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il paragrafo tratto (Le Tre Visioni)
Fin dai
tempi più antichi i popoli del subcontinente indiano credettero il Tibet una terra favolosamente ricca di oro. Ciò perché la maggior parte
dei grandi fiumi che scendono dagli altipiani tibetani trasportano a valle
polvere d’oro, e per secoli coloro che sono vissuti lungo le rive di questi
corsi d’acqua hanno setacciato il limo alla ricerca del metallo luccicante.
Una simile superstizione esisteva anche riguardo all’argento, e Nain Singh sentì parlare di un cinese cui non molto tempo prima erano state amputate le mani, quando le autorità avevano scoperto che aveva scavato gran quantità di minerale argentifero da una collina sei chilometri a sud della capitale. Ma il pandit venne anche a sapere che, a condizione che fossero abbastanza lontani dalla capitale e da altri centri religiosi, era permesso sfruttare determinati bacini auriferi, come in effetti accadeva.
Montgomerie era deciso a scoprire la verità riguardo
a questi leggendari bacini auriferi. I più vicini tra quelli attivi sembrava si
trovassero nei pressi di una piccola città del Tibet occidentale chiamata Thok Jalung. Ammesso di superare l’ostacolo
delle guardie di frontiera tibetane, il modo più facile per raggiungere questa
regione desolata era dal Ladakh, a ovest, una zona che Montgomerie conosceva
forse meglio di tutti. Per nove anni era stato a capo delle operazioni di compilazione
delle mappe per il Survey of India nella zona del Kashmir, che includeva
anche la regione del Ladakh. Nell’insieme
essa abbracciava un’area di circa centottantamila chilometri quadrati, ostruita
da montagne e, nel corso di gran parte del lavoro di ricognizione, piena zeppa
di soldati ammutinati. Senza la perdita di neppure una vita, Montgomerie era
riuscito a completare questa mappa di importanza cruciale entro il 1864, e a vincere in virtù di ciò l’ambita medaglia d’oro della
Royal Geographical Society.
Ma sapeva meglio di tutti con quanta attenzione i tibetani controllavano la frontiera con il Ladakh, essendo molto sospettosi delle attività dei topografi inglesi alle pendici dei loro valichi. Decise, dunque, di infiltrare nel Tibet i suoi uomini - questa volta sarebbero stati in tre - attraverso il passo Mana, ad oltre cinquemilaseicento metri di altitudine, ancora una volta travestiti da mercanti bisahari. Scelse per capo il brillante Nain Singh, e come suoi compagni il cugino Mani e un terzo pandit addestrato di recente. Essi raggiunsero il passo Mana nel giugno 1867, per scoprire che era ancora bloccato dalla neve. Appresero anche che ogni anno il passo doveva essere aperto ufficialmente dai tibetani dopo che si fossero accertati che nulla di avverso - come guerre, pestilenze o carestie – fosse in corso sul versante indiano.
Il mese successivo i tibetani aprirono formalmente il passo e i tre pandit si misero in cammino insieme con otto servitori che avevano assoldato durante l’attesa. Erano bene armati e pronti a respingere le bande di briganti che terrorizzavano questa regione selvaggia e poco controllata. Alla frontiera il loro bagaglio fu attentamente ispezionato dai funzionari doganali tibetani senza che riuscissero a trovare gli strumenti di rilevazione nascosti. Arrancando in mezzo alle montagne desolate in direzione di Gartok, attraversarono il fiume Sutlej su un ponte sospeso a catene lungo oltre venti metri che così sosteneva la leggenda locale, era stato costruito da Alessandro il Grande più di duemila anni prima. Largo più di due metri e sospeso dodici metri al di sopra delle acque turbolente, le sue grandi catene di ferro erano forgiate con anelli a forma di 8 lunghi trenta centimetri. Per evitare che si arrugginissero, ogni anno erano attentamente lubrificate con burro di yak.
Quando ormai si avvicinava a quella regione remota, contando ogni passo come al solito, Nain Singh iniziò a udire il suono misterioso di molte voci che cantavano in lontananza. Si rivelarono poi essere le voci dei minatori e delle loro famiglie, che cantavano per tenere alto il morale, oltre che per riscaldarsi in quella piana desolata battuta dal vento. Malgrado fosse solo agosto, il pandit confessò in seguito a Montgomerie di non aver mai sofferto tanto freddo in tutti i suoi viaggi. Per fortuna l’astuto Nain Singh si era dato la pena di scoprire in anticipo le particolari preferenze del capo della miniera, un funzionario proveniente da Lhasa. Malgrado ciò, costui, pur palesemente compiaciuto del fatto che il pandit gli avesse regalato del tabacco indiano della migliore qualità, era assai sospettoso nei suoi confronti, e lo esortò a portare a termine qualsiasi faccenda avesse da sbrigare in città e ad andarsene il prima possibile.
Disse a Nain Singh che un’ordinanza bandiva tutti i Bisahari dalla regione. Ma, per un colpo di fortuna, sua moglie scoprì che Nain Singh commerciava in coralli, per i quali lei aveva un debole, e persuase il marito a comprarglieli in cambio di oro. Egli allora divenne meno sospettoso nei confronti del pandit e parlò liberamente con lui della vita e del lavoro nei bacini auriferi, che i calcoli discreti di Nain Singh rivelarono trovarsi a quasi cinquemila metri sopra il livello del mare. A causa dei venti terribili che sferzavano quell’altopiano inospitale, i minatori, vestiti di stracci, vivevano in tende di lana di yak piantate in apposite buche, un buon paio di metri sotto il livello del terreno. I loro scavi in cerca di oro, sparsi per oltre un chilometro, erano realizzati con pale dal manico lungo, fino a una profondità di oltre sette metri. Un ruscelletto che attraversava utilmente il sito era usato per lavare l'oro dalla terra di scavo.
Il bacino aurifero di Thok Jalung parve a Nain Singh estremamente produttivo, ed egli notò una pepita del peso di almeno un chilo. Notò anche un certo numero di bacini auriferi abbandonati nelle vicinanze, e apprese che ce n’erano molti di più tra Thok Jalung e Gartok, centotrenta chilometri più in là. A Nain Singh fu spiegato che qualsiasi tibetano lo desiderasse poteva scavare i bacini auriferi di Thok Jalung pagando al governo la cosiddetta tassa del cercatore d’oro. Apprese anche, fatto alquanto sorprendente che in inverno il numero dei minatori aumentava in modo considerevole, fino a raggiungere quasi le seimila unità, il doppio dell’estate. Il motivo era che in estate il suolo a volte crollava in testa ai minatori, rendendo il lavoro molto pericoloso, mentre in inverno era congelato e dunque più sicuro.
(Prosegue con la seconda parte del paragrafo)
(& il capitolo - o visione - completa)
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