CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

domenica 22 ottobre 2023

PREDICA DELLA DOMENICA, ovvero: ANIME e DEMONI... (36)









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so' tornati li lupi... (35)  


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capitolo completo   


& con... (??!!) [37]








Angeli Uomini e Dèmoni  







Dopo la morte la traslazione dell’anima doveva continuare. O è stato assorbito nel nous, in Brahma, nella divinità, oppure è sprofondato nella scala della creazione ed è stato degradato per animare un bruto.

 

Così la dottrina della metempsicosi era ed ‘è’ enfaticamente una delle ricompense e delle punizioni, poiché la condizione dell’anima dopo la morte dipende dal suo addestramento durante la vita.

 

Un uomo selvaggio e assetato di sangue fu esiliato, come nel caso di Licaone, nel corpo di una bestia feroce: l’anima di un uomo timoroso entrò in una lepre, e gli ubriaconi o i golosi divennero porci.

 

L’intelligenza che si manifestava nelle bestie aveva una somiglianza così stretta con quella dell’uomo, nell’infanzia e nella giovinezza del mondo, che non c’è da meravigliarsi se i nostri antenati non sono riusciti a individuare la linea di demarcazione tracciata tra istinto e motivo. E non riuscendo a distinguere questo, naturalmente caddero nella credenza nella metempsicosi.




Non era semplicemente una somiglianza esteriore immaginaria tra la bestia e l’uomo, ma era la percezione di abilità, perseguimenti, desideri, sofferenze e dolori come i suoi, nella creazione animale, che ha portato l’uomo a rilevare all’interno della bestia qualcosa di analogo a l’anima dentro di sé; e questo, nonostante i punti di contrasto esistenti tra di loro, suscitò nella sua mente una simpatia così forte che, senza un grande sforzo di immaginazione, investì la bestia dei propri attributi e dei pieni poteri della propria comprensione. Lo considerava mosso dagli stessi motivi, soggetto alle stesse leggi dell’onore, mosso dagli stessi pregiudizi, e quanto più la bestia era alta nella scala, tanto più la considerava alla pari.




Tra molte persone certamente più attente e colte, il corpo è considerato come un semplice indumento avvolto attorno all’anima. Il buddista considera l’identità come esistente solo nell’anima, e il corpo come identità costitutiva non più degli abiti che indossa o si toglie. Esiste come spirito; per comodità si riveste di un corpo; a volte quel corpo è umano, a volte è bestiale. Quanto più la sua anima si eleva nella scala spirituale, tanto più nobile è la forma animale che essa abita. Lo stesso Budda attraversò vari stadi dell’esistenza; in uno era una lepre, e la sua anima essendo nobile, lo portò a immolarsi, affinché potesse offrire ospitalità a Indra, il quale, in forma di vecchio, bramava da lui cibo e riparo.

 

Il buddista considera gli animali con riverenza; un antenato può essere affittuario del corpo del bue che sta guidando, oppure un discendente può correre al suo fianco abbaiando e scodinzolando. Quando cade in un’èstasi, la sua anima lascia il suo corpo per un po’, si spoglia del suo vestito di carne, sangue e ossa, per ritornarvi ancora una volta quando la trance è finita.




Ma questa idea non è limitata ai buddisti, è comune ovunque. Si suppone che lo spirito o anima sia imprigionato nel corpo, il corpo non è altro che la lanterna attraverso la quale lo spirito risplende, si crede che ‘il corpo corruttibile’ ‘prema l’anima’ e l’anima non è in grado di raggiungere la felicità perfetta finché non si è allontanato da questa spira terrosa.

 

Butler considera le membra del corpo come tanti strumenti usati dall’anima allo scopo di vedere, udire, sentire, ecc., proprio come usiamo i telescopi o le stampelle, e che possono essere respinti senza danneggiare la nostra individualità.

 

Questo è evidente, e così sono sorti gli innumerevoli racconti di trasformazione e trasmigrazione che si trovano in tutto il mondo. Che la stessa visione del corpo come mero rivestimento dell'anima fosse presa dai nostri antenati teutonici e scandinavi, è evidente anche dall'etimologia delle parole leichnam, lîkhama, usate per esprimere il corpo senz’anima.




 Ho già parlato della parola norrena hamr, vorrei ora fare alcune ulteriori osservazioni su di essa. Hamr è rappresentato in anglosassone da hama, homa, in sassone da hamo, in antico alto tedesco da hamo, in antico francese da homa, hama, a cui sono legati i gotici gahamon, ufar-hamon, ana-hamon; e-hamon, af-hamon, da qui anche l’antico hemidi dell’alto tedesco e il moderno hemde, indumento. Nella composizione troviamo questa parola, come lîk-hagnr, in antico norreno; in antico alto tedesco lîk-hamo, anglosassone lîk-hama, e flæsc-hama, antico sassone, lîk-hamo, tedesco moderno leich-nam, un corpo, cioè una veste di carne, proprio come vengono chiamati i corpi degli uccelli in antico norvegese fjaðr-hamr, in anglosassone feðerhoma, in antico sassone fetherhamo, o abiti di piume; e i corpi dei lupi sono chiamati in antico norvegese ûlfshamr, e i corpi delle foche in faroesekopahamr. Il significato dell’antico verbo að hamaz è ora evidente; significa migrare da un corpo all’altro, e hama-skipti è una trasmigrazione dell’anima. Il metodo di questa trasmigrazione consisteva semplicemente nel rivestire il corpo con la pelle dell’animale in cui l’anima doveva migrare.

 

Quando Loki, il dio nordico del male, andò alla ricerca dell’Idunn rubato, prese in prestito da Freyja il suo vestito da falco e divenne subito, a tutti gli effetti, un falco. Thiassi lo inseguì mentre lasciava Thrymheimr, avendo prima preso su di sé l’abito di un’aquila e diventando così un’aquila.




  ANDARE IN SPIRITO 

 

Ciò che mi aveva indotto a riconoscere una giusta intuizione nella squalificatissima tesi della Murray (o meglio in una parte di essa) era stata la scoperta di un culto agrario di carattere estatico diffuso in Friuli tra  500 e 600. Esso è documentato da una cinquantina di processi inquisitoriali tardivi (1575-1675 circa), decisamente atipici, provenienti da una zona culturalmente marginale: elementi che contraddicono tutti i criteri esterni fissati da Kieckhefer per isolare, al di là delle sovrapposizioni dotte, i lineamenti della stregoneria popolare. Eppure da questa documentazione emergono elementi decisamente estranei agli stereotipi dei demonologi.

 

Uomini e donne che si autodefinivano ‘benandanti’ affermavano che, essendo nati ‘con la camicia’ (ossia avvolti nell’amnio) erano costretti a recarsi quattro volte all’anno, di notte, a combattere ‘in spirito’, armati di mazze di finocchio, contro streghe e stregoni armati di canne di sorgo: la posta delle battaglie notturne era la fertilità dei campi. Gli inquisitori, visibilmente stupefatti, cercarono di ricondurre questi racconti allo schema del sabba diabolico: ma, nonostante le loro sollecitazioni, dovettero passare quasi cinquant’anni prima che i benandanti si decidessero, tra esitazioni e pentimenti, a modificare le loro confessioni nel senso richiesto.




La realtà fisica dei convegni stregoneschi non riceve alcuna conferma, neppure per via analogica, dai processi contro i benandanti. Essi dichiaravano concordemente di uscire la notte ‘invisibilmente con il spirito’, lasciando il corpo esanime. Solo in un caso i misteriosi deliqui lasciano intravedere l’esistenza di rapporti reali, quotidiani, forse di tipo settario. La possibilità che i benandanti si riunissero periodicamente prima di affrontare le esperienze allucinatorie, del tutto individuali, descritte nelle loro confessioni, non può essere provata in maniera definitiva. Proprio qui invece, per un curioso equivoco, alcuni studiosi hanno visto il succo della mia ricerca. I benandanti sono stati definiti da J. B. Russell ‘la prova più solida che sia mai stata fornita dell’esistenza della stregoneria’; da H. C. E. Midelfort, ‘l’unico culto stregonesco documentato fino ad oggi in Europa nei primi secoli dell’età moderna’.




Espressioni come ‘esistenza della stregoneria’ e ‘culto stregonesco documentato’ (poco felici perché assumono il punto di vista deformante degli inquisitori) tradiscono, come risulta dal contesto in cui sono state formulate, la già ricordata confusione tra miti e riti, tra complesso coerente e diffuso di credenze e gruppo organizzato di persone che le avrebbero praticate. Ciò è particolarmente evidente nel caso di Russell, che parla delle battaglie notturne con i ‘membri del culto stregonesco locale’, trascurando il fatto che i benandanti dichiaravano di parteciparvi ‘invisibilmente con il spirito’; più ambiguamente, Midelfort accenna alla difficoltà di trovare, sulla traccia dei benandanti, altri casi di ‘rituale di gruppo’.

 

L’obiezione che mi è stata mossa da N. Cohn, e cioè che ‘le esperienze dei benandanti... erano tutte di tipo estatico (trance experiences)’ e costituivano ‘una variante locale di quella che era stata, secoli prima, l’esperienza comune delle seguaci di Diana, Erodiade e Holda’, va rivolta in realtà a Russell e, in parte, a Midelfort. A me sembra del tutto accettabile anche perché coincide quasi alla lettera con ciò che avevo scritto nel mio libro.




Il valore della documentazione friulana va cercato, a mio parere, in tutt’altra direzione. Sulla stregoneria (è un’ovvietà, ma non è male ripeterla) disponiamo unicamente di testimonianze ostili, provenienti o filtrate da demonologi, inquisitori, giudici.

 

Le voci degli imputati ci giungono soffocate, alterate, distorte; in molti casi non ci sono giunte affatto. Di qui -per chi non voglia rassegnarsi a scrivere per l’ennesima volta la storia dalla parte dei vincitori - l’importanza delle anomalie, delle crepe che si aprono talvolta (molto raramente) nella documentazione, incrinandone la compattezza. Dallo scarto prolungato tra i racconti dei benandanti e gli stereotipi degli inquisitori affiora uno strato profondo di miti contadini, vissuto con straordinaria intensità.

 

A poco a poco, attraverso la lenta introiezione di un modello culturale ostile, esso si trasformò nel sabba.

 

Vicende analoghe si erano verificate altrove?




Fino a che punto era possibile generalizzare il caso - documentariamente eccezionale - dei benandanti?

 

Allora non ero in grado di rispondere a queste domande ma esse mi parevano implicare ‘un’impostazione in gran parte nuova del problema delle origini popolari della stregoneria’. Oggi parlerei piuttosto di ‘radici folkloriche del sabba’. Il giudizio sulla novità dell’impostazione mi pare invece ancora da sottoscrivere.

 

Tranne poche eccezioni la ricerca sulla stregoneria ha seguito infatti strade molto diverse da quella che prospettavo allora. A orientare l’attenzione degli studiosi prevalentemente verso la storia della persecuzione della stregoneria, ha certo contribuito in molti casi un pregiudizio (non sempre inconsapevole) di sesso e di classe. Termini come ‘bizzarrie e superstizioni’, ‘credulità contadina’, ‘isteria femminile’, ‘stranezze’, ‘stravaganze’, ricorrenti, come si è visto, in alcuni degli studi più autorevoli, riflettono una scelta preliminare di natura ideologica.




Ma anche una studiosa come la Larner, che muoveva da tutt’altri presupposti, ha finito col concentrarsi sulla storia della persecuzione. L’atteggiamento di solidarietà postuma con le vittime è certo molto diverso dall’ostentata superiorità nei confronti della loro rozzezza culturale: ma anche nel primo caso lo scandalo intellettuale e morale costituito dalla caccia alle streghe ha quasi sempre monopolizzato l’attenzione.

 

Le confessioni dei perseguitati, donne e uomini - soprattutto se riferite al sabba - sono apparse, a seconda dei casi, intrinsecamente irrilevanti o contaminate dalla violenza dei persecutori. Chi ha cercato di intenderle letteralmente, come documento di una cultura femminile separata, ha finito con l’ignorare il loro denso contenuto mitico.

 

Rarissimi, in verità, sono stati i tentativi di accostarsi a questi documenti con gli strumenti analitici offerti dalla storia delle religioni e dal folklore - discipline da cui anche i più seri tra gli storici della stregoneria di solito si sono tenuti lontani, quasi si trattasse di campi minati.




Paura di cadere nel sensazionalismo, incredulità nei confronti dei poteri magici, sconcerto di fronte al carattere ‘pressoché universale’ di credenze come quella nella trasformazione in animali (nonché, naturalmente, l’inesistenza di una setta stregonesca organizzata) sono stati tra i motivi addotti per giustificare una drastica, e alla lunga sterile, delimitazione del campo d’indagine.

 

Tanto i persecutori quanto i perseguitati sono invece al centro della ricerca che presento ora. Nello stereotipo del sabba ho ritenuto di poter riconoscere una ‘formazione culturale di compromesso’: l’ibrido risultato di un conflitto tra cultura folkloriea e cultura dotta.

 

Sin dall’inizio, la suggestione principale fu quella contenuta nell’opera di C. Ginzburg, il quale, in diversi lavori, ha tracciato una prospettiva storica di amplissimo respiro attorno alla tematica che ci interessa.




In questo modo è divenuto possibile concepire quei nostri frammenti quasi come tasselli da sistemare su un telaio precostituito, anche se ovviamente non fisso. In altre parole è sembrato possibile ravvisare un contesto, che offrisse spazio per un significato solo apparentemente perduto.

 

È necessaria a questo punto una digressione.

 

In quelle opere, in particolare in quella più organica, Storia Notturna, l’Autore delinea una prospettiva storica complessiva, fondata non solo sui testi di processi alle streghe da cui prende avvio la sua ricerca, e non limitata al tema al quale sembra fare riferimento il sottotitolo (Una  decifrazione del sabba), ma soprattutto articolata su una vastissima rassegna di elementi del folklore europeo, che gli consentono di ricondurre molti aspetti di leggende/credenze affioranti nella tradizione orale a una matrice unitaria assai lontana nel tempo, e insieme di tracciare a grandi linee il percorso storico di queste stesse credenze (quindi anche di quelle locali, nel nostro tentativo) da una remota preistoria sino alle vicende degli ultimi secoli che le hanno fortemente deformate e soprattutto frammentate.




Per continuare il nostro riassunto, la matrice unitaria, risalente alla preistoria, cioè a partire dalle società di cacciatori-raccoglitori del Paleolitico superiore, e poi sviluppata nelle civiltà agrarie del Neolitico, è costituita dal mito del ‘ritorno dei morti’ dall’aldilà, spesso con un atteggiamento ostile o almeno ambiguo verso la comunità dei vivi e i loro beni, la produzione agricola, ecc.

 

Da qui deriverebbero i connessi rituali agrario-esorcistici dei ‘benandanti’, una sorta di sciamani nostrani impegnati nel combattere il pericolo di un ritorno ostile dei defunti. Quest’ultima credenza, attestata in una ristretta area tra Friuli e Balcani, non trova peraltro riscontri precisi nelle testimonianze e nelle leggende locali. Quanto alla linea di ricostruzione storica, le ricerche storico-antropologiche portano a unificare una serie di testimonianze del folklore europeo (e non solo) e molte altre desunte dai processi alle streghe (appunto: l’ipotesi del ‘sabba’), attorno a questa linea ricostruttiva: dietro ai frammenti superstiti reperiti nel folklore europeo vi sarebbe una memoria (ancora presente almeno fino al 500, ma ormai scarsamente o per nulla consapevole) di antiche pratiche di carattere sciamanico.




Anzitutto un viaggio iniziatico e comunque magico, allucinatorio ed estatico, nel mondo dell’al di là (ossia nel mondo dei Morti) con diverse motivazioni positive di alcuni personaggi privilegiati; più in generale una sorta di permeabilità tra mondo dei vivi e mondo dei morti (degli spiriti). Tale tradizione, dopo vari tentativi precedenti di estirparla, sarebbe poi stata definitivamente demonizzata e repressa nell’epoca dei processi alle streghe, all’incirca dal ‘400 in poi, e sarebbe quindi confluita in quello che viene nominato il ‘modello del sabba’, il notturno volo seguito dal convegno diabolico delle streghe con tutti i rituali connessi.

 

A questo punto l’ipotesi di lavoro era quella di verificare se i frammenti reperiti andavano a dislocarsi significativamente entro il complesso affresco tracciato particolarmente nell’opera Storia Notturna, ossia nel contesto delle credenze-leggende di area eurasiatica.



…Per i pellegrini ogni pietra parla.

 

Si sparpagliano e si siedono con familiarità tra di esse. Si infilano in una stretta apertura tra due massi per mettere alla prova la loro virtù, e strisciano sotto a un altro.

 

Le rocce divengono il giudizio della montagna.

 

Un affioramento chiamato il ‘Luogo dei peccati bianchi e neri’ forma una rudimentale galleria, e i pellegrini devono attraversare quest’inferno simbolico prima di tornare lungo un altro passaggio a uno stato più elevato. In queste fenditure la pietra viva percepisce la purezza dei corpi che vi passano attraverso, e le pareti possono contrarsi all’improvviso intrappolando il reo. Tre pellegrini seduti insieme amabilmente ricordano un’epoca in cui le rocce gemelle di fronte a loro venivano al giudizio. Parlano con Iswor in tamang zoppicante, ma non possono entrare nel passaggio di roccia. Sembra così stretto da essere intransitabile, ed è bloccato dal ghiaccio. Anche la persona più esile rischia di rimanervi intrappolata.

 

La roccia sa tutto… 




 Il 27 giugno 1580, l’inquisitore fra’ Felice da Montefalco riprende la causa lasciata a mezzo dal suo predecessore, facendo comparire davanti a sé uno dei due… ‘benendanti’, Paolo Gasparutto

 

Costui dichiara di ignorare per quale motivo sia stato chiamato. Si è confessato e comunicato ogni anno dal suo piovano; non ha mai sentito dire che a Iassico ‘ci sia alcuno che viva da lutherano, et viva malamente’.

 

Allora fra’ Felice chiede ‘se lui sa o conosca alcuno che sia… strigone o benandante’.

 

Il Gasparutto risponde negativamente:

 

di strigoni non so alcuno, né anco di benandante’.

 

…E improvvisamente scoppia a ridere:

 

‘Padre no che io non so… io non sonno benandante, né la profession mia è tale’.




 …Allora l’inquisitore comincia a bersagliarlo di domande: ‘ha mai curato il figlio di Pietro Rorato?’.

 

‘Il Rotaro mi ha chiamato’,

 

…dice Paolo,

 

‘ma io gli ho risposto di non saperne nulla e di non poterlo aiutare’.

 

‘Ha mai parlato di benandanti con l’inquisitore passato e con il piovano di Iassico?’.

 

Paolo dapprima nega: poi ammette, sempre ridendo, di aver affermato di sognar di combattere con gli stregoni. Ma di fronte alle domande incalzanti dell’inquisitore, che gli ricorda particolari dei suoi racconti di cinque anni prima, riprende a negare, tra continui scoppi di risa.

 

Chiede il frate: Perché hai tu riso?’.

 

E il Gasparutto, inaspettatamente:

 

‘perché queste non sonno cose da addimandarsi, perché si va contra il voler de Iddio’.

 

L’inquisitore insiste, sempre più sconcertato: ‘perché se va contra il volere de Iddio interrogandosi di queste cose?’.

 

A questo punto il benandante si accorge di aver detto troppo: ‘perché se addimanda cose che io non so’, risponde, e ritorna sulla negativa…


(Prosegue con il capitolo completo)







 

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