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L'esilio di Jonathan (10)
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Il volo di Jonathan (12)
Questa è la mia preghiera, questa la mia Chiesa, qualcuno dirà al
divano di un Secondo Dio che il volo desidero, perché l’amore non di Spirito
nutre il suo cammino, ragion per cui traduce e spiega l’intero mondo, non con
la Parola scaturita dal gene occhio della Memoria, ma studia l’anima torturata
nel contesto del desiderio che sazia la sua ‘ora’: l’amore che condisce il
piatto suo all’ombra del dialogo pagato e nutrito da una creatura prigioniera
del suo Dèmone antico, eterna strega della Storia nel materiale e ‘carnale’
desiderio di possedere Dio, ‘confessione antica’ evoluta al divano di un nuovo
peccato così nato. Il dotto medico
quanto la sua creatura nata dalla terrena natura. Il Divino è altro, Dio non
conosce l’ora tua, la inganna all’orologio della tua piccola scienza.
Un angelo sceso, lontano da quella ora,
mi ha narrato una triste vicenda, ed io, per questo, continuo il volo da
lui pregato per il martirio subito, potevo ornare l’altare con la nobile parola
ben miniata al ‘quadro’ che illumina e accende la ‘parabola’ della vita, ed
apparire affranto e amareggiato per l’atroce destino (regalato e donato) pronto
a risolvere il problema cui si potrebbe decidere la mia quanto l’altrui
esistenza, in questo nobile ‘corridoio’ quale museo della vita. Sì, è vero,
disprezzo quel Nobile cui tutti odono e vedono la Parola del potere nel museo
custodita, conto gli araldi della sua promessa, conto i denari della sua mensa,
conto e misuro la recita nel vestito ben cucito e dipinto, troppo lustre per
essere offeso dal negro fuori dalla porta del museo della Storia. Sono contento
in questo mio volo, in questa preghiera umiliata e braccata, che ora un Angelo
sceso mi narra la disavventura nata perché un Eresia ebbi a pregare per ogni
vita. In quanto la vita di ciascuno sacra al confine di una nuova nascita, al
confine di ogni verità antica.
Benvenuta vita cui destini la parola antica vento della mia umile ora.
Sono contento di non appartenere alla schiera dei nobili eletti che officiano
il quadro antico, ed ognuno nella terrena vita scruta e vede alla ‘parabola’
del ‘canone’ cui bisogna nutrire la loro ora. Ognuno crede alla falsa parola, e
l’angelo sceso una mattina mi donò l’ira del vento che vuole giusta degna e
Grande Notizia al confine di ciò che narriamo ‘via’, per la bestemmia vista
affinché dal mare nasca e risorga nuova vita. Quel mare estraneo al loro Dio,
che una mattina rubò la vita di tanti e troppi prigionieri del calvario dell’eterna
via guerra mai smarrita.
Benvenuto tu che bracchi la Rima, quale volo mai smarrito, ora volo più
alto e nobile di prima, beninteso per sempre cacciato da ogni nobile che orna
la ricca tua via, non desidera vedere
puzzo o parola, perché mai di moda al museo della tua ‘cornice’ ben vestita
nutrita e dipinta per ogni stagione della ricca vetrina commercio di vita.
Bracchi e cacci come il cane che fiuta la preda, la Rima non è a te gradita, tu
nobile che orni quella spoglia via, nutrita con lo scempio della vita dei
frutti cattivi alla tua ora. Per sempre
scruterò quella strada smarrita e perduta al confine della fiacca mia vita, nel
mezzo d’un respiro quando il passo sembra indeciso, nel mezzo d’una vegetazione
morta e appassita: alberi scheletri di un’altra vita, qualcuno è già fiorito e
la sua foglia donerà nuova linfa, qualcuno dona giusto respiro forse perché ha
compreso la punizione cui destino il cattivo frutto cresciuto ma non certo
maturo!
L’angelo nel bel mezzo del volo, vento di quella triste mattina, mi
donò parola violenta come l’ala che a fatica riesce a tenere la rotta, alla
Parola da lei evoluta nella tempesta cui destino la vista nell’atroce naufragio
della vita. Il vento, quale elemento, certo è sacrificio per il marinaio, dai
tempi antichi dell’Odissea di ciascuno al porto di codesta vita. E’ certo
sacrificio per ogni Ulisse che cerca la sua difficile via, ma in fine alla sua
terra condurrà il corpo stanco e fiacco, potrà aspirare alla casa ed alla sposa abbandonata ma non certo dimenticata,
per poi vedere il nemico della sua ora fuggire smarrito e rapito dal salone ove
orna il quadro di un altro e sconosciuto Dio.
In quel mare, non certo a causa del mio amico vento, della Parola
voglio ben dire, Angelo sceso in quest’ora, mi narrò la mensa nutrimento di
quei pesci e altri esseri che traggano il pasto di nera carne affogata quella
triste mattina. Pescati son tutti destinati a miglior vita, conditi fanno la
tua cena ben saporita, specie se accompagnata al lieto vino, non quello della cena
di Cristo, non al misero pasto dell’apostolo suo, che se pur pesca e pescava
qualche pesce, una Chiesa ha ben costruito, ha ben edificato anche nella paura
dell’eterna ora, quando lo videro e dissero: ‘ecco Pietro lo abbiamo ben scorto
con il ‘pazzo’, con l’Eretico della parola dal Tempio fuggita’. Sì c’era anche
lui con altri uomini, narrano e rimano vicende che è bene non dire o pregare,
fanno miracoli qui alla ‘parabola’ e la ‘penna’ della vostra ora, non graditi
agli scribi dell’eterna avventura. Perché il versetto fu’ Eretico in quell’ora,
forse per questo un altro Eretico disse che non può certo essere figlio di quel
Dio che l’ha ben inchiodato al Teschio del suo martirio, al Teschio della vita,
ove se scruti bene vedi in fondo all’acquarello anche una selva forse un po’
smagrita, te Gioconda dell’eterna via.
In quel mare sepolti senza neppure poter navigare la vita pasto di
altre Spiriti e mondi, io accolgo con quel poco che ho in mio potere, perché la
mia Parola eternamente braccata dal commercio di una diversa ricchezza, io vi
accolgo con questa umile preghiera: fa’ mio Dio che te prego ad ogni ora, in
questa povera miniatura, che rimanga testimonianza della vostra avventura, del
martirio subito; a me giunga la vostra preghiera affinché a miglior vita possa
io condurre il Destino, possa io contemplare l’occhio vivo di un bambino
allegro che vede il mio cammino, possa io vedere la pace fra il Suo e un altro
Dio, possa io vedere l’eterno sorriso di chi mai ha potuto godere di ugual
ricchezza al destino di questa vita.
Prego e volo in quest’ora, ed il vento, Dio mi è testimone, urla ed
impreca per l’intera notte, un discepolo mi ha tradito, ma non per questo pongo
fine alla preghiera, non per questo smetto il volo, incurante dei custodi del
Tempio, parlo e prego per l’eterno sorriso cui destino ogni creatura di questo
mondo, pur essendo pagato con la peggiore moneta, il popolo insulterà e
braccherà il passo al calvario di questa breve vita. Ragion per cui, il tuo
quanto il mio destino, comuni al porto di quel mare impazzito ed inferocito, ed
il vento urla il disappunto, perché non fu sua la colpa cagione della
disavventura, non fu lui motivo del disastro nel mare onda di un diverso
destino. Ormai questo vento lo conoscono in tanti, non è certo cattivo, almeno
che non diventi bufera o altro, ma non è certo sua la colpa, l’ha ben spiegato
su un divano quando costretto da un altro scienziato perché controllato e
misurato l’impeto, schizzo di un’arte Divina, alla terra così poco gradita.
Svelò le ragioni alla rosa delle sue passioni divenute feroce ‘baccano’
perché in Lui qualcosa di naturale era mutato, e non certo questioni di donne o
gabbiani. In quanto la sua Natura priva dei motivi della materia cui destini
l’intricato e sessuale pensiero, grazie a lui la vita può nascere, è lui che
inventa e semina la Terra, è lui che regala al volo della cicogna gravida ed
evoluta al divano della vita, nutrimento e diletto del suo amore smarrito,
divenuto fallo e pietra di un’amore nella materia scolpito. Lo Spirito è vento,
che se pur costretto al divano dello scienziato, urla e grida le ragioni degli
schizzi che destina alla terrena vita. Anche se uragano o altro evento, parente
con la terrena paura, è sempre voce scaturita dalla colpa di un uomo che muta
l’eterna sua Natura, perché altera il ‘canale’ della vita con un programma a
più alto gradimento, con una ‘parabola’ ben più gradita dove la fine è sempre
certa. Dove la recita è sempre superba e meravigliosa, e gli interpreti sono
così ben vestiti e mascherati o meglio ornati, che pare un vero ed illustre per
quanto eterno museo. Ma tutto quel lavoro, nel museo di quella ‘vista’ ha di
certo da che nutrirsi per ogni pesce che divora, per ogni uccello che spenna
con la nobile certezza scritta dall’urlo del vento, lui che inventa la Parola
che detta la Rima qui scritta: pesce diverrai ad ornare l’invisibile vita,
ancor peggio, ‘radiolare’ dell’umile ‘crosta’ cui sazio la terrena vita, cui
appendo l’arte mia antica, cacciato dal museo della (tua) vista assieme al
negro che rallegra il ritmo di questa Rima, blues all’incrocio di strani
e-venti cui destini l’inferno e il Diavolo da te narrato, nel ‘canone’ recitato
e cantato cui affidi la ‘parabola’ della vita. Nuoterai nel mare profondo ad ornare l’acquario che arreda la sala
antica rivestita solo dal tomo della vita.
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