CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

mercoledì 3 febbraio 2016

'PASSAGGI' all'età del progresso (ovvero il progresso si guarda allo specchio) (3)












































    Precedenti capitoli:














Dire qualcosa sull’aspetto metodologico della stesura stessa: quando si attende ad un lavoro, tutto ciò a cui si sta pensando deve ad ogni costo esservi incorporato. Sia che in ciò si manifesti l’intensità del lavoro, sia che i pensieri portino in sé al principio un ‘telos’ ad esso rivolto.
Questo vale anche per il caso presente, in cui si devono caratterizzare e custodire gli intervalli della riflessione, le distanze tra le parti più essenziali di questo lavoro, rivolte con estrema intensità verso l’esterno. Bonificare territori su cui è cresciuta finora solo la follia. Penetrarvi con l’ascia affilata della ragione, e senza guardare né a destra né a sinistra, per non cadere preda dell’orrore che adesca dal fondo della foresta. Ogni terreno ha dovuto, una volta,  essere dissodato dalla ragione, ripulito dalla sterpaglia della follia e del mito.
E’ quanto occorre qui fare per il XIX secolo.




Questo scritto sui ‘passages’ parigini, è stato cominciato sotto un cielo libero, di un azzurro senza nubi, che si inarcava sopra le pareti ornate di foglie, e tuttavia è stato coperto dalla polvere dei secoli dai milioni di fogli, tra i quali stormivano la fresca brezza della solerzia, il respiro affannoso del ricercatore, l’impeto dello zelo giovanile, il lento venticello della curiosità. Poiché il cielo dipinto nei colori dell’estate, che si affaccia dalle arcate nella sala di lettura della Biblioteca nazionale di Parigi, vi ha steso sopra il suo manto sognante ed opaco. 




Il ‘pathos’ di questo lavoro: non ci sono epoche di decadenza. Un tentativo di guardare al secolo XIX in modo affatto positivo, così come nel lavoro sul dramma barocco mi sono sforzato di vedere il XVII. Nessuna fede in epoche di decadenza.
Similmente (fuori dai suoi confini) per me è bella ogni città ed è inaccettabile ogni discorso sul maggiore o minore valore di una lingua.




“Sui gradini spazzati dal vento della torre Eiffel e più ancora sulle zampe d’acciaio di un ‘pont transbordeur’ ci si imbatte nell’esperienza estetica fondamentale dell’architettura odierna: attraverso l’esile rete di ferro tesa nell’aria scorrono le cose, le navi, le case, i piloni, il porto, il paesaggio.
Esse perdono la loro figura ben delimitata: discendendo ruotano l’una nell’altra, confondendosi simultaneamente”.
Giedion, ‘Bauen in Frankreich’ (p. 7). Similmente lo storico oggi ha da erigere una sottile, ma solida struttura – una struttura filosofica – per catturare nella sua rete gli aspetti più attuali del passato. Ma come le grandiose visioni offerte dalle nuove architetture in ferro della città – vedi anche Giedion – rimasero a lungo privilegio esclusivo degli operai e degli ingegneri, così anche il filosofo, che vuole conquistare qui le prime visioni, deve essere un lavoratore indipendente, libero da vertigini e, se necessario, solo.
(W. Benjamin, Parigi capitale del XIX secolo)




Facevano pena, nella loro lampante impotenza.
Più d’ogni altra cosa, avevano poi il sacro terrore di tutti coloro che indossavano una divisa e ogni volta che scorgevano un poliziotto attraversavano di fretta la strada e se la svignavano.
Per tutto il primo giorno, si trascinarono di qua e di là, nel mezzo d’una assordante confusione, totalmente sperduti; e finalmente verso sera, un agente li trovò che se ne stavano rannicchiati sotto un androne e riuscì a condurli alla più vicina stazione di polizia.
Il mattino seguente, si trovò un interprete e la famigliola fu presa e caricata su un tram elettrico, e le venne insegnata una nuova parola: ‘Macelli’. La gioia che provarono nell'apprendere che sarebbero usciti da questa nuova avventura senza separarsi da un altro po’ del gruzzolo prezioso, è indescrivibile. Si sedettero e guardarono fuori dal finestrino. Viaggiavano lungo una strada che sembrava correre senza fine, chilometro dopo chilometro  cinquantadue in tutto, ma non potevano saperlo  fiancheggiata da due file ininterrotte di misere e cadenti costruzioni in legno, a due piani.
 Gli scorci che potevano intravedere giù per le viuzze laterali erano sempre gli stessi: mai una collina, mai un declivio, sempre una distesa di casupole di legno, brutte e sudice. Qua e là, un ponte su un fiumiciattolo limaccioso, dalle sponde di fango indurito costellate di banchine e capannoni cadenti; qua e là, un paesaggio a livello, con ragnatele di scambi e locomotive sbuffanti e lunghe teorie di sferraglianti treni merci. Poi qualche grossa fabbrica, squallidi edifici punteggiati di innumerevoli finestre, con le ciminiere che vomitavano turgide spire di fumo che annerivano il cielo in alto e si depositavano sudice sulla terra in basso.




Ma, dopo ciascuna di queste interruzioni, la desolata processione di tetre casupole ricominciava da capo. Un’ora buona prima di entrare in città, i lituani cominciarono ad avvertire singolari cambiamenti nell’atmosfera che li circondava: l'oscurità sembrò farsi più fitta, più densa, e l'erba intorno sempre meno verde, meno lucida. Con il passar del tempo, mentre il tram elettrico procedeva a tutta velocità, era come se i colori delle cose s’andassero offuscando: i campi si facevano aridi e giallastri, il paesaggio cupo e spoglio. E, insieme al fumo che diveniva più denso, cominciarono a percepire un'altra caratteristica, un odore strano e pungente: non riuscivano a dire se era sgradevole o meno, qualcuno forse l’avrebbe definito
rivoltante, ma i loro gusti in fatto di odori non erano raffinati e quel  che sapevano per certo era che si trattava d’un odore curioso.
Adesso seduti in quel tram elettrico, si resero conto d’esser sul punto di giungere alla fonte di quell’odore..d'esser anzi venuti dalla lontana Lituania per trovarlo. Non era più un qualcosa di vago e distante, adesso che t’arriva a folate; adesso potevi letteralmente assaggiarlo, oltre che annusarlo, quasi afferralo, esaminarlo a tuo piacere, voltandolo e rivoltandolo. Le rispettive opinioni variavano al riguardo: c’era chi lo percepiva come un odore elementare, nudo e crudo; per un altro era ricco, quasi rancido, o sensuale e acuto; altri ancora lo inalavano quasi   fosse una sostanza inebriante; e alcuni affondavano disgustati il volto nel fazzoletto.




I nuovi arrivati erano ancora intenti ad assaggiarlo, perduti nel loro stupore, quando di colpo la vettura s’arrestò, dal di fuori la porta fu spalancata, e una voce gridò: ‘Macelli!!’. Scesero e si fermarono all’angolo, abbandonati a sé, lo sguardo fisso. Giù dalla via laterale potevano scorgere due lunghe teorie di costruzioni in mattoni e in fondo, racchiuse tra quelle due file d’edifici, una mezza dozzina di ciminiere svettanti, alte come la costruzione più alta, che sembravano trafiggere il cielo. Da esse si levavano altrettante colonne di fumo spesso, oleoso, nero come le tenebre della notte, un fumo che sembrava emergere dal cuore della terra dove divampavano senza posa i fuochi eterni.
Si rovesciava fuori dalla bocca delle ciminiere come premuto da una forza interiore, spingendo innanzi ogni cosa, un’esplosione senza fine, inarrestabile. Sostavi ad osservarlo nella convinzione che ad un certo punto dovesse pur fermarsi, e invece quelle dense volute gigantesche non cessavano di riversarsi nel cielo, stendendosi in vaste nubi di sopra delle ciminiere, arricciandosi e turbando lente, e infine fondendosi in un unico fiume smisurato che oscurava il cielo con un nero drappo funebre che si stendeva fin dove riusciva a spingersi lo sguardo.




La loro casa!
La loro casa!  
L’avevano persa!
Dolore, disperazione, rabbia lo travolsero…
Che cos’era, di fronte a questa spietata, straziante realtà, qualunque timore nutrito in carcere?
Di fronte alla vista di gente sconosciuta che viveva nella sua casa, che appendeva le proprie tendine alle sue finestre, che lo squadrava con occhi ostili?
Era mostruoso, era incredibile…
Non potevano farlo…
Non poteva esser vero!
Se pensava a quel che aveva passato per quella casa… le miserie che tutti avevano sofferto per quella casa il prezzo che avevano pagato pur di averla!
Gli tornò alla mente il ricordo di tutta la lunga agonia.
I sacrifici, quei trecento dollari che erano riusciti a mettere insieme, tutto quel che avevano al mondo, tutto quello che li separava dalla morte per inedia! E poi la fatica quotidiana, mese dopo mese, per racimolare i dodici dollari, oltre gli interessi, e poi le tasse e le altre spese e le riparazioni e che altro!
CI AVEVANO MESSO L’ANIMA per pagarsi quella casa, l’avevano pagata con il loro sudore, con le loro lacrime... Di più, il loro sangue.




Dede Antanas era morto in quella lotta per metter da parte il denaro… Sarebbe stato ancora vivo e arzillo, oggi se non fosse dovuto andare a lavorare nei bui sotterranei della Durham, per guadagnare la sua parte. E Ona, anche lei aveva dato salute ed energie per pagare la casa… E ora, era a pezzi, distrutta; e lui pure, che non più di tre anni fa era un giovane grande e grosso e ora se ne stava seduto lì, tremante, spezzato nel morale, vinto, a piangere come un bimbo isterico. Ah, avevano gettato tutti se stessi, nella lotta; e avevano perso, avevano perso! Tutto quel che avevano sborsato, era andato in fumo, centesimo dopo centesimo. Anche la casa era andata in fumo: erano tornati al punto di partenza, di nuovo per strada a morir di fame e di gelo! Ora, Jurgis riusciva a vedere tutta la verità; poteva vedersi, attraverso quella lunga sequenza d’avvenimenti, vittima d’avvoltoi famelici che s’erano gettati su di lui, strappandogli quanto aveva di vitale, divorandolo; di demoni che non gli avevano dato tregua, che l’avevano torturato senza perder l’occasione di deriderlo, di sghignazzarli in faccia. 
Ah, Dio, l’orrore di quella storia, la mostruosa, l’orrenda, la demoniaca perversione di tutto quanto!




Lui e la sua famiglia, donne e bambini indifesi, che lottavano per sopravvivere, ignorati, abbandonati a sé, sperduti, e intorno, quei nemici in agguato, pronti a balzar loro addosso, che li incalzavano da presso assetati del loro sangue! Quel primo maledetto volantino pieno di falsità! Quel maledetto agente immobiliare, untuoso e mielato! E poi la trappola delle spese extra, degli interessi, di tutti quei contributi che non avevano alcuna possibilità di versare, che nemmeno si sarebbero provati a pagare! E gli imbrogli degli industriali conservatori, loro padroni e loro tiranni… Le serrate e la mancanza di lavoro, gli orari irregolari, gli spietati aumenti di produttività, il taglio dei salari, il rialzo dei prezzi! E la crudeltà della natura intorno, il caldo e il freddo, la pioggia e la neve; la spietatezza della città, del paese in cui erano andati a vivere, delle sue leggi e delle sue convenzioni che non riuscivano a comprendere! Tutte queste cose avevano congiurato insieme contro di loro e a favore della compagnia, che li aveva segnati come proprie prede e aspettava solo l’occasione buona per colpirli. E adesso, con quell’ultima ingiustizia, l’occasione era giunta – armi e bagaglio – erano stati buttati fuori, la casa era stata loro tolta e rivenduta come nuova!
E non potevano farci nulla legati com’erano mani e piedi…
(U. Sinclair, La giungla)

(Prosegue...)

















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