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Io sono un cervo: dalle corna a sette palchi,
io sono una piena: attraverso una pianura,
io sono un vento: su un lago profondo,
io sono una lacrima: che il Sole lascia cadere,
io sono un falco: alto sulla scogliera,
io sono una spina: sotto l’unghia,
io sono una meraviglia: tra i fiori,
io sono uno stregone: chi oltre a me
infiamma la fredda testa con il fumo?
Io sono una lancia: che ruggisce in cerca di sangue,
io sono un salmone: in una pozza,
io sono un’esca: del paradiso,
io sono una collina: dove camminano i poeti,
io sono un cinghiale: crudele e rosso,
io sono un frangente: che minaccia rovina,
io sono una marea: che trascina alla morte,
io sono un infante: chi oltre a me
guarda furtivamente dall’arco del dolmen non sbozzato?
Io sono il grembo: di ogni bosco,
io sono la vampa: su ogni collina,
io sono la regina: di ogni alveare,
io sono lo scudo: per ogni testa,
io sono la tomba: di ogni speranza.
Qual è oggi l’utilità o la funzione della poesia?
La domanda si rivela non meno urgente per il fatto di essere posta in tono provocatorio da tanti babbei o soddisfatta con risposte apologetiche da tanti sciocchi.
La funzione della poesia è l’invocazione religiosa della Musa; la sua utilità è la sperimentazione di quel misto di esaltazione e di orrore che la sua presenza eccita.
Ma oggi?
La funzione e l’utilità rimangono le stesse: solo l’applicazione è mutata.
Un tempo la poesia serviva per ricordare all’uomo che doveva mantenersi in armonia con la famiglia delle creature viventi tra le quali era nato, mediante l’obbedienza ai desideri della padrona di casa; oggi ci ricorda che l’uomo ha ignorato l’avvertimento e ha messo sottosopra la casa con i suoi capricciosi esperimenti filosofici, scientifici e industriali, attirando la rovina su se stesso e sulla sua famiglia.
L’oggi è una civiltà in cui gli emblemi primi della poesia sono disonorati; in cui il serpente, il leone e l’aquila appartengono al tendone del circo; il bue, il salmone e il cinghiale all’industria dei cibi in scatola; il cavallo da corsa e il levriero al botteghino delle scommesse; e il bosco sacro alla segheria.
Una civiltà in cui la Luna è disprezzata come un satellite senza vita e la donna è ‘personale statale ausiliario’.
In cui il denaro può comprare ogni cosa eccetto la verità, e chiunque eccetto il poeta posseduto dalla verità.
Datemi pure della volpe che ha perso la coda; io non sono servo di nessuno e ho scelto di vivere nella frazione di un paesino sui monti di Maiorca, cattolico ma antiecclesiastico, dove la vita è ancora regolata dall’antico ciclo agricolo. Privo come sono della coda, ossia del contatto con la civiltà urbana, tutto ciò che scrivo deve suonare assurdo e irrilevante a quelli tra voi che sono ancora legati agli ingranaggi della macchina industriale, sia direttamente come operai, dirigenti, commercianti o pubblicitari, sia indirettamente come funzionari, editori, giornalisti, insegnanti o dipendenti di una rete radiofonica.
Se siete poeti, comprenderete che l’accettazione della mia tesi storica vi obbliga a una confessione di tradimento che sarete restii a fare. Avete scelto il vostro lavoro perché vi prometteva un’entrata costante e il tempo libero necessario per rendere un prezioso culto a metà tempo alla Dea che adorate.
Vi domanderete a che titolo io vi avverta che essa vuole essere servita a tempo pieno o non essere servita affatto.
Vi suggerisco forse di lasciare il vostro impiego e, in mancanza dei capitali necessari per avviare una piccola azienda agricola, di diventare pastori romantici (come fece Don Chisciotte una volta constatata la propria incapacità di affrontare il mondo moderno) in remote fattorie non meccanizzate?
No, la mia condizione di scodato mi toglie ogni diritto di offrire suggerimenti pratici. Ardisco solo tentare un’esposizione storica del problema; come poi voi ve la vedrete con la Dea è cosa che non mi riguarda. Non so neppure se la vostra professione poetica sia cosa seria.
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