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BREVE PREMESSA:
Con
le sue truppe persiane, Alessandro il
Grande aveva marciato nel IV secolo
a.C. da Babilonia fino in India, e fu grazie all’invasione macedone che i
matematici indiani vennero a conoscenza del sistema di numerazione sumerico… e
dello zero. Alla morte del condottiero, nel
323 a.C., le contese tra i suoi generali ne spezzettarono l’impero; Roma
affermò la propria egemonia a partire dal
II secolo a.C. e inghiottì la Grecia, ma la sua potenza non arrivò fino in
India.
Come
conseguenza, quella terra lontana non venne interessata né all’ascesa del
cristianesimo né dalla caduta dell’Impero romano nei secoli IV e V d.C.
L’India non fu parimenti esposta all’influenza aristotelica. Nonostante
che Alessandro fosse stato allievo
dello Stagirita e che certamente ne introducesse le idee in quel paese, pure la
filosofia ellenica non vi attecchì: a differenza della Grecia, l’India non vide
mai con timore l’infinito e il vuoto, e, anzi, ne fece propri i concetti.
Il
vuoto occupava un posto importante nella religione Indù. L’Induismo era da
principio un credo politeistico fondato su un ciclo leggendario di battaglie e
divinità guerriere, simile per molti aspetti, alla mitologia ellenica, e i cui
dèi nel corso del tempo – e secoli prima dell’arrivo dei Macedoni – avevano
iniziato a sfumare l’uno nell’altro. Benché i riti tradizionali e il culto del
pantheon originale venissero conservati, esso acquisì la sostanza di religione monoteistica
e introspettiva, e i molteplici numi divennero manifestazioni di un
onnicomprensivo unico dio, Brhama.
Più o meno nel periodo dell’affermarsi a ovest della civiltà ellenica, l’induismo perdeva i caratteri di similitudine con imiti occidentali, le distinzioni tra le singole divinità si facevano incerte, mentre le connotazioni mistiche si accentuavano sempre più.
Il misticismo era un manifesto prodotto dall’Oriente.
Così come
altre religioni orientali, l’induismo era impregnato del simbolismo della
dualità. Alla stregua dei principi yin-yang dell’Estremo Oriente e, in Medio Oriente,
del dualismo etico del Bene e del Male di Zoroastro, nella religione Indù
creazione e distruzione si intrecciano; il dio Shivaè un agente a un tempo
dell’una e dell’altra, tanto che viene rappresentato con un tamburo della
creazione in una mano e la fiamma della distruzione in un’altra.
Shiva
rappresentava, comunque, anche il nulla, essendo uno dei volti della divinità,
Nishkala Shiva, letteralmente Shiva ‘indivisibile’ e ‘trascendente la forma’;
egli era l’estremo vuoto, il supremo niente, l’incarnazione dell’assenza di
vita. Però dal vuoto era scaturito l’Universo, e così parimenti l’Infinito.
A
differenza dell’Universo come concepito in Occidente, il cosmo Indù è
sconfinato, con innumerevoli altri universi esistenti oltre i limiti di quello
noto agli umani. Al tempo stesso, però, questo cosmo, mantenne sempre
qualchecosa dell’originale vacuità; dal niente il mondo era venuto, e il rinnovato
conseguimento del niente diveniva il fine ultimo dell’umanità.
Si narra come la Morte racconti dell’anima a un discepolo: “Nel profondo del cuore di ogni creatura è l’Atman, lo Spirito, il Sé. Più piccolo del più piccolo atomo, più grande dello spazio immenso”.
Codesta
entità, che abita in ogni cosa, è parte dell’essenza universale ed è immortale;
quando una persona muore, l’atman ne abbandona il corpo accedendo ben presto a
un’altra creatura, cosicché l’anima trasmigra e determina la reincarnazione del
defunto.
Meta degli
Indù è svincolare completamente l’atman dal ciclo della rinascita, arrestandone
il samsara da un decesso al
successivo, e la via per ottenere la definitiva emancipazione attraverso la
negazione dell’esistenza consiste nel distacco dall’illusoria realtà materiale.
‘Il corpo,
casa dello spirito, è in balia del piacere e del dolore’, spiega un dio ‘e se
uno è governato dal proprio corpo, costui non potrà mai essere libero’. Ma nel
momento in cui pervenga a separare sé stessi dalle velleità della carne e a
volgersi al silenzio e al non-essere
della propria anima, allora il moksha, la liberazione, sarà raggiunto;
librandosi sopra le panie dei desideri umani, l’atman individuale potrà unirsi
alla coscienza collettiva o brahman, anima cosmica onnipervasiva e realtà
presente ovunque e in nessun luogo al medesimo tempo.
Ecco,
dunque, l’infinità ed ecco il nulla.
La cultura indiana era già dedita all’investigazione attiva del vuoto e dell’infinito, e…. come tale accettò lo zero.
(C. Seife, Zero)
In una celebre lettera di Cantor indirizzata a Hilbert, afferma che…:
‘con un insieme compiuto si intende ogni
molteplicità della quale tutti gli elementi sono insieme senza contraddizione e
quindi può essere pensata come una cosa in sé stessa’.
Ritroviamo
qui tutti gli elementi presenti nelle definizioni precedenti: di fatto la
nozione di insieme è sempre la stessa. Da notare è il riapparire in modo
esplicito della nozione di contraddizione, che dopo la definizione del 1882 non era più stata menzionata
esplicitamente nelle definizioni del
1883 e del 1895.
Questo non
è casuale: infatti, la nozione nuova qui introdotta, la ‘consistenza’ di un
insieme, è completamente calibrata sulla ‘non-contraddittorietà’. Gli insiemi
consistenti sono quelli costituiti da una molteplicità di elementi che possono
essere pensati insieme senza alcuna contraddizione; mentre gli insiemi
inconsistenti sono costituiti da elementi che non possono essere pensati
insieme perché contraddittori fra loro.
Questi
concetti vengono compiutamente esposti per la prima volta in una famosa lettera
indirizzata a Dedekind del 3 agosto 1899:
‘Una molteplicità può essere determinata in modo
tale che l’accettazione di un “essere-insieme” di tutti i suoi elementi conduce
a una contraddizione, così che è impossibile comprendere la molteplicità come
una unità, come una cosa compiuta. Queste molteplicità le chiamo assolutamente
infinite o molteplicità inconsistenti. Come ci si può convincere facilmente,
per esempio la “collezione di tutto il pensabile” è una tale molteplicità […].
Quando al contrario la totalità degli elementi di una molteplicità può essere
pensata come “essente-insieme” senza contraddizione, così che è possibile
metterli assieme in una cosa sola, la chiamo una molteplicità consistente o un
“insieme” ’.
Il principio di comprensione nella sua forma standard, cioè ingenua, non vale dunque per la teoria di Cantor, la quale contempla fin da subito la possibilità che vi siano proprietà a cui, pena la ‘contraddizione’, non corrisponde alcun insieme.
Il passo
della lettera a Dedekind sopra citato
conferma quanto prima evidenziato rispetto alla stretta connessione tra gli
insiemi e la ‘non-contraddizione’. Un insieme può dirsi consistente se non dà
luogo ad alcuna contraddizione. Tuttavia, a una riflessione più approfondita,
la cosa potrebbe non apparire molto chiara: del resto, nella lettera di
risposta a Cantor, lo stesso Dedekind lamentava una mancanza di
chiarezza proprio su tale distinzione.
Da quello
fin qui detto, risulta chiaro che la ‘non-contraddittorietà’ è un elemento
necessario affinché un insieme sia consistente, ovvero possa essere trattato
come una cosa singola, un qualcosa di individuale.
Ma cos’è
che mette assieme gli elementi di un insieme?
Il loro
stare insieme da dove deriva?
Cosa rende
possibile che una molteplicità divenga una unità?
Cantor non spiega mai esplicitamente in che cosa questa
unità consista: insomma il punto filosofico centrale nella nozione di insieme
rimane celato. Il fatto che Cantor
non si pronunci su tale questione non significa che non si possano trovare
indizi che vadano in una direzione piuttosto che in un’altra.
Uno di
questi indizi è il costante riferimento al Pensiero
ogniqualvolta egli debba definire che cosa è un insieme.
Che la
consistenza sia data dalla possibilità di pensare insieme gli elementi sembra
spingerci nella direzione di considerare il Pensiero
come ciò che dà unità a una varietà sparpagliata di elementi.
L’unità di
un insieme sarebbe data dal pensiero che pensa quell’insieme.
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