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Circa l'uomo... (31/2)
Prosegue con...:
Il mondo fino a ieri (34)
& il racconto della Domenica,
Più
lo spirito si illuminava, e più si perfezionò l’industria.
La
metallurgia e l’agricoltura furono le due arti, la cui invenzione produsse
questa grande rivoluzione. Per il poeta è l’oro e l’argento; ma per il filosofo
sono il ferro e il grano gli autori della civilizzazione degli uomini e della
perdizione del genere umano. Così l’uno come l’altro erano sconosciuti ai
selvaggi d’America, che per ciò son rimasti sempre tali; gli altri popoli
sembran pure esser rimasti barbari, finché han praticato una di queste arti
senza l’altra. E una delle migliori ragioni per cui l’Europa è stata, se non
prima, almeno più costantemente e meglio civilizzata delle altre parti del
mondo, è che essa è da un tempo la più abbondante di ferro e la più fertile di
grano.
È ben difficile congetturare come gli uomini siano arrivati a conoscere ed impiegare il ferro; perché non è credibile che abbian immaginato da sé di trarre la materia dalla miniera, e di darle le preparazioni necessarie per metterla in fusione, prima di sapere che cosa ne sarebbe risultato. D’altro lato si può tanto meno attribuire questa scoperta a qualche incendio casuale, in quanto le miniere non si formano che in luoghi aridi e spogli d’alberi e di piante; in modo che si direbbe che la natura avesse preso le sue precauzioni per sottrarci questo fatale segreto.
Non
resta dunque che la circostanza straordinaria di qualche vulcano che, vomitando
materie metalliche in fusione, avrà dato agli osservatori l’idea di imitare
questa operazione naturale: ancora bisogna supporre in loro buona dose di
coraggio e di previdenza, per intraprendere un lavoro tanto faticoso, e scorger
tanto di lontano i vantaggi che potevan trarne; ciò che non conviene se non a
spiriti già più esercitati che essi non dovessero essere.
Quanto all’agricoltura, il principio ne fu conosciuto ben prima che la pratica ne fosse stabilita; e non è possibile che gli uomini, occupati senza posa a trar alimenti dagli alberi e dalle piante, non avessero abbastanza prontamente l’idea delle vie che la natura impiega per la generazione dei vegetali; ma la loro industria non si volse probabilmente che ben tardi a questo lato, sia perché gli alberi che, con la caccia e la pesca, provvedevano al loro nutrimento, non avevan bisogno delle loro cure, sia per mancanza di conoscenza dell’uso del grano o di strumenti per coltivarlo o di previdenza per i bisogni avvenire, o infine di mezzi per impedire agli altri di appropriarsi i frutti del loro lavoro.
Divenuti più industriosi, si può credere che con pietre aguzze e bastoni appuntiti abbian cominciato a coltivare alcuni legumi o radici attorno alle loro capanne, gran tempo innanzi di saper preparare il grano e d’aver gli strumenti necessari per la coltura in grande; senza contare che, per darsi a tale occupazione e seminar le terre, bisogna decidersi a perder qualcosa da principio per guadagnar molto in seguito; precauzione ben lontana dalla forma mentale dell’uomo selvaggio, che, come ho detto, fa gran fatica a pensare la mattina ai suoi bisogni della sera.
Dalla
cultura delle terre derivò necessariamente la loro partizione; e dalla
proprietà, una volta riconosciuta, le prime regole della giustizia: giacché,
per rendere a ciascuno il suo, bisogna che ciascuno possa aver qualcosa; di
più, cominciando gli uomini a considerar l’avvenire, e trovandosi ognuno
qualche bene soggetto a perdersi, non ve n’era uno, che non avesse a temere per
sé la rappresaglia dei torti che potesse fare ad altri.
Quest’origine è tanto più naturale, in quanto è impossibile concepir l’idea della proprietà nascente da altro che dal lavoro; giacché non si vede che, per appropriarsi le cose non fatte da lui, l’uomo possa mettervi più che il suo lavoro. Solo il lavoro, dando diritto al coltivatore sul prodotto della terra da lui arata, gliene dà per conseguenza sul terreno, almeno sino al raccolto, e così di anno in anno; il che, facendo un possesso continuo, si trasforma facilmente in proprietà.
Le
cose in tale stato avrebbero potuto restar uguali, se gli ingegni fossero stati
uguali, e, per esempio, l’uso del ferro e la consumazione delle derrate si
fossero sempre esattamente bilanciate: ma la proporzione, che nulla manteneva,
fu presto rotta; il più forte faceva più lavoro; il più destro traeva miglior
partito dal suo; il più ingegnoso trovava mezzi d’abbreviar la fatica;
l’agricoltore aveva più bisogno di ferro o il fabbro più bisogno di grano; e,
lavorando ugualmente, uno guadagnava di più, mentre l’altro stentava a vivere.
Così la disuguaglianza naturale si svolge insensibilmente con quella di
combinazione; e le differenze degli uomini, sviluppate da quelle delle
circostanze, si rendono più sensibili, più permanenti nei loro effetti, e
cominciano a influire nella stessa proporzione sulla sorte dei singoli.
Giunte le cose a tal punto, è facile immaginare il resto. Non mi fermerò a descrivere l’invenzione successiva delle arti, i progressi delle lingue, la prova e l’uso delle capacità, la disuguaglianza delle fortune, l’uso o l’abuso delle ricchezze, né tutti i particolari che ne derivano e che ognuno può facilmente supplire. Mi limiterò solo a gettare un colpo d’occhio sul genere umano, posto in questo nuovo ordine di cose.
Ecco
dunque tutte le nostre facoltà sviluppate, la memoria e l’immaginazione in
giuoco, l’amor proprio interessato, la ragione resa attiva, e lo spirito giunto
quasi al termine di perfezione di cui è capace.
Ecco
tutte le qualità naturali messe in azione, la classe e la sorte di ogni uomo
stabilite, non solo sulla quantità dei beni e sul potere di servire o nuocere,
ma sullo spirito, sulla bellezza, la forza o l’abilità, sul merito o i talenti;
e queste qualità, essendo le sole che potessero attirare considerazione,
bisognò ben presto averle o fingerle.
Bisognò, per l’utile proprio, mostrarsi altro da quel che s’era in realtà.
Essere
e parere divennero due cose affatto differenti, e da questa
distinzione uscirono il fasto imponente, l’astuzia ingannatrice e tutti i vizi
che ne sono il corteo.
D’altro
lato, di libero e indipendente che era prima l’uomo, eccolo, da una quantità di
nuovi bisogni, assoggettato per così dire a tutta la natura e sopra tutto ai
suoi simili, di cui diventa in certo senso lo schiavo, anche diventandone il
padrone: ricco, ha bisogno dei loro servigi; povero, ha bisogno dei loro
soccorsi; e la mediocrità non lo mette punto in grado di farne a meno.
Bisogna dunque che egli cerchi senza posa d’interessarli alla sua sorte e di far loro trovare, in realtà o in apparenza, il loro utile nel lavorar per l’utile suo: ciò che lo rende furbo e artificioso cogli uni, imperioso e duro cogli altri, e lo mette nella necessità di ingannare tutti quelli di cui ha bisogno, quando non possa farsene temere, e non trovi il suo interesse a servirli utilmente. Infine l’ambizione divorante, l’ardore di elevare la sua fortuna relativa, non tanto per vero bisogno, quanto per mettersi al di sopra degli altri, inspira a tutti gli uomini una tendenza nera a nuocersi a vicenda, una gelosia segreta, tanto più pericolosa in quanto, per far il suo colpo più sicuramente, prende spesso la maschera della benevolenza; in una parola, concorrenza e rivalità da una parte, opposizione d’interessi dall’altra, e sempre il desiderio nascosto di fare l’utile proprio a spese altrui: tutti questi mali sono il primo effetto della proprietà e il corteo inseparabile della disuguaglianza sorgente.
…Così, facendosi i più potenti o i più miserabili delle loro forze o dei loro bisogni una specie di diritto al bene altrui, equivalente, secondo loro, a quello di proprietà, l’uguaglianza infranta fu seguita dal più orribile disordine; così le usurpazioni dei ricchi, il brigantaggio dei poveri, le passioni sfrenate di tutti, soffocando la pietà naturale e la voce ancor debole della giustizia, resero gli uomini avari, ambiziosi e malvagi. Si levò tra il diritto del più forte e il diritto del primo occupante un conflitto incessante, che non terminava che in combattimenti ed omicidi.
La
società nascente fece posto al più orribile stato di guerra: il genere umano,
avvilito e desolato, non potendo più tornare sui suoi passi, né rinunciare agli
infelici acquisti fatti, e lavorando solo a sua vergogna, con l’abuso delle
facoltà che l’onorano, si mise lui stesso sull’orlo della propria rovina.
Non è possibile che gli uomini non abbian fatto alla fine riflessioni su una condizione così miserabile e sulle calamità da cui erano oppressi. I ricchi, sopra tutto, dovettero presto sentire quanto fosse svantaggiosa per loro una guerra incessante, di cui facevan da soli tutte le spese, in cui il rischio della vita era comune, ma quello dei beni era loro particolare. D’altra parte, qualsiasi colore avessero potuto dare alle loro usurpazioni, sentivano abbastanza che esse non eran fondate che su un diritto precario ed abusivo, e che, essendo acquistate solo con la forza, la forza poteva togliergliele senza che avessero ragione di lagnarsi. Quelli pure che solo l’industria aveva arricchiti, non potevan fondare la loro proprietà su titoli migliori. Avevano un bel dire: 'Son io che ho costruito questo muro; io ho guadagnato questo terreno col mio lavoro'.
'Chi vi ha dato gli allineamenti, si poteva risponder loro, e in virtù di che pretendete d’esser pagati a nostre spese d’un lavoro che non vi abbiamo affatto ordinato? Ignorate voi che una quantità di vostri fratelli muore o soffre del bisogno di ciò che voi avete di troppo, e che vi sarebbe bisognato un consenso espresso ed unanime del genere umano per potervi appropriare, della sussistenza comune, tutto ciò che andava al di là della vostra?'. Privo di ragioni valide per giustificarsi e di forze sufficienti per difendersi; in grado di schiacciar facilmente un individuo, ma schiacciato a sua volta da branchi di banditi; solo contro tutti e non potendo, a cagione delle gelosie reciproche, unirsi coi suoi uguali contro nemici uniti dalla speranza comune del saccheggio; il ricco, premuto dalla necessità, concepì in fine il disegno più meditato che sia mai entrato nello spirito umano: ossia d’usare a favor proprio le forze stesse che l’attaccavano, di fare dei suoi avversari i sui difensori, di inspirar loro altre massime, dare altre istituzioni, che gli fossero favorevoli, quanto il diritto naturale gli era contrario.
In tale intento, dopo aver esposto ai suoi vicini l’orrore d’una condizione che li armava gli uni contro gli altri, che rendeva il loro possesso oneroso al pari dei loro bisogni, in cui nessuno trovava la sua sicurezza né nella povertà né nella ricchezza, egli inventò facilmente ragioni speciose per menarli al suo scopo.
‘Uniamoci,
disse loro, per garantire i deboli dall’oppressione, frenare gli ambiziosi e
assicurare a ciascuno il possesso di ciò che gli appartiene: istituiamo
ordinamenti di giustizia e di pace, cui tutti siano obbligati a conformarsi,
che non faccian distinzione di persona, e che riparino in qualche modo i
capricci della fortuna, sottomettendo ugualmente il potente e il debole ad
obblighi reciproci. In una parola, invece di volger le nostre forze contro noi
stessi, raccogliamole in un potere supremo, che ci governi secondo leggi sagge,
che protegga e difenda tutti i membri dell’associazione, respinga i nemici
comuni, e ci mantenga in eterna concordia’.
Ci volle molto meno dell’equivalente di questo discorso per trascinar uomini rozzi, facili a sedurre, che d’altra parte avevan troppi affari da sbrogliar fra loro per poter fare a meno d’arbitri, e troppa avarizia ed ambizione per poter a lungo fare a meno di padroni. Tutti corsero incontro alle loro catene, credendo assicurarsi la libertà: perché, avendo abbastanza ragione per sentir i vantaggi d’una costituzione politica, non avevan abbastanza esperienza per prevederne i pericoli: i più capaci di presentirne gli abusi eran precisamente quelli che contavan di profittarne; e i saggi stessi videro che bisognava decidersi a sacrificare una parte della loro libertà alla conservazione dell’altra, come un ferito si fa tagliar il braccio per salvare il resto del corpo.
Tale
fu o dovette essere l’origine della società e delle leggi, che diedero nuove
pastoie al debole e nuove forze al ricco, distrussero senza scampo la libertà
naturale, fissarono per sempre la legge della proprietà e della disuguaglianza,
d’una accorta usurpazione fecero un diritto irrevocabile, e, per il vantaggio
di qualche ambizioso, assoggettarono ormai tutto il genere umano al lavoro,
alla servitù e alla miseria.
Si vede facilmente come la fondazione d’una sola società rese indispensabile quella di tutte le altre, e come, per far fronte a forze unite, bisognò unirsi a propria volta.
Le
società, moltiplicandosi o estendendosi rapidamente, coprirono ben presto tutta
la superficie della terra; e non fu più possibile trovare un angolo solo
nell’universo, ove si potesse liberarsi dal giogo e sottrarre la propria testa
alla spada, spesso mal diretta, che ogni uomo si vide perpetuamente sospesa sopra.
Divenuto così il diritto civile regola comune dei cittadini, la legge di natura
non ebbe più luogo che fra le diverse società; dove, sotto il nome di diritto
delle genti, fu temperata da qualche tacita convenzione, per render possibile
il commercio e supplire alla compassione naturale, che, perdendo da società a
società quasi tutta la forza che aveva da uomo a uomo, non abita più che in
qualche grande anima cosmopolitica, che supera le barriere immaginarie che
separano i popoli, e, sull’esempio dell’Essere supremo che l’ha creata,
abbraccia tutto il genere umano nella sua benevolenza.
I corpi politici, restando così fra loro nello stato di natura, risentiron presto i danni, che avevan costretto gli individui ad uscirne; e tale stato divenne ancor più funesto fra questi grandi corpi, che non fosse stato prima fra gli individui di cui eran composti.
Da ciò nacquero le guerre di nazione, le battaglie, le uccisioni, le rappresaglie, che fan fremere la natura e colpiscono la ragione, e tutti gli orribili pregiudizi che pongono nel novero delle virtù l’onore di spargere il sangue umano. Le persone più oneste appresero a contare fra i loro doveri quello di sgozzare i loro simili: si videro in fine gli uomini massacrarsi a migliaia senza saper perché; e si commettevan più uccisioni in una sola giornata di battaglia, e più orrori alla presa d’una sola città, che non si fossero commessi nello stato di natura, durante secoli intieri, su tutta la faccia della terra. Tali sono i primi effetti, che si possono intravvedere, della divisione del genere umano in differenti società.
…Dalla disuguaglianza estrema delle condizioni e delle fortune, dalla diversità delle passioni e degli ingegni, dalle arti inutili, dalle arti perniciose, dalle scienze frivole, uscirebbero in folla pregiudizi contrari ugualmente alla ragione, alla felicità e alla virtù: si vedrebbe fomentato dai capi tutto ciò che possa indebolir uomini riuniti disunendoli, tutto ciò che possa dare alla società un aspetto di concordia apparente e seminarvi un germe di divisione reale: tutto ciò che possa ispirare alle diverse classi una diffidenza e un odio reciproco, per via della opposizione dei loro diritti ed interessi, e fortificare in conseguenza il potere che li tien sotto tutti.
Dal seno di questo disordine e di queste rivoluzioni il dispotismo, levando grado grado la sua testa schifosa, e divorando tutto ciò che avesse scorto di buono e di sano in tutte le parti dello Stato, perverrebbe infine a calpestar le leggi e il popolo, e a stabilirsi sulle rovine della repubblica. I tempi, che precedessero quest’ultimo cambiamento, sarebbero tempi di torbidi e di sciagure, ma alla fine tutto sarebbe inghiottito dal mostro, e i popoli non avrebbero più né capi né leggi, ma solo tiranni. Da questo istante anche non ci sarebbe più questione di costumi e di virtù; ché, ovunque esso regni, il dispotismo, cui ex honesto nulla est spes, non tollera alcun principio superiore; appena egli parli, non c’è più probità o dovere da consultare, e la più cieca obbedienza è la sola virtù che resti agli schiavi.
È qui l’ultimo termine della disuguaglianza, e il punto estremo che chiude il circolo, e tocca il punto da cui siamo partiti: qui tutti gli individui tornano uguali, perché non son più nulla, e non avendo più i sudditi altra legge che la volontà del padrone, né il padrone altra regola che le sue passioni, le nozioni del bene e i principi della giustizia svaniscono di nuovo: qui tutto ti riporta alla sola legge del più forte, e in conseguenza a un nuovo stato di natura, differente da quello di cui abbiam preso le mosse, in quanto quello era lo stato di natura nella sua purezza, e quest’ultimo è il prodotto di un eccesso di corruzione.
C’è così poca differenza, d’altra parte, fra questi due stati, e il contratto di governo è talmente annullato dal dispotismo, che il despota non è padrone se non finché sia il più forte; e appena si possa cacciarlo, non può protestare affatto contro la violenza. La sommossa, che finisce per strangolare o detronizzare un sultano, è un atto giuridico, al par di quelli per cui egli disponeva, alla vigilia, delle vite e dei beni dei sudditi. La sola forza lo manteneva, la sola forza lo rovescia: tutte le cose si svolgono così secondo l’ordine naturale; e, quale che possa essere l’esito di queste corte e frequenti rivoluzioni, nessuno può lamentarsi dell’ingiustizia altrui, ma solo della propria imprudenza o sfortuna.
Scoprendo e seguendo così le vie dimenticate e perdute, che dallo stato naturale han dovuto condur l’uomo allo stato civile; ristabilendo, con le posizioni intermediarie che sono venuto notando, quelle che l’urgenza del tempo mi ha fatto sopprimere, o che l’immaginazione non mi ha suggerito, ogni lettore attento non potrà non esser colpito della distanza immensa, che separa questi due stati.
…In
una parola, egli spiegherà come l’anima e le passioni umane, alterandosi
insensibilmente, cangino per così dire di natura; perché i nostri bisogni e
piaceri cambino a lungo andare di oggetto; perché svanendo l’uomo originario a
gradi, la società non offra più, agli occhi del saggio, che un’accolta di
uomini artificiali e di passioni fittizie, che sono il prodotto di tutte queste
relazioni nuove, e non hanno alcun vero fondamento nella natura.
Ciò che la riflessione ci apprende a questo proposito, l’osservazione lo conferma perfettamente: l’uomo selvaggio e l’uomo incivilito differiscono talmente, nel fondo del cuore e delle inclinazioni, che ciò che forma la felicità suprema dell’uno, ridurrebbe l’altro alla disperazione. Il primo non respira che quiete e libertà; non vuol che vivere e restare ozioso, e l’atarassia stessa dello stoico non s’avvicina alla sua profonda indifferenza per ogni altro oggetto.
Al contrario, il cittadino, sempre attivo, suda, s’agita, si tormenta senza posa per cercare occupazioni ancor più laboriose; fatica fino alla morte, vi corre anzi per mettersi in grado di vivere, o rinuncia alla vita per acquistar l’immortalità; fa la corte ai grandi che odia e ai ricchi che disprezza; nulla risparmia per ottener l’onore di servirli, si vanta con orgoglio della sua bassezza e della loro protezione; e, fiero della sua schiavitù, parla con sdegno di quelli che non han l’onore di dividerla.
…Mi son studiato d’esporre l’origine e i progressi della disuguaglianza, la costituzione e l’abuso delle società politiche, in quanto queste cose possan dedursi dalla natura dell’uomo coi soli lumi della ragione, e indipendentemente dai dogmi sacri, che danno all’autorità sovrana la sanzione del diritto divino.
Segue da tale esposizione che la disuguaglianza, essendo quasi nulla nello stato di natura, trae la sua forza e il suo accrescimento dallo sviluppo delle nostre facoltà e dai progressi dello spirito umano, e diventa infine stabile e legittima per la introduzione della proprietà e delle leggi.
Segue
ancora che la disuguaglianza morale, legittimata solo dal diritto positivo, è
contraria al diritto naturale, ogni volta che non concorra, nella stessa
proporzione, con la disuguaglianza fisica: distinzione, che determina a
sufficienza che cosa mai debba pensarsi a tal riguardo della specie di
disuguaglianza che regna fra tutti i popoli civili, poiché è manifestamente
contro la legge di natura, in qualsiasi modo la si definisca, che un fanciullo
comandi a un vecchio, che un imbecille conduca un uomo saggio, e che un pugno
d’uomini tronfi di superiorità aggredisce la moltitudine affamata privata del
necessario.
(J.J. Rousseau)
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