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La grande ruota di alluminio (5)
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Rubarono tutta la frutta dagli alberi
Prosegue più o meno...:
Il
direttore della grande Compagnia Commerciale, spintosi fino a lì su un
piroscafo che pareva un’enorme scatola di sardine sormontata da una specie di
rimessa dal tetto piatto, trovò la stazione in buon ordine e Makola tranquillo
e solerte come al solito.
Il
direttore fece mettere la croce sulla tomba del primo agente e assegnò il posto
a Kayerts. Carlier fu nominato suo subalterno. Il direttore era un uomo
SPIETATO ED EFFICIENTE che a volte si abbandonava, ma quasi impercettibilmente,
a un umorismo arcigno. Fece un discorso a Kayerts e Carlier sottolineando i
lati promettenti della loro stazione. Il mercato più vicino era a circa
trecento miglia. Per loro era un’occasione eccezionale di distinguersi e di
guadagnare provvigioni sugli affari.
Quell’incarico
era una fortuna per dei principianti. Kayerts fu commosso fin quasi alle
lacrime dalla gentilezza del direttore. Rispose che avrebbe cercato, facendo
del suo meglio, di giustificare la fiducia lusinghiera eccetera eccetera. Kayerts
era stato nell’Amministrazione del Telegrafi e sapeva esprimersi correttamente.
Carlier,
già sottufficiale di cavalleria in un esercito tutelato da ogni rischio da
diverse Potenze europee, fu meno impressionato. Se c’erano guadagni da fare,
tanto meglio!
E facendo
scorrere uno sguardo stizzito sul fiume, sulle foreste, le impenetrabili
boscaglie che parevano tagliar fuori la stazione dal resto del mondo, mormorò
tra i denti:
– Si vedrà,
molto presto.
Il giorno
dopo, scaricate alcune balle di cotone e qualche cassa di provviste sulla riva,
la scatola di sardine a vapore salpò per non far ritorno per altri sei mesi.
In coperta
il direttore si toccò il berretto per salutare i due agenti che stavano in
piedi sulla sponda agitando i cappelli e, rivolgendosi a un vecchio impiegato
della Compagnia che rientrava alla direzione, disse:
– Guardi
quei due imbecilli. Devono essere matti in patria per mandarmi campioni simili.
Ho detto a quei due di piantare un orto, di fabbricare nuovi magazzini e
staccionate e costruire un pontile. Scommetto che non faranno niente! Non
sapranno da che parte cominciare. Sono sempre stato dell’avviso che una
stazione su questo fiume fosse inutile, e quei due sono proprio adatti alla stazione!
– Ci si
faranno le ossa, lì,
disse il
veterano con un placido sorriso.
– Ad ogni
modo, me li son levati di torno per sei mesi, ribatté il direttore.
I due
uomini stettero a osservare il vapore che girava la curva, poi, salendo
sottobraccio il pendio della sponda, tornarono alla stazione.
Erano in
quel vasto, tenebroso paese da pochissimo tempo, e, fino allora, sempre in
mezzo ad altri bianchi, sotto l’occhio e la guida dei superiori. E ora, per
quanto insensibili al sottile influsso dell’ambiente circostante, si sentirono
molto soli, lasciati così all’improvviso ad affrontare la terra desolata; una
terra desolata resa più strana, più incomprensibile dai misteriosi indizi della
vita rigogliosa che conteneva.
Erano di
quegli uomini insignificanti e inetti la cui esistenza è resa possibile
soltanto DALLA PERFETTA ORGANIZZAZIONE DI FOLLE CIVILIZZATE.
Pochi
uomini si rendono conto che la loro vita, l’essenza stessa del loro carattere,
delle loro capacità e della loro audacia sono soltanto l’espressione della loro
fede nella sicurezza dell’ambiente.
Il
coraggio, la calma, la fiducia; le emozioni e i princìpi; ogni pensiero grande
e insignificante non appartengono all’individuo, ma alla folla: alla folla che
crede ciecamente nella forza irresistibile delle proprie istituzioni e della
propria morale, nel potere della sua polizia e delle sue opinioni.
Ma il
contatto con la pura, assoluta barbarie, con la natura e con l’uomo primitivi,
porta un turbamento subitaneo e profondo nel cuore. Alla sensazione d’essere
gli unici della propria specie, alla chiara percezione della solitudine dei
propri pensieri, delle proprie sensazioni; alla negazione dell’abituale, che è
sicuro, si aggiunge l’affermazione dell’insolito, che è pericoloso; un
presentimento di cose vaghe, incontrollabili e repellenti, la cui sgradevole
intrusione eccita la fantasia e mette alla prova i nervi inciviliti tanto del
folle quanto del savio.
Kayerts e
Carlier camminavano sottobraccio stringendosi l’un all’altro come fanno i
bambini al buio; e avevano la stessa sensazione, non del tutto spiacevole, di
pericolo che sembra quasi immaginario.
Chiacchieravano
continuamente, in tono familiare.
– Il nostro scalo è in una bella posizione,
disse
l’uno.
L’altro
assentì con entusiasmo, dilungandosi loquacemente sulle bellezze del posto.
Poi
passarono accanto alla tomba.
– Povero diavolo!
disse
Kayerts.
– E’ morto di febbre, vero?
mormorò
Carlier, fermandosi di botto.
– Mah! ribatté Kayerts, con indignazione.
– Mi hanno
detto che si esponeva imprudentemente al sole!
Dicono
tutti che il clima locale non sia peggiore di quello che abbiamo in patria, a
patto di tenersi lontano dal sole. Capito, Carlier?
Qui sono io
il capo, e le ordino di non esporsi al sole!
Assumeva la posizione di comando in tono
scherzoso, ma l’intenzione era seria. L’idea
che forse avrebbe dovuto seppellire Carlier e restar solo gli dava un brivido
dentro.
Sentì
improvvisamente che qui, nel centro dell’Africa, questo Carlier era più
prezioso di quanto potesse essere un fratello in qualunque altro luogo.
Carlier, entrando nello spirito della faccenda, fece un saluto militare e
rispose in tono allegro:
– I suoi
ordini saranno eseguiti, capo!
Poi scoppiò
a ridere, dette una manata sulle spalle di Kayerts e gridò:
– Faremo in modo che la vita scorra tranquilla
qui!
Ce ne
staremo belli comodi a ricevere l’avorio che porteranno quei selvaggi. Dopotutto
questo paese ha i suoi lati buoni!
Risero
forte tutt’e due, mentre Carlier pensava:
– Quel
povero Kayerts, è così grasso e così poco sano! Sarebbe un bel guaio se dovessi
seppellirlo qui. E’ un uomo che
rispetto…
Prima di arrivare alla veranda della loro casa già si davano del ‘vecchio mio’.
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