CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
30 MAGGIO 1924

lunedì 7 ottobre 2024

L'INUTILE IDIOTA (4)

 









Precedenti capitoli:


(1)  (2)  (3) &


un Racconto 









Prosegue con 


l'inutile 


idiota offeso (5)  & 








L' utile reditus (6)








Ora, presupposta la catastrofe ermeneutica, cosa impedisce di immaginare una gallina, per esempio, tesserata di un partito, in visita ad un museo, matricola all’università o membro di una community?

 

Anche una chioccia vede e osserva gli oggetti che le sono intorno (con buona pace di Almeone di Crotone, che oltre duemilacinquecento anni fa distinse il “comprendere” proprio dell’uomo e il mero “percepire” degli animali).

 

E tuttavia, il solo pensiero di un gallinaceo decisore pubblico (o deambulante in un museo, spettatore a teatro o allievo di un corso accademico) potrebbe ai più apparire a tal punto perturbante da porre in discussione lo stesso processo di ominazione, ingenerando una pericolosa confusione tra il mondo della natura e il mondo della cultura e richiamando immediatamente (e tragicamente) alla mente dell’homo sapiens il genere di cui esso è specie.




La superiorità dell’homo sapiens sugli altri animali è infatti conseguenza dell’elaborazione di una capacità simbolica e di un desiderio di perseguimento dell’inutile che, consentendogli di superare le percezioni esclusivamente sensoriali, le facoltà puramente deduttive e la mera cupidigia utilitaristica, lo introduce in un universo culturale. Solo in tale dimensione l’uomo, oltre (e insieme a) il linguaggio logico, si avvale anche del lessico del sentimento, dell’immaginazione, della poiesis; oltre la percezione sensibile (esperita nell’hic et nunc), si proietta anche nel futuro, rendendosi responsabile del suo domani.

 

L’animal sentiens et rationale evolve, così, nell’animal symbolicum, capace di creare nuove realtà: inaudite, invisibili, immaginarie e immaginali.

 

Ma ciò presuppone il superamento della sfera del visibile, del mero vedere.

 

Ovviamente, non si vuole qui negare che la realtà si conosca (anche) vedendola: tuttavia, posto che nemmeno la natura può essere davvero conosciuta semplicemente guardandola, ciò vale a maggior ragione per il mondo della cultura e della realtà sociale, comprensibile ed esplorabile esclusivamente attraverso un conoscere per concetti astratti.




E se la nascita della storia e della civiltà si fa coincidere con il passaggio dalla comunicazione orale alla parola scritta, occorre riflettere sul fatto che i capisaldi culturali della civiltà mediterranea si facciano tradizionalmente risalire all’elaborazione poetica di Omero, il cieco poeta di Chio dell’Inno ad Apollo32, μ ρν, colui che non vede, e che, proprio per questo, è capace di creare, nella dimensione poetica, una realtà frutto di un’elaborazione interiore.

 

Ci può dunque essere un pensare (sublime) che prescinde dal vedere (ce lo testimonia Omero) e, all’inverso, un vedere (volgare) che prescinde dal pensare: la prima delle due facoltà è propria – a diversi livelli – dell’homo sapiens, cogitans e symbolicus; la seconda, invece, è caratteristica peculiare dell’homo videns, nel quale (vittima di una sorta di metamorfosi involutiva che lo riconduce alla feritas) il visibile prevale sull’intelligibile, il guardare si impone sul capire e la parola è assuefatta all’immagine.




La mutazione di cui ci limitiamo a constatare i sintomi, dunque, neo, trans o post che dir si voglia, investe la natura stessa dell’homo sapiens, generando un nuovo tipo di ànthropos. È, questi, il partus masculus della postmodernità che, avendo già abdicato ai poteri della memoria e dotato di una soglia di attenzione sottilissima, è avvezzo solo a una sovrapposizione sensoriale di suoni, immagini e azioni, e a un accavallamento di nozioni, pseudo-concetti e luoghi comuni. Tutto ciò riduce ulteriormente la sua capacità di elaborazione (per astrazione dalla realtà concreta e dalle esperienze vissute) con la conseguente rinuncia, per inattività, alla sfera del simbolico.

 

È la genesi del touch-man, che, ipermetrope e ipocogitante (sebbene superdigitante), nell’ordito elementare sotteso ai suoi pensieri e nel primitivismo cognitivo che lo contraddistingue, risulta incapace di confrontarsi con ciò che non è immediatamente visualizzabile (e, in molti casi, monetizzabile).

 

Nel contempo, il touch-man è inetto a comunicare le proprie esperienze. Fa uso, infatti, di un idioma che, pur infarcito di parole ridondanti ed eccessive (ma prive di profondità prospettica), risulta complessivamente sempre più vuoto, essenziale, descrittivo, stentato, ridotto a gergo tecnico e funzionale. Comincia, così, ad avvalersi (senza avvedersene) di un linguaggio integrale che, nell’incapacità di dispiegare il senso figurato implicito nell’espressione letterale (attraverso l’uso e l’abuso di experimenta linguae mutuati dalla comunicazione digitale), si riduce a significare solo ciò che significa.




Nell’impossibilità di distinguere tra lettera e spirito si afferma, perciò, un’ermeneutica negativa generale che, ritenendo inconcepibile un orizzonte di senso ulteriore, si pone come reductio ad absurdum. Si manifesta, così, una postura cerebrale diametralmente opposta a quella propria, ad esempio, del contesto culturale medievale dell’interpretazione delle Regulae francescane (e delle polemiche pauperistiche che ne seguirono) in cui l’interprete, proprio per la sovrabbondanza polisemica di significati reperibili, era talvolta richiamato ad attenersi alla semplicità e alla purezza dell’oggetto sottoposto alla sua attività interpretativa, sine glossa et commento.

 

L’homo videns postmoderno è, invece, più un animale senziente che un animale simbolico. La dimensione multimediale (primo strumento educativo che precede, talvolta di anni, l’approccio alla lettura e alla scrittura), assurgendo al rango di paideia (spesso in funzione di supplenza rispetto alla famiglia e alla scuola), ha infatti drasticamente ridotto la sua vivacità intellettuale e la sua capacità di un pensare astraente.




E ciò almeno in misura direttamente proporzionale al tasso di pigra passività con cui il touch-man si lascia imprigionare dal profluvio di immagini, parole e suoni effimeri di una video-comunicazione che, facendo leva sulla strumentalizzazione ideologica dei discorsi, è destinata a convincere e a persuadere più che a fornire spiegazioni o indurre alla riflessione. In questo modo, però, il senso stesso dell’esistenza è ridotto all’apparenza, alla vanità, con un irrefrenabile depauperamento simbolico di cui stentiamo a valutarne le conseguenze.

 

Si pensi – per limitarci ad un solo esempio – alla possibilità di riflettere sul valore della vita e della morte attraverso l’immagine simbolica di un “teschio”. Simbolo quattro-seicentesco dei temi del memento mori e della vanitas (dall’homo bulla al tristo mietitore, dalla danza macabra all’Et in Arcadia ego), esso ha subito una coercizione semantica che, prima, lo ha ridotto a cult object dell’alienista e dell’antropologo criminale (interpreti di una filosofia positiva riducente il corpo umano a modello meccanico di cui l’anatomé svela i segreti ingranaggi), poi, a logo e icona del contemporaneo.




Oggi, la “testa di morto”, scesa dal pulpito e privata delle sue potenzialità oracolari, non solo ha “smesso di insegnare”, ma ha perso anche la sua residuale funzione di sussidio didattico.

 

Compagno per secoli di santi e beati, dalla Maddalena penitente a Francesco d’Assisi, da santa Rosalia a san Girolamo (mi limito a ricordare il bellissimo dipinto a olio su tavola, siglato e datato Albrecht Dürer 1521, conservato nel Museo Nazionale d’arte antica di Lisbona), oggi, il teschio, privato del suo originario pathos ermeneutico e avendo – sua malgrado – smesso di informarci e ammonirci sui misteri della vita e della morte, si riduce ad essere un “motivo”, tra i tanti, della cultura in auge.

 

Non desti perciò meraviglia che, dopo Andy Warhol (con Skull and Crossbones, 1985-86 e Skeleton, 1976-86), Jean-Michel Basquiat (con Untitled – Skull, 1981 e View of Base of Skull, 1982) e James Rosenquist (con la serie Skull Snap, 1988-89), Damien Hirst abbia deciso – interprete del suo tempo – di realizzare, nel 2007, For the love of God, scultura di un teschio di platino ricavata dal calco di un cranio di un giovane uomo morto a trentasette anni, con i denti originali, ricoperto da 8.601 diamanti, per un totale di 1.106,18 carati.




L’opera, citazione allegorica degli “scheletri addobbati” barocchi, valutata cento milioni di dollari, è stata, ovviamente, accompagnata da un ricco merchandising che ha ingenerato un business colossale il cui turbinio può essere in fondo interpretato come esorcizzazione post-moderna della paura della morte e suo estremo tentativo di negazione e, anche, di mercificazione autosignificante.

 

In questo modo, però, il senso dell’esistenza è stato ridotto all’assoluta apparenza, alla vanità tout court, nel trionfo di una narcosi mediatica generativa del virus della stupidità.

 

Essa (la stupidità post-moderna) ha come sintomo una generica astenia mentale che induce chi ne è colpito, nonostante l’incapacità a capire ciò che vede e ad organizzare un discorso secondo le regole della necessità logica, a manifestare costantemente il suo consenso. E ciò sulla base di una comunicazione effimera o di una conversione ad una cultura di massa alla continua ricerca – per sua stessa natura – di neocatecumeni di una nova religio che, privilegiando modelli di vita hypo-, promette orizzonti di vita assai poco problematici.




Vige, in un tale contesto, quella dimensione esistenziale poco sopra definita di “indifferenza apprensiva”, caratterizzata dalla continua ricerca di una dimensione a-conflittuale dell’esistenza e dal disinteresse per un destino comune. Un’impassibilità che, tuttavia, è ossimoricamente turbata dall’ansia di essere presi in considerazione e resi partecipi degli “eventi collettivi” e delle “decisioni pubbliche”. Eventi e decisioni che, in realtà, non sono più veramente tali (come la pipa di Magritte): si tratta, piuttosto, di performance eterodirette, sceneggiate dalla segreta regìa che governa l’allegoria sociale.

 

Ed è proprio in questo stato eccitato di allegoria sociale che emerge – come una Venere, dalla fantasmagorica spuma che un tempo si sarebbe detta carnascialesca – la figura metaforica del “cittadino decidente”.




Questi, assai più vicino all’utile idiota di Lenin che al folle di Erasmo, incline alla ferinitas e privo di autogoverno, pur ai margini della vita pubblica (perché minimamente soggettivato, privo di autocoscienza e di metalinguaggio critico, incapace di comparare tra sé e gli altri e di sviluppare un’intelligenza sociale) è tuttavia massimamente socializzato, “poiché si appiattisce completamente sui comportamenti più comuni e diffusi, aderendo senza residui allo standard propostogli come ‘buono’ e ‘giusto’ da una qualche forma di autorità; […] e ciò gli consente di trovare senza sforzo la propria nicchia identitaria”. Integrandosi perfettamente in società e sostituendo, docile e di buon grado, il noi all’io, contribuisce all’idiozia della massa in cui ambisce ad essere cooptato, inserendosi a buon diritto nel “ceto medio basso dello spirito e dell’anima”.

 

Ritorna, così, drammaticamente vivida ai nostri occhi la caustica immagine dell’uomo e della gallina da noi evocata in capite argumenti.

 

Da un lato il bipede pennuto, da identificare con l’individuo-massa-insipiente, ipocomprensivo e iperestensivo, che, avendo rinunciato al lusso comparativo dell’intelligenza individuale, è dotato di un minimo di comprensione (di sé, degli altri, del mondo) e del massimo di estensione massiva. Un desiderio di partecipazione che, amplificato dalle potenzialità del web (si pensi alla realtà virtuale di facebook, instagram, twitter google), trasforma il suo mortificante solipsismo in ansia e desiderio di visibilità, di consumo e di successo (seppur effimero: il quarto d’ora di celebrità di cui parla Warhol).




Dall’altro, il bipede implume, l’individuo-singolo-cogitante, ipercomprensivo, che, in preda ad un’erasmiana follia, si interroga sul senso delle cose e si sforza di avere contezza di sé, degli altri e del mondo, scegliendo di non omologarsi a modelli di comportamento precari ed eterodiretti; proprio per questo, tuttavia, come l’διώτης greco di cui si è discusso nel primo capitolo, è condannato ad essere un isolato socialmente, di natura infraestensiva.

 

Reo di essere inadeguato alle logiche performative che cercano di determinarlo, “escluso da qualsiasi audience, sino al limite, estremo, dell’ostracismo da ogni ambito pubblico che non sia marginale o di nicchia”, è costretto non di rado a un dissenso tacito. Difficilmente sarà protagonista di processi decisionali all’interno di quel sistema che l’ha condannato, dal punto di vista intellettuale, ad uno stile di vita consapevolmente anacoretico.

 

Il bipede implume ne è consapevole e, in fondo, è felice che così sia. 

(A. Cesaro)







domenica 6 ottobre 2024

IL RACCONTO DELLA DOMENICA, ovvero, GOGOL L'INTELLETTUALE LETTO DA GOOGLE (l'id...)

 









Da precedenti anellati scritti...   


Prosegue con in racconto...: 


completo







Adesso io vedo tutto come se l’avessi sul palmo della mano. Ma prima – io non capisco – prima ogni cosa era come annebbiata. E ciò deriva, penso, dal fatto che la gente si immagina che il cervello umano risieda nella testa; no, niente affatto: esso viene trasportato, dal vento, dalle lande del Caspio. 

 


 

3 OTTOBRE Oggi è accaduto un fatto straordinario.

 

Stamani mi sono alzato piuttosto tardi, e quando Mavra mi ha portato le scarpe pulite le ho chiesto l’ora. Appena ho sentito che le dieci erano suonate ormai da un pezzo, sono corso a vestirmi. Io, lo confesso, non ci sarei andato proprio per nulla al ministero, sapendo già che grinta acida mi avrebbe fatto il nostro caposezione.

 

È ormai un bel pezzo che mi va dicendo:

 

– Ma cosa ti succede, carissimo, che hai sempre la testa a soqquadro?




Certe volte ti agiti come un ossesso, oppure ingarbugli talmente una pratica che, poi, nemmeno il demonio ci si raccapezza; incominci una intestazione con la minuscola, non metti né data né protocollo.

 

– Brutta cicogna! È certamente geloso perché sto nell’ufficio del direttore, e tempero le penne a sua eccellenza. Insomma non ci sarei andato proprio per nulla, al ministero, se non fosse stato per la speranza di trovarci il cassiere e, chissà, di riuscire a strappare a quel giudeo sia pure un piccolo anticipo sullo stipendio. È dei buoni, anche lui! Ti desse mai qualcosa sui denari del mese!

 

Accidenti, verrà prima il giudizio universale!

 

Prega, schianta magari, trovati magari con l’acqua fino alla gola – niente ti dà, quel satanasso brizzolato.




E, a casa, la cuoca lo piglia a ceffoni sul muso: lo sanno tutti.

 

Io non capisco che vantaggio ci sia a far l’impiegato in un ministero: non ci sono risorse di nessun genere. Ecco: nelle amministrazioni governatoriali, municipali, all’erario, è tutta un’altra cosa; là dai un’occhiata, e vedi magari un tale, rincantucciato in fondo a un cantone, che scribacchia; indosso ha un vestituccio da far schifo, un grugno che ti viene da sputare a vederlo, e guarda poi che villa si affitta per l’estate!

 

Mica c’è da arrischiarsi a portargli una tazzina di porcellana con gli orli dorati!

 

– Questo, – dice, – è un regalo che va bene per un medico; – a lui devi portare una pariglia di trottatori, o un calesse, o una pelliccia di castoro da trecento rubli. A vederlo ti sembra un agnellino, parla con tutta delicatezza:

 

– Usatemi la cortesia di prestarmi il temperino per appuntar la pennuccia,




– e poi ti ripulisce così che, a un postulante, lascia soltanto la camicia indosso. È vero che il nostro è, in compenso, un impiego più nobile; c’è dovunque una pulizia che, in una amministrazione governatoriale, non la vedrai finché campi; i tavoli sono di mogano, e i direttori danno il voi...

 

Sì, lo confesso, se non fosse per la nobiltà dell’impiego, io il ministero lo avrei abbandonato da un pezzo. Mi sono infilato il ferraiuolo vecchio, e ho preso l’ombrello perché veniva giù una pioggerella fitta fitta. Per le strade non c’era anima viva; mi è avvenuto di incontrare soltanto delle popolane, che si riparavano con le gonne arrovesciate, dei mercanti russi sotto gli ombrelli, e dei fattorini.




Di gente rispettabile non ho visto altri che un mio pari: un impiegato. È stato a un crocevia. Quando l’ho scorto mi sono detto subito:

 

‘Ehé! No, bello mio, tu non stai andando affatto al ministero: tu stai seguendo quella che ti trotta davanti, e le guardi le gambe e il bel di dietro’.

 

Che bestiacce questi miei pari, gli impiegati!

 

Perdio, non sono da meno di nessun ufficiale: basta che ne capiti una col cappellino, e ci si agganciano subito. Mentre pensavo a questo, ho veduto una carrozza che si avvicinava al negozio davanti al quale stavo passando. L’ho riconosciuta immediatamente: era la carrozza del nostro direttore.

 

‘Lui, però, non può aver nulla da fare in un negozio’,

 

…ho pensato:

 

‘Deve essere, certo, la figlia’.




Mi sono addossato al muro. Il lacchè ha aperto lo sportello e lei, come un uccellino, è frullata giù dalla carrozza. Che sguardi lanciava a destra e a sinistra, come le brillavano gli occhi e le sopracciglia...

 

Dio, Dio mio, sono perduto, sono completamente perduto!

 

Ma perché doveva uscirsene proprio con un tempo così piovoso! Va’ a dire, poi, che le donne non vanno matte per tutti quei cencini! Lei non mi ha riconosciuto; del resto, io cercavo di rimbacuccarmi più che potevo, perché il mio ferraiuolo era tutto sporco, eppoi di taglio antiquato. Adesso i ferraiuoli si portano con i baveri lunghi, e i miei sono corti, uno sovrapposto all’altro; e il panno non è affatto decatizzato.




La cagnetta di lei, che non aveva fatto a tempo a infilarsi nel negozio, era rimasta in strada. Io la conosco questa cagnetta. Si chiama Madgie. Non era neppure un minuto che stavo lì, quando a un tratto sento una vocina sottile:

 

‘Buongiorno, Madgie!’

 

‘O questa! Chi parla?’

 

Giro attorno lo sguardo, e vedo due signore che camminano sotto l’ombrello: una è anzianotta, l’altra è giovane; ma erano ormai passate; e io sento di nuovo, lì vicino:

 

‘Vergogna, Madgie!’

 

‘Che diavoleria è questa!’

 

Vedo Madgie che si sta annusando con un altro cagnolo che seguiva le dame.




‘Ehé!’, mi sono detto: ‘Basta: sarei per caso ubriaco? Però questa, a dir vero, è una cosa che mi capita molto di rado’.

 

‘No, Fidèle, hai torto a pensarlo’,

 

…diceva Madgie, e lo vidi io stesso che lo diceva Madgie.

 

‘Sono stata, àu, àu! sono stata, àu, àu, àu! molto malata!’

 

‘Ah, tu, cagnaccia! Vedi un po’!’




Confesso che rimasi molto sorpreso nel sentirla parlare come una persona; ma dopo, a conti fatti, ho smesso di stupirmene.

 

Effettivamente a questo mondo è già accaduta una infinità di casi del genere.




Si dice che in Inghilterra sia uscito fuori dall’acqua un pesce che ha pronunciato due parole in una lingua così bizzarra, che da tre anni gli scienziati si stanno rompendo il capo per scoprire quale sia, e a tutt’oggi non hanno ancora scoperto un bel nulla.

 

Ho letto pure, sulle gazzette, di due vacche che sono entrate in una bottega e hanno chiesto una libbra di tè. Ma, lo confesso, mi sono stupito molto più quando ho sentito dire da Madgie:

 

‘Io ti ho scritto, Fidèle; si vede che Polkan non ti ha portato la lettera!’

 

‘Accidenti! In vita mia non ho mai sentito che i cani potessero scrivere. Scrivere correttamente è cosa che può fare soltanto un nobile. Sì, è vero, si trova della gente che scribacchia qualcosuccia, anche fra i contabili di negozio, e perfino fra i contadini; ma il loro modo di scrivere è per lo più meccanico: non ci sono né virgole né punti; non c’è stile’.




La cosa mi ha stupito!

 

Confesso che, da un po’ di tempo a questa parte, ho preso a sentire e vedere, certe volte, cose mai viste né udite da nessuno.

 

‘Ecco, ora vado’, ho detto dentro di me, ‘dietro questo cagnolo, e saprò chi è, e cosa pensa’.

 

Ho aperto l’ombrello, e mi sono incamminato dietro le due dame. Esse sono entrate in via dei Piselli, hanno voltato in via dei Borghesi, di lì in via Stipettai, infine sul ponte Kokuskin, e si sono fermate dinanzi a un grande edificio.




‘Lo conosco questo palazzo’,

 

…mi sono detto.

 

‘È il palazzo Zverkov’.

 

…Che torre di Babele!

 

Quanta gente vi abita; quante cuoche, quanti forestieri! E quanta gente par nostra…

 

Gli impiegati!

 

Come i cani: uno a ridosso dell’altro. Anch’io ci ho un amico lì, che suona bene la tromba. Le dame sono entrate in un appartamento del quinto piano.

 

‘Bene’, ho pensato:

 

‘Ora non ci vado, ma prendo nota, e non mancherò di approfittarne alla prima occasione’.


(& il racconto completo)







giovedì 3 ottobre 2024

STRANI ANELLI (2)

 









Precedente anello:


Circa l'intellettuale  (1) 


Prosegue nel:


...senso del Sé  (3) 


& l'inutile idiota (4)








A mio avviso, le più belle e imponenti realizzazioni visive del concetto di Strano Anello si trovano nell’opera del grafico olandese M.C. Escher, vissuto fra il 1898 e il 1971.

 

Escher ha creato alcuni disegni che sono fra i più concettualmente stimolanti di tutti i tempi. Molti hanno la loro ispirazione in paradossi, illusioni o doppi sensi. I matematici furono tra i primi ammiratori dei disegni di Escher, e si capisce perché: spesso essi sono basati su princìpi matematici di simmetria o di regolarità...

 

Ma in un disegno tipicamente escheriano c’è molto di più di semplici simmetrie e regolarità; spesso c’è un’idea di fondo che viene realizzata in forma artistica. In particolare lo Strano Anello è uno dei temi più frequenti nell’opera di Escher.




Guardiamo, per esempio, la litografìa Cascata, e confrontiamo il suo anello eternamente discendente (a sei componenti) con l’anello eternamente ascendente del Canon per Tonos. La somiglianza tra le due immagini è notevole. Bach e Escher esprimono uno stesso tema in due ‘chiavi’ diverse: musicale e visiva.

 

Escher ha realizzato diverse versioni di Strani Anelli, che possiamo classificare secondo la maggiore o minore ampiezza dell’anello. La litografìa Salita e discesa, nella quale vediamo dei monaci che si aggirano in eterni anelli, ci dà la versione più ampia, vista la quantità di gradini che intervengono prima che si raggiunga di nuovo il punto di partenza. Un anello più stretto è contenuto in Cascata, dove, come abbiamo già visto, intervengono soltanto sei componenti discrete.

 

Certo si può pensare che ci sia una qualche ambiguità nella nozione di ‘numero di componenti’: per esempio, in Salita e discesa non sarebbe possibile individuare quattro livelli (le rampe) piuttosto che quarantacinque (i gradini)?




In effetti il conteggio dei livelli comporta una vaghezza intrinseca, non solo nei quadri di Escher, ma in genere nei sistemi gerarchici a più livelli. Affineremo più avanti la nostra comprensione di questa indeterminatezza.

 

Per il momento non ce ne lasciamo distrarre troppo.

 

Stringendo sempre più l’anello, veniamo all’interessante Mani che disegnano, dove si vedono due mani ognuna delle quali disegna l’altra: uno Strano Anello a due componenti. Ed infine, il più stretto di tutti gli Strani Anelli si trova realizzato in Galleria di stampe:

 

Un quadro di un quadro che contiene se stesso.

 

Oppure è il quadro di una galleria che contiene se stessa?

 

O di una città che contiene se stessa?

 

O è un giovane che contiene se stesso?




Il concetto di Strani Anelli contiene quello di Infinito: un anello, infatti, non è proprio un modo per rappresentare un processo senza fine in modo Finito?

 

In effetti L’Infìnito interviene ampiamente in molti disegni di Escher. Negli esempi di Strani Anelli che abbiamo visti in Bach e in Escher c’è un conflitto tra Finito e Infinito, e quindi un forte senso di paradosso.

 

[….]

 

Ora, se al robot qualche agente esterno suggerisce ‘S’ come prossima scelta, il suggerimento verrà preso e incanalato nella massa turbinante dei simboli interagenti. Là sarà risucchiato inesorabilmente fino ad interagire con il simbolo del Sé, come un battello che è attirato in un gorgo.

 

Questo è il vortice del sistema, in cui tutti i livelli s’intersecano.




Qui ‘S’ incontra una gerarchia aggrovigliata di simboli ed è trasportato su e giù attraverso i livelli. Il simbolo del Sé non è in grado di controllare tutti i suoi processi interni e così, quando emerge la decisione effettiva (,‘S’, ‘D’ o qualcosa di esterno al sistema), il sistema non sarà in grado di dire da dove provenga.

 

A differenza di un normale programma per giocare a scacchi che non controlla se stesso e di conseguenza non ha la minima idea di come vengano decise le sue mosse, questo programma controlla se stesso e ha idee riguardo alle sue idee, ma non può controllare i suoi processi in tutti i suoi minimi particolari, e quindi ha una sorta di senso intuitivo del suo modo di procedere, ma non ne ha una piena comprensione.




Da questa situazione di equilibrio tra conoscenza di Sé ed ignoranza di Sé proviene la sensazione del Libero Arbitrio.

 

Si pensi, ad esempio, a uno scrittore che sta cercando di esprimere certe idee che possiede sotto forma di immagini mentali. Egli non è del tutto sicuro di come queste immagini si armonizzino l’una con l’altra nella sua mente e sperimenta, esprimendo le cose prima in un modo, poi in un altro; infine si ferma su una particolare versione.

 

Ma egli sa da dove tutto ciò proviene?

 

Solo vagamente.

 

La maggior parte della sua fonte, come un iceberg, è immersa profondamente sott’acqua, non visibile, ed egli lo sa.

(D. R. Hofstadter)

 

 


 

                          

                                                      SOTT’ACQUA

 

                                                 Primo anello evolutivo 

 

 

 

Coloro che si somigliano nello spirito possono differire nella forma; e coloro che si somigliano nella forma possono differire nello spirito. Il saggio tiene in considerazione ciò che gli somiglia spiritualmente e ignora il simile nella forma. Gli uomini ordinari si attaccano invece al simile nella forma e tengono a distanza il simile nello spirito.

 

Noi amiamo e ci teniamo caro quanto ci rassomiglia

 

…essi dicono.

 

Tutto quanto ha una struttura di una certa altezza, e due piedi e due mani, e capelli sul capo e denti nella bocca, e cammina in posizione eretta, gli uomini ordinari lo definiscono umano.




Ma non è impossibile, per un uomo, avere il cuore di una bestia. Anche così, egli sarà trattato bene a causa della sua forma umana. Ciò che possiede ali o corna, o denti distanziati e artigli, e vola, o va errando furtivo senza dimora, tutto ciò gli uomini ordinari chiamano bestia.

 

Non è impossibile, per una bestia, avere un cuore umano; ma anche così, gli uomini lo eviteranno a causa del suo aspetto.

 

I grandi Dèi antichi (Pao Hsi, che addomesticava fiere e le sacrificava sul fuoco; Nù Wa, che riparava i guasti dei cieli e plasmò la razza umana; Shen Neng, il divino coltivatore che fondò l’agricoltura e la medicina; i sovrani Hsia, che fondarono la prima dinastia) ebbero tutti un corpo di rettile e un volto umano o una testa di bue o un muso di tigre.

 

…O una coda da Lupo.




Nessuno ebbe sembianze umane, benché fossero tutti sapienti di grande virtù.

 

Ma gl’infami re e governanti dei tempi successivi (Chieh, che rovinò la prima dinastia; Chou, che rovinò la seconda dinastia degli Shang; Huan, che cancellò la legge di successione in Lu; e King Mu, di Ch’u, che si ribellò al suo re e lo uccise) tutti ebbero orecchi, occhi, naso, bocca - le sette aperture del volto umano - ma il loro cuore era di bestia.

 

Gli uomini ordinari cercano la più alta saggezza basandosi su semplici apparenze: e non la trovano mai.




Il divino Imperatore Giallo del Nord combatté il divino Re meridionale del Fuoco nelle selvagge lande di Fanch’uan. All’avanguardia, il divino Imperatore Giallo guidò orsi bruni, orsi grigi, leopardi, tigri dai denti a spada e tigri comuni. Poiane, procellarie, falchi e falconi fungevano da bandiere e segnalatori. Allora, l’Imperatore Giallo aveva il potere di far combattere ai suoi ordini uccelli e bestie.

 

Yao, il re-sapiente, nominò K’uei intendente della musica. K’uei segnava il tempo percuotendo delicatamente il cembalo di pietre e tutti gli animali danzavano in bell’ordine.

 

Poi, quando le antiche trombe reali di Shao avevano eseguito la loro musica, si presentava con maestoso cerimoniale la sacra fenice. In tal modo, i suoni della musica sottomettevano uccelli e bestie allo scettro di Yao.

 

Come può, dunque, la mente di queste creature essere diversa da quella dell’uomo?




La differenza è soltanto nella forma esteriore e nell’uso della parola. Ma l’uomo ha perduto l’arte di comunicare con gli animali; soltanto il saggio, con il suo vasto sapere e la sua profonda comprensione, è capace di guidarli e dirigerli.

 

La facoltà naturale dell’autoconservazione è comune alle bestie e all’uomo; le bestie non l’apprendono dall’uomo. In questo, il maschio e la femmina sono uguali. In ogni specie, le madri e i loro piccoli si tengono abbracciati. Le bestie evitano gli spazi aperti e preferiscono i terreni accidentati; fuggono il freddo e cercano il caldo.

 

Quando si sono stabilite in un luogo, formano il branco; quando si spostano, si dispongono in ranghi, con gli animali più deboli all’interno e i più forti all’esterno. Ogniqualvolta uno di essi trova l’acqua, vi conduce gli altri; ogniqualvolta uno di essi trova cibo, chiama il branco.




Nei tempi più antichi, gli animali vivevano e migravano con gli uomini. Soltanto sotto il regno degli imperatori e dei re, essi furono dispersi dalla paura. E ora, nei nostri tempi malvagi, essi si acquattano in luoghi oscuri o trottano via furtivi in cerca di scampo, affinché l’uomo non li uccida.

 

Oggi, nelle terre orientali della tribù di Chieh, la gente ha la facoltà speciale di comprendere il linguaggio degli animali domestici; ma i Santi Saggi dei tempi antichi sapevano tutto quanto c’è da sapere sulla natura delle cose. Essi capivano le grida e i richiami delle diverse specie; riunivano gli animali e li istruivano come fossero persone.




In verità, prima riunivano gli spiriti dei morti e gli altri demoni, poi adunavano le genti delle otto amministrazioni esterne, per ultimo raccoglievano le bestie e gl’insetti, e tenevano la loro lezione.

 

Ciò dimostra come tutte le specie che respirano e hanno sangue non differiscano molto nel cuore e nella mente.

 

I Santi Saggi lo sapevano bene; per questo insegnavano a tutti e non escludevano nessuno.

 

(Lieh Tzu da Leggende Tibetane)