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Sette anni prima (Guerra e pace...) (2)
Così una mattina andai a cercare lungo una breve via di selciato
sconnesso, l’edificio grigio che ospitava, durante l’inverno, la famiglia
Tolstoj. Nel parco, dove querce e lecci distendono larghe ombre, insetti dorati
ronzavano tra le foglie.
Attorno era silenzio.
Tutto è rimasto come allora, e nelle stanze si respira la distesa aria
dell’inizio del secolo, un senso di sicurezza borghese: la macchina da cucire
nell’alloggio delle domestiche, una bicicletta nel ripostiglio, il bigliardino
per gli svaghi serali, nella camera dei ragazzi c’è il mappamondo, un cavallo a
dondolo di cartapesta maltrattato, il primo libro di letteratura con qualche
figurina colorata: un cavaliere impetuoso fa la corsa col treno, ma sarà
sconfitto, perché il progresso avanza, un cane regge tra le zampe una rosa dai
petali di sangue.
All’attaccapanni è appeso il cappotto foderato di pelliccia che lo
scrittore indossava per andare a passeggio, accompagnato da un barboncino nero,
sulla morbida neve, e le tarme insidiano il vecchio pastrano; la tavola nella
sala da pranzo, è apparecchiata per undici. Al posto di riguardo sedeva la
moglie, Sofija Andrejevna, e attorno i figli; per Tolstoj, che era vegetariano,
e sdentato, la cameriera portava un vassoio particolare: zuppa di avena, o
minestra di cavoli, crocchette di riso o di patate, o un uovo alla coque, dei
pomodori crudi, gelatina di frutta, un goccio di vino bianco nell’acqua.
Sofija Andrejevna aveva riempito il suo salotto di tappeti, di un gusto
che oggi diremmo dannunziano: mobili, tendine inamidate, lumiere di opaline,
denunciano più che il benessere, quel lusso che tormentava Lev Nikolajevic
perché lo induceva a considerare la sua esistenza un vergognoso privilegio, e a
paragonarla con la miseria della gente.
‘Basta entrare nella dimora di un lavoratore’ diceva ‘perché l’anima
ringiovanisca’. Ma le solide pareti, i quadri, i grandi alberi del parco, la
cancellata di legno non lo dividevano dal suo prossimo: nascevano qui dentro i
suoi sogni rivoluzionari, i sogni di un ribelle che non esalta Cristo ma si
illumina di cristianesimo che vuol cambiare la società, e se stesso, con
l’amore, distruggendo classi e pregiudizi, abolendo anche lo Stato.
‘Non si può essere buoni a metà’ si legge nei suoi pensieri.
Qui arrivavano i discorsi e le chiacchiere della bella gente moscovita;
gli parlarono, ad esempio, di Anna Stepanovna Pirogova, che scoprendo il marito
mentre trescava con l’istitutrice tedesca, andò con gli occhi sbarrati verso le
luci gialle di una locomotiva, e diventò per sempre Anna Karenina. E in quella
che è adesso la Casa degli scrittori – un edificio settecentesco, col bel
giardino, una siepe disegna il viale per le carrozze, sulla facciata spuntano
piccole naiadi di porcellana – collocò la vicenda di Natasa Rostova, nelle
pagine di… Guerra e pace…
Una domenica ho preso la strada
che conduce a Charkov, e sono arrivato a Jasnaja Poljana. Qui Tolstoj è nato:
venne al mondo sul largo divano di pelle scura che si conserva ancora nello
studio, come i suoi fratelli, come i suoi figlioli, perché dicevano che portava
fortuna; da qui partì per andare a morire, stravolto dalla stanchezza e
assillato dai problemi morali, alla stazione di Astapovo.
Attorno alle scuderie del conte Volkonskij, il nonno materno, che
possedeva queste terre, volano bassi i rondoni; un bambino pesca nel laghetto,
larghe farfalle bianche si posano sui giunchi. Da questa riva, pensò, Sofija
Andrejevna, esasperata dai contrasti con quel marito che predicava contro
l’ingiustizia sociale e voleva, per la pace della coscienza, disfarsi dei
campi, dei boschi e di ogni bene, si gettò nell’acqua e fu ripescata umiliata e
ancora più cupa.
Lev Nikolajevic l’aveva sposata quando era una fanciulla di diciassette
anni, educata ai rigorosi schemi della sua condizione; credeva forse di
condurla verso le sue concezioni umanitarie: l’idea di una fratellanza che si
regge sull’anarchia, il nichilismo e Dio; ma negli ultimi tempi, amareggiato,
diceva di lei: ‘E’ una belva’.
(Prosegue....)
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