Precedenti capitoli:
Degli 'Autori' degli acrobatici... (1/15)
Prosegue (presso il rep. nr 5) con l'appendice 1, ovvero... (17)
La politica della ricchezza, ovvero: ESTEROVESTIRE (18)
A prima
vista, le ‘dottrine’ , ed in questo specifico caso intendiamo
quelle politiche nonché economiche adottate, giacché l’odierna Fede
manifesta maggiori gradi e ruoli di evoluzione concretizzati ed idealizzati
nella società di cui riflette il costante incessante ruolo Spirituale negato,
giacché le opposte dottrine tendono a formalizzare quell’insieme di regole ed
invisibili discipline a cui ognuno assoggettato più confacenti ad un grande
formicaio…
…Di modo
che nella sottile sfasatura che ci si propone di mettere in opera nella storia
delle idee e che consiste nel trattare, non tanto rappresentazioni che possono
esserci dietro i discorsi, quanto i discorsi come serie regolari e distinte di
eventi, in questa sottile sfasatura, temo di riconoscere qualcosa come un
piccolo (e forse odioso) macchinario che consente di introdurre alla radice
stessa del pensiero, il caso, il discontinuo e la materialità.
Dalla ragion di stato al liberalismo, si tratterà per Foucault di far emergere come la
questione dei regimi di verità continui ad essere centrale anche in queste
nuove modalità di esercizio della pratica di governo. Anche nel triangolo
disegnato da sovranità, disciplina e gestione di governo agli inizi dell’età
moderna, allorché l’obiettivo fondamentale diventa la popolazione e i
meccanismi essenziali saranno quelli della sicurezza, la razionalità intrinseca
alla nuova arte di governo implicherà una certa ‘produzione di verità’.
Al posto degli arcana
conscientiae
appaiono ora, sostiene Foucault, gli arcana
imperii, relativi a tutto ciò che è necessario conoscere intorno alla
popolazione, alle ricchezze disponibili, alle forze reali e virtuali di cui
dispone uno stato, e che è necessario conoscere per assicurarne il sovrappiù di
forza e potenza nel tempo dei grandi scontri e della concorrenza tra gli stati.
Di qui
l’apparizione della statistica, e
successivamente dell’economia politica, altrettanti dispositivi attraverso cui
viene predisposto il sapere dello stato sullo stato volto ad assicurare la ‘modernità
amministrativa’ e il ‘governo razionale’ degli uomini, delle risorse e infine
della stessa ‘vita’, attraverso la felicità degli individui e la forza dello
stato.
Ne conseguirà una progressiva naturalizzazione della
popolazione, che per un lato darà luogo ad una supposta regolazione spontanea
della meccanica degli interessi, ed in cui il mercato, come dirà Foucault nel
corso del 1978-1979, diventa il luogo e il meccanismo di formazione della verità,
il ‘luogo di veridizione’ della pratica di governo, e l’economia politica il
regime di verità necessario destinato a garantire non ‘il minor governo’, bensì
‘un governo frugale’, ovvero un altro tipo di razionalità, su cui si eserciterà
la riflessione liberale, per la quale la libertà è diventata, secondo Foucault,
un elemento indispensabile allo stesso esercizio del governo.
Ma per l’altro assisteremo invece allo sviluppo parossistico
dei meccanismi di presa in carico e gestione della popolazione nella sua
supposta naturalità.
Di qui lo sviluppo di tutte quelle scienze – dalla medicina sociale alla demografia all’eugenismo – destinate a fornire gli strumenti e gli schemi d’intelligibilità razionale dei nuovi insiemi diventati oggetto dell’arte di governo sviluppatasi a partire dalla fine del Settecento (ciò permette a Foucault di sostenere che quello che consentiranno di fare le nuove forme di razionalità, ad esempio durante il regime nazista, non costituisce affatto un’anomalia o una mostruosità rispetto ad una supposta ‘scienza normale’).
Con il
liberalismo, sostiene Foucault, non è la libertà come ‘universale’ ad ottenere
finalmente diritto di cittadinanza nella pratica di governo – la libertà non è
un ‘dato’ – bensì è una nuova ‘gestione’ delle libertà ad essere messa in atto
all’interno di una ragion governativa che ha strutturalmente ‘bisogno di
libertà’, che è ‘consumatrice di libertà’.
Il
liberalismo, insomma, emerge come arte di governo (pratica riflessa) che si
propone di suscitare e fabbricare instancabilmente della libertà. Come tale, l’arte
liberale di governare deve innanzitutto fare i conti col problema essenziale
della sicurezza, delle strategie che consentiranno di aggirare o eliminare il ‘pericolo’,
i ‘pericoli’ immanenti alla dinamica delle relazioni tra interessi individuali
e interessi collettivi.
Che sia
nelle forme della razionalità scientifica resa necessaria dalle pratiche di
governo (con gli effetti di oggettivazione da essa prodotte, e che Foucault
aveva cominciato a descrivere fin da Folie et déraison) o che sia nella forma
della conoscenza di sé a partire dalle esigenze di controllo delle anime e
delle condotte in vista della salvezza (con gli effetti di soggettivazione che
ne verranno), in ogni caso l’intera storia della ‘governatività’ occidentale
poggia sulla lunga successione di diversi regimi di verità, altrettante modulazione
della ‘volontà di verità’ che da subito Foucault aveva individuato al cuore dell’esperienza
dell’uomo occidentale.
Attraverso
l’analisi di pratiche come l’exomologesi (l’atto di fede) e l’exagouresis
Foucault approfondisce l’indagine, già avviata nel 1978, relativa al modo in
cui attraverso la conferma della propria credenza si manifesta una verità e si
afferma la propria adesione ad essa, vale a dire il soggetto crede alle verità
che gli sono rivelate ed insegnate, ed insieme si impegna in una serie di
obblighi (relativi al maestro, alla comunità di appartenenza, ecc.); e del modo
in cui attraverso l’obbligo di confessione che si impone tra direttore di
coscienza e discepolo all’interno delle prime istituzioni monastiche si disegna
una nuova figura del rapporto di dipendenza nella direzione spirituale.
Essa comporta infatti l’obbligo di esaminare permanentemente la propria coscienza, quello di enunciare nel modo più esaustivo e permanente possibile i moti più segreti del pensiero e dell’anima, al fine di potervi decifrare l’opera del maligno (oppure del dissidente) e in vista della creazione – sotto le specie dell’umiltà, della mortificazione e dell’obbedienza come finalità immanenti – di un certo tipo di relazione di sé con se stessi ispirata per l’essenziale al modello della rinuncia a sé, della ‘distruzione della forma del sé’, condurrà inevitabilmente al ‘controllo della Coscienza’, delle coscienze, pratica ampiamente in uso nell’odierna civiltà informatizzata…
Per essere
franchi, abbiamo qui inteso sostenere, ancora una volta, la natura eminentemente
politica del lavoro di Foucault. In molti hanno infatti ritenuto di poter affermare
che il Foucault finale, quello della lunga plongée nel mondo antico e tardo antico,
quello della sedicente riscoperta dell’etica, della cura di sé, della
spiritualità, fosse un Foucault che aveva abbandonato, addirittura rigettato,
il problema della politica, andando alla ricerca di ‘una soluzione di ricambio’.
La questione
politica, insomma, ‘è la verità stessa’, come aveva detto già nel 1976.
Ecco allora
quel che afferma otto anni dopo:
‘Dopotutto,
perché la verità? Perché, più ancora che di noi stessi, ci curiamo della
verità? E in ogni caso, perché ci curiamo di noi stessi solo avendo cura della
verità? Abbiamo qui a che fare con una questione fondamentale, che è forse la
questione stessa dell’occidente: che cosa ha fatto sì che tutta quanta la
cultura occidentale abbia cominciato a gravitare attorno ad un obbligo di
verità che ha poi assunto una serie di forme assai differenti le une dalle
altre? Nulla, fino ad ora, ha mostrato che sarebbe possibile definire una
strategia del tutto diversa. È allora solo nel campo definito da tale obbligo
di verità che ci potremo spostare, in qualche caso muovendo contro gli effetti
di dominio che possono essere legati a strutture di verità o a istituzioni che
si fan carico della verità.
E lo stesso avviene nel caso della politica, in
cui è possibile procedere alla critica del politico – a partire, ad esempio,
dalle conseguenze dello stato di dominio che tale politica induce – senza che
sia possibile farlo in altro modo se non giocando un certo gioco di verità,
mostrando che cosa ne consegua o mostrando che vi sono altre possibilità
razionali, o insegnando agli individui quel
che essi non sanno sulla loro propria situazione’.
Quel che Foucault non ha mai fatto, è ricavare da tali ‘insegnamenti’ le istruzioni e le linee di condotta da adottare, il codice da approvare, la ‘legge’ da applicare, rifuggendo con rigore e determinazione da qualunque tentazione normativa, a differenza dei tanti che non cessano di dirci ciò che sarebbe necessario fare o quello che dovremmo essere.
Tutt’al piú due raccomandazioni:
primo,
rifiutare quello che siamo, ovvero ‘quel tipo di individualità che ci è stato
imposto per così tanti secoli’.
Fino alla
fine, dunque, i rapporti tra la filosofia e la politica hanno continuato ad
essere per Foucault decisivi, inaggirabili, fondamentali.
Dire la verità
al potere, la sola forma di coraggio che alla fine riconoscesse insieme agli
atti di cui si è capaci di assumersi direttamente la responsabilità,
significava infatti anche, per lui, chiedere al potere di dire la verità, a
senza prescriverla:
‘Niente è più
inconsistente di un regime politico indifferente nei confronti della verità; ma
niente è più pericoloso di un sistema politico che pretenda di prescriverla.
Il compito del dir vero è un lavoro infinito: rispettarlo nella sua complessità è un obbligo da cui nessun potere
potrebbe esimersi. Salvo imporre il silenzio della servitù’.
Che il
lavoro sia infinito, e che nessuna liberazione sia promessa come definitiva,
non deve indurci ad abdicare rispetto al nostro compito. E del resto talvolta
accade che, a partire da un soprassalto di coraggio e dignità degli uomini, o
anche dei popoli, la verità faccia irruzione, ma come evento, appunto, e senza
garanzie.
Nessun commento:
Posta un commento