronde questi mi sembravano accessori, come se durante tutta la salita la mia coscienza non si fosse fatta interamente chiara. La mia attività, commisurata esclusivamente allo scopo, era un po’ simile a quella di un sonnambulo sulla gronda di un tetto. Simile a un orologio si scaricava nel mio cervello quello che io avevo già calcolato forse da dieci anni.

 

Io non posso mai raccomandare abbastanza di abituarsi a raffigurare già in precedenza, nella fantasia, tutte le possibilità. Certo si diventa così più pusillanimi, però solo a questa abitudine io devo la fulminea ‘presenza di spirito’, che mi ha già più volte salvato.




Anzitutto un inventario accurato del mio corpo: costole al completo, contusioni e botte dovunque, ma nulla di serio, dolore appena appena; così all right fino ai tre squarci nella faccia e alla guancia rigonfia. Ma lo strappo sopra la palpebra sanguinava in modo vergognoso, il mio occhio destro vedeva sempre come attraverso una nebbia rossastra ed era quasi inservibile. Anche la mano destra era lacerata in vari punti, tuttavia potei farne uso come prima. Siccome le pareti del crepaccio scendevano a concavità e convessità irregolari, perciò fui sbatacchiato qua e là così sconciamente. Ma proprio questa fu forse la mia fortuna: gli urti ripetuti e il distacco di pezzi di ghiaccio attutirono la violenza della mia caduta, cosicché non mi spezzai né gambe né braccia.




Sì, va bene... Spavento!... dov’è la piccozza? Piano, là, sepolta nella neve. È arrivata prudentemente fin qui: trionfo! Ora sono sicuro del fatto mio. Però anche fredda riflessione e somma cautela. Sciolgo le grappe dal sacco e le fisso alle scarpe. Accidenti, come son pesto! Nella salita con volontà d’acciaio dovrò richiamare le ultime forze di riserva.

 

Ora avanti, svelto all’opera!... Piano, il cappello! Con la piccozza lo vado a pescare. Procedo con molta circospezione, per non incassarmi ancora più profondo. Che cosa c’è là? Gli occhiali da neve frantumati. Fa nulla. Un bel ricordo per i tardi giorni. Mettiamoli via. Così... ancora un’occhiata all’orologio: ore 16 e 5 minuti.


Ed ecco scavati due gradini uno sopra l’altro in una parete, ci pianto dentro con le grappe, con la schiena mi puntello contro l’altra parete e a spintoni mi caccio su finché le gambe sono in posizione del tutto obliqua; naturalmente, data la ristrettezza della crepa, le ginocchia restano piegate. E di nuovo scavo altri gradini più sopra, a sinistra, a destra, diagonalmente gli uni sugli altri.

 

Diavolo!




È un ghiaccio duro come la roccia!

 

Anche all’interno il ghiacciaio è vetrato e non soltanto sul lembo inferiore. Su col piede sinistro e poi col destro ancora più in alto. Spingo a poco a poco innanzi per adesione la schiena. Uff, come si va avanti con difficoltà! Il sacco mi preserva dal freddo ma mi imbarazza molto in questo movimento da verme. Fermo, ci sono! Proprio all’altezza dell’anca faccio un foro nel ghiaccio, v’infilo il becco della piccozza e appoggiandovi la mano, mi sollevo in alto. Poi mi puntello ancora con la schiena e sopra di me scavo nuove tacche per i piedi. E così si va avanti, sempre sostenuto obliquamente tra i due muri di ghiaccio a forza di zeppe.

 

A questo punto m’accorgo con terrore che il crepaccio si allarga.

 

Che fare?




Ecco, mi viene un pensiero.

 

Là, un po’ più oltre, di nuovo si stringe.

 

Bene!

 

Nella parete su cui fa pressione la schiena, batto un largo gradino e vi ci metto il piede destro. Ora con una forte pressione incastro la piccozza diagonalmente tra le due pareti, mi ci appoggio sopra, puntello la scarpa sinistra in alto con appena il margine esterno entro il suo gradino e poi tiro su anche il piede destro. Sto proprio magnificamente in questa posizione di spaccata! Ora alla stessa altezza pratico dei gradini lateralmente e così mi sposto orizzontalmente tra le pareti. Poco dopo le due pareti si riavvicinano e io posso continuare col precedente sistema d’appoggio.




Ma, ahimé, ho dimenticato che mi sta sopra uno strato di ghiaccio chiuso e il foro prodotto dalla mia caduta sta alcuni metri dietro di me nel cavo della spaccatura. Dovrei aprire un foro sopra la mia testa. Per fortuna tre giorni fa ho perforato dal di sotto la cornice sulla Wildspitze e so che questo non presenta affatto difficoltà.

 

Confortato mi spingo su di nuovo con la tecnica d’appoggio, così alto che il mio cappello già urta contro il ponte di ghiaccio. Nella parete contro la mia schiena scavo ancora un appoggio sicuro per il piede destro e incido un po’ a destra un taglio sul tetto del mio carcere. Ah, meraviglioso! Il ponte di ghiaccio è molto duro e grosso, e nel salire mi troverò alquanto più protetto e lassù nella parete di fronte vi è una lista di ghiaccio larga quasi quanto una mano.

 

Anzitutto scavo buoni gradini davanti e dietro di me fino all’altezza dello strato di ghiaccio. Quindi infilo la testa e il braccio sinistro con la piccozza attraverso il foro, appoggio la piccozza e il braccio su questa lista sicura e mi accingo a uscire col corpo.

 

Maledizione!

 

Il foro è riuscito troppo stretto.




Allora cerco prudentemente col piede gli ultimi gradini, rientro, mi rimetto in spaccata e l’apertura è allargata.

 

E su di nuovo...


(E. G. Lammer)


[PROSEGUE CON IL CAPITOLO COMPLETO] 









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