CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

mercoledì 10 febbraio 2021

LA POLVERE GIALLA (3)

 










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Sull'Himalaya (1/2)


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La polvere gialla (4)









& con l'intero Capitolo da cui 


il paragrafo tratto (Le Tre Visioni)








Fin dai tempi più antichi i popoli del subcontinente indiano credettero il Tibet una terra favolosamente ricca di oro. Ciò perché la maggior parte dei grandi fiumi che scendono dagli altipiani tibetani trasportano a valle polvere d’oro, e per secoli coloro che sono vissuti lungo le rive di questi corsi d’acqua hanno setacciato il limo alla ricerca del metallo luccicante.




 In Europa, questa convinzione che il Tibet fosse un El Dorado asiatico si può far risalire a Erodoto, il padre della storia e il primo scrittore in Occidente a citare questa terra chimerica a nord dell’India. Circa quattro secoli prima della nascita di Cristo, aveva scritto di grandi formiche che vivevano nel deserto lassù e scavavano montagne di sabbia piena d’oro. Tant’è che nel vicino Ladakh l’oro è stato chiamato l’oro della formica fino a tempi relativamente recenti, nella convinzione che questi insetti, smuovendo il terreno per costruire i loro formicai, a volte portassero alla luce le pepite.




 L’appetito britannico per l’oro tibetano era stato stimolato per la prima volta nel 1775, quando il Panchen Lama aveva inviato in dono a Warren Hastings alcuni lingotti e della polvere d’oro. Con il ritorno di Nain Singh dal Tibet, si era risvegliato all’improvviso Tra le informazioni che Nain riferì, infatti, vi erano voci sull’esistenza di bacini auriferi in varie parti del paese. Inoltre, egli aveva visto con i propri occhi nei templi di Lhasa e di Shigatse molti Buddha riccamente coperti d’oro e altri oggetti d’oro. Ma aveva anche appreso che i tibetani erano riluttanti a sfruttare i loro bacini auriferi per via della curiosa convinzione che le pepite contengano vita e siano i progenitori della polvere d’oro. Interferire con le prime, essi credevano, avrebbe interrotto la fornitura della seconda e di conseguenza impoverito il loro paese. Se qualcuno scavava per sbaglio una pepita, immediatamente la seppelliva di nuovo.




Una simile superstizione esisteva anche riguardo all’argento, e Nain Singh sentì parlare di un cinese cui non molto tempo prima erano state amputate le mani, quando le autorità avevano scoperto che aveva scavato gran quantità di minerale argentifero da una collina sei chilometri a sud della capitale. Ma il pandit venne anche a sapere che, a condizione che fossero abbastanza lontani dalla capitale e da altri centri  religiosi, era permesso sfruttare determinati bacini auriferi, come in effetti accadeva.

 

Montgomerie era deciso a scoprire la verità riguardo a questi leggendari bacini auriferi. I più vicini tra quelli attivi sembrava si trovassero nei pressi di una piccola città del Tibet occidentale chiamata Thok Jalung. Ammesso di superare l’ostacolo delle guardie di frontiera tibetane, il modo più facile per raggiungere questa regione desolata era dal Ladakh, a ovest, una zona che Montgomerie conosceva forse meglio di tutti. Per nove anni era stato a capo delle operazioni di compilazione delle mappe per il Survey of India nella zona del Kashmir, che includeva anche la regione del Ladakh. Nell’insieme essa abbracciava un’area di circa centottantamila chilometri quadrati, ostruita da montagne e, nel corso di gran parte del lavoro di ricognizione, piena zeppa di soldati ammutinati. Senza la perdita di neppure una vita, Montgomerie era riuscito a completare questa mappa di importanza cruciale entro il 1864, e a vincere in virtù di ciò l’ambita medaglia d’oro della Royal Geographical Society.




Ma sapeva meglio di tutti con quanta attenzione i tibetani controllavano la frontiera con il Ladakh, essendo molto sospettosi delle attività dei topografi inglesi alle pendici dei loro valichi. Decise, dunque, di infiltrare nel Tibet i suoi uomini - questa volta sarebbero stati in tre - attraverso il passo Mana, ad oltre cinquemilaseicento metri di altitudine, ancora una volta travestiti da mercanti bisahari. Scelse per capo il brillante Nain Singh, e come suoi compagni il cugino Mani e un terzo pandit addestrato di recente. Essi raggiunsero il passo Mana nel giugno 1867, per scoprire che era ancora bloccato dalla neve. Appresero anche che ogni anno il passo doveva essere aperto ufficialmente dai tibetani dopo che si fossero accertati che nulla di avverso - come guerre, pestilenze o carestie – fosse in corso sul versante indiano.




Il mese successivo i tibetani aprirono formalmente il passo e i tre pandit si misero in cammino insieme con otto servitori che avevano assoldato durante l’attesa. Erano bene armati e pronti a respingere le bande di briganti che terrorizzavano questa regione selvaggia e poco controllata. Alla frontiera il loro bagaglio fu attentamente ispezionato dai funzionari doganali tibetani senza che riuscissero a trovare gli strumenti di rilevazione nascosti. Arrancando in mezzo alle montagne desolate in direzione di Gartok, attraversarono il fiume Sutlej su un ponte sospeso a catene lungo oltre venti metri che così sosteneva la leggenda locale, era stato costruito da Alessandro il Grande più di duemila anni prima. Largo più di due metri e sospeso dodici metri al di sopra delle acque turbolente, le sue grandi catene di ferro erano forgiate con anelli a forma di 8 lunghi trenta centimetri. Per evitare che si arrugginissero, ogni anno erano attentamente lubrificate con burro di yak.




 Alla fine, attraversati due passi molto alti, a oltre cinquemilasettecento metri, e un altro a quota cinquemilatrecento, i pandit raggiunsero un grande accampamento di nomadi. Qui, in un primo momento, il capo tribù mise in dubbio la loro pretesa di essere mercanti bisahari che vendevano coralli e speravano di comprare lana tibetana per farne scialli destinati al mercato indiano, ma, con l’aiuto di doni, il persuasivo Nain Singh, sempre pieno di risorse, riuscì più o meno a convincerlo e a lasciarli proseguire. Tuttavia a   garanzia del loro ritorno dovettero lasciare in ostaggio lo sfortunato Mani. Usciti che furono dal campo, Nain Singh spedì il terzo pandit a compiere rilievi lungo il fiume Indo, risalendone il corso il più possibile, mentre lui, dal canto suo, si diresse a est verso i ricchi bacini auriferi che si diceva esistessero dalle parti di Thok Jalung.




Quando ormai si avvicinava a quella regione remota, contando ogni passo come al solito, Nain Singh iniziò a udire il suono misterioso di molte voci che cantavano in lontananza. Si rivelarono poi essere le voci dei minatori e delle loro famiglie, che cantavano per tenere alto il morale, oltre che per riscaldarsi in quella piana desolata battuta dal vento. Malgrado fosse solo agosto, il pandit confessò in seguito a Montgomerie di non aver mai sofferto tanto freddo in tutti i suoi viaggi. Per fortuna l’astuto Nain Singh si era dato la pena di scoprire in anticipo le particolari preferenze del capo della miniera, un funzionario proveniente da Lhasa. Malgrado ciò, costui, pur palesemente compiaciuto del fatto che il pandit gli avesse regalato del tabacco indiano della migliore qualità, era assai sospettoso nei suoi confronti, e lo esortò a portare a termine qualsiasi faccenda avesse da sbrigare in città e ad andarsene il prima possibile.




Disse a Nain Singh che un’ordinanza bandiva tutti i Bisahari dalla regione. Ma, per un colpo di fortuna, sua moglie scoprì che Nain Singh commerciava in coralli, per i quali lei aveva un debole, e persuase il marito a comprarglieli in cambio di oro. Egli allora divenne meno sospettoso nei confronti del pandit e parlò liberamente con lui della vita e del lavoro nei bacini auriferi, che i calcoli discreti di Nain Singh rivelarono trovarsi a quasi cinquemila metri sopra il livello del mare. A causa dei venti terribili che sferzavano quell’altopiano inospitale, i minatori, vestiti di stracci, vivevano in tende di lana di yak piantate in apposite buche, un buon paio di metri sotto il livello del terreno. I loro scavi in cerca di oro, sparsi per oltre un chilometro, erano realizzati con pale dal manico lungo, fino a una profondità di oltre sette metri. Un ruscelletto che attraversava utilmente il sito era usato per lavare l'oro dalla terra di scavo.




Il bacino aurifero di Thok Jalung parve a Nain Singh estremamente produttivo, ed egli notò una pepita del peso di almeno un chilo. Notò anche un certo numero di bacini auriferi abbandonati nelle vicinanze, e apprese che ce n’erano molti di più tra Thok Jalung e Gartok, centotrenta chilometri più in là. A Nain Singh fu spiegato che qualsiasi tibetano lo desiderasse poteva scavare i bacini auriferi di Thok Jalung pagando al governo la cosiddetta tassa del cercatore d’oro. Apprese anche, fatto alquanto sorprendente che in inverno il numero dei minatori aumentava in modo considerevole, fino a raggiungere quasi le seimila unità, il doppio dell’estate. Il motivo era che in estate il suolo a volte crollava in testa ai minatori, rendendo il lavoro molto pericoloso, mentre in inverno era congelato e dunque più sicuro.


(Prosegue con la seconda parte del paragrafo)


(&  il capitolo - o visione - completa)









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