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Dedicato a quell'uomo che non poté godere dei frutti terreni del suo giardino....
Sin dalla giovinezza mio padre aveva incominciato a piantare un oliveto
a…. Aveva sconfitto la Natura, distrutto la selva e le querce secolari,
riducendole a carbone e dissodato un terreno vergine.
Con amore viscerale, lo aveva bonificato estraendone le pietre che
ordinava e componeva in mucchi estirpandone la gramigna. E in mezzo al bosco
millenario quale la Natura lo aveva creato spontaneamente, lui creò quest’isola
dell’arte umana lungo un rettangolo di sei ettari.
Io lo conobbi già tracciato. Circoscritto dai muri su cui da ogni lato
faceva capolino ancora la selva che con il suo rigoglio invadeva, quasi se la
volesse inghiottire, l’aiuola del lavoro di mio padre. I rovi e la macchia, le
querce che sovrastando il fitto sottobosco testimoniavano l’antica vegetazione.
Con maestria ed assiduità, mio padre aveva tracciato i filari mediante
fossati interminabili, ora l’argilla, ora sulla terra nera, ora sulle pietre e
vi aveva piantato gli olivastri a distanza geometrica regolare senza servirsi
mai del metro, ma solo del buon senso, dell’occhio e dei passi. Nella loro
lunghezza i filari venivano intercalati ed evidenziati da altre piante più
precoci che pagavano la zappatura dell’oliveto ancora infeconda.
La sua architettura la si poteva osservare ogni anno, il giorno di San
Elìa. Dalla sommità di monte Santo dove ci si recava per la festa. Scalando il
monte l’oliveto si stagliava di più. E la gente raggiunta la vetta, dove si
accampava a crocchi e si sparpagliava sul piano a giara del monte, poteva
mirare la meraviglia del luogo.
In mezzo a quella selva di querce e di sugheri disordinati e
incessantemente in lotta tra di loro, i filari dell’oliveto opponevano la
Natura coltivata alla Natura spontanea. I cacciatori che vi sbucavano all’improvviso
dalla selva si trovavano nel giardino del deserto e non potevano fare a meno di
ammirare e di stupirsi di fronte a un’opera ormai quasi inarrestabile.
‘E tu chiamalo fesso Abramo. Molti dicono che è arretrato, ideoso, qua
e là. Guardate che meraviglia. E’ l’oliveto più grande dell’agro! Eh! Avete
visto? La gente spesso si sbaglia. Spesso qualcuno che non è capace neanche di
pulirsi il culo si mette a scorreggiare giudizi a destra e a manca. Qui parlano
i fatti. Questi sono monumenti, sono. E’ un grande lavoratore. Quando si mette
è un vulcano. Fossero tutti come lui, l’isola sarebbe un giardino, sarebbe. E
pensare che trent’anni fa era una vera pazzia il solo pensarlo. Lui lo ha
fatto! Eh molti gli dicono che è pazzo! Osservatela la sua pazzia: è il
paradiso! Anch’io avrei voluto essere pazzo così!’.
Questi commenti che avevo sempre sentito da piccolo dentro i cespugli
per sfuggire all’attenzione dei passanti. Mi vergognavo e avevo paura di essere
visto! Erano giusti, però, quei commenti. Il babbo aveva vinto la sua
battaglia. L’uliveto giustificava allora la deportazione della famiglia, la
severità dell’artefice.
‘Quando sarò vecchio questa sarà la mia fonte’, diceva sempre alle
persone che vi capitavano o che vi lavoravano. ‘Io non voglio fare la fine di
tanti vecchi che una volta che le loro braccia non riescono più a produrre
vengono disprezzati dai propri figli prima che dagli altri. L’oliveto sarà mio
fino alla morte… Quando creperò se lo godranno loro. Sotto terra non avrò
bisogno di quello che nasce sopra'.
Il babbo ci teneva molto.
E da quando ero a…. , il suo edificio stava venendo su bene,
sensibilmente anno per anno. Io lo vedevo potare e lavorare le sue piantine con
una brama incontenibile e con passione quasi gelosa. Le accarezzava tutte sui
rami e sul fusto fino alle radici, quando le zappava. Cosa che non poteva fare
con i figli. Le cingeva con un involucro di spine per evitare che divenissero
facile preda di bestiame abusivo.
‘Questo è il mio sangue. Tu me lo stai succhiando. Mi stai uccidendo.
Le pecore custodiscitele: anziché startene nella capanna, i coglioni al fuoco o
a strombazzarti tua moglie, assièpati i muri. Guardateli ogni tanto. Fai quello
che vuoi. Stringi il garretto alle bestie. Impastoiatele. Che non ci ritornino a
saltare, altrimenti ci azzufferemo e lo dirò al maresciallo. Le piante sono la
mia vita, sono! Sono il mio sudore che sta crescendo… e tu me lo vuoi mangiare
con la tua negligenza! Tieniti a bada le bestie. Sappiti regolare’.
Si faceva sempre rispettare. E come una vespa difendeva il vespaio
pungendo con l’ago della sua lingua. D’inverno si andava in giro insieme in
cerca di olivastri per rimpiazzare quelli che il gelo, il caldo o il bestiame
abusivo avevano distrutto. Lui sapeva dove scovarli. Me lo aveva insegnato.
Tutti e due in diverse direzioni ci si sparpagliava per le macchie del
lentischio o per la fitta boscaglia.
‘Ti devi abituare al peso. Il lavoro ti deve mungere come una mammella.
Il peso ti deve pressare come la vinaccia al torchio’.
‘Siamo arrivati’.
‘Sì. Mettila lì, la gerla. Da questa parte. Prendi la zappa. Fai il
fosso. Così. Allarga un po’. Spostati! Lo vedi? Non se lo sarebbe mai immaginato
di farsi una passeggiata sulle tue spalle e di finire qui. Quando sarai grande
te lo ricorderai. Sarà pesante: grande, alto. Tu potrai mangiare le sue olive
quando sarà innestato e ricresciuto come ulivo’.
‘Eh! Anche tu, le potrai mangiare’.
‘Eh! Che cosa vuoi mangiare. Ci vuole una vita per fare un ulivo. Io me
lo auguro di mangiarle. Ma! Chissà come sarò, quando questo olivastrello
diverrà un ulivo! E’ una pianta secolare. Gli anziani piantano e i giovani
colgono i frutti. E’ stato sempre così. Io ho mangiato i frutti delle piante
che ha messo mio padre e tu mangerai il frutto di queste. Guarda quante ce ne sono.
Non riesci nemmeno a contarle’.
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