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e in questo 28 Gennaio
Prosegue con Hernandez
alla prova del "9" (5/7)
Hernandez nacque fra
il 1515 e il 1520, dei suoi inizi sappiamo poco, doveva esser uomo di
meriti se arrivò ad essere medico del Re. Prima di diventarlo tradusse in
spagnolo la ‘Storia naturale di Plinio’,
corredandola di note e osservazioni erudite. Plinio influenzò profondamente gli erboristi rinascimentali,
soprattutto i tedeschi, che furono i primi ad occuparsi della materia. Otto Brunfels, un certosino convertitosi
al laturanesimo, pubblicò nel 1532 un
erbario illustrato da Hans Weidltz, il quale era il medesimo che aveva ritratto
Hernan Cortes e i suoi indiani nel 1526.
Le illustrazioni dell’erbario risultarono così migliori del testo, tanto che questi erbari così ben illustrati, raggiunsero la Spagna e influenzarono Francisco Hernandez, che, come egli stesso scrive,
‘Venne preso dall’irrefrenabile desiderio di
visitare il Nuovo Mondo per osservare le mirabili cose in esso contenute’.
Finalmente, il Re diede il consenso, dettò le sue ‘Istruzioni’, e accettò di finanziare di tasca propria l’intera spedizione. Filippo II si trovava allora invischiato in una quantità di guerre, le quali gli avevano fatto accumulare, o avevano fatto accumulare allo stato, soprattutto verso l’estero, l’enorme debito di 37 milioni di ducati. Ma sebbene la Spagna fosse sull’orlo della banca rotta, egli trovò il tempo di assicurare il suo patronato al viaggio di Hernandez, ad esso egli si interessò personalmente durante i cinque anni degli studi, come è provato dal carteggio fra lui e Hernandez rinvenuto negli Archivos de Indias di Siviglia.
Hernandez, che aveva ormai passato i cinquant’anni, si trovò a dover affrontare i disagi del clima e dell’altitudine; disagi dei quali non sapremmo nulla, se egli non avesse scritto diciotto e più lettere al Re, alcune delle quali pubblicate nel 1842.
Acquistati
cavalli e muli, ancora rari e costosi in Messico, e trovati e selezionati dagli
assistenti che scovassero a loro volta artisti indigeni capaci di illustrare le
raccolte, Hernadez riuscì ad
individuare, in due anni, 800 nuove piante, che
fece illustrare tutte a colori. Dovendone indicare il luogo di provenienza, si
procurò i servigi del topografo e geografo Francisco
Dominguez.
Gli artisti indigeni, comunque, erano buoni osservatori, abili a cogliere la pianta nelle sue caratteristiche generali ed a notarne ogni particolare. Uno di questi era Martin de la Cruz, che, attingendo le proprie conoscenze delle erbe medicinali dai ‘vecchi delle tribù’ che ne serbavano il ricordo non meno della conoscenza, aveva composto un erbario azteco col titolo ‘The Aztec Herbal of 1552’, e edito da William Gates nel 1939.
Hernandez, inoltre, ebbe cura di registrare, sulla base di
informazioni ottenute dagli interpreti aztechi, le proprietà medicinali delle
singole piante. Ai nostro occhi, il valore del tesoro da lui raccolto sta
nell’aver messo a profitto le conoscenze dei collaboratori indigeni, e raccogliendone
le informazioni non si astenne al grande riconoscimento che da loro dipendeva e
che gli attribuì a pieno titolo. Hernandez
riempì 16 volumi in folio, e nel 1576, sesto anno della spedizione, egli si ritirò
definitivamente a Città del Messico allo scopo di attendere alla stesura finale
dell’opera in vista della progettata pubblicazione.
Questa, purtroppo, incontrò numerosi insormontabili ostacoli. Prima l’ostilità di altri medici spagnoli delle province, poi il mancato sostegno finanziario da parte di Filippo II, e dopo cinque anni, non prima di aver completato l’opera in sedici volumi con l’aiuto del figlio, ripartì per la Spagna. Ma giunto a Madrid, Hernandez ebbe una nuova e più tremenda delusione, la grande opera, qual tesoro di etnobotanica, di geografia e di informazioni mediche, non andava pubblicata, bensì solamente inviata alla biblioteca dell’Escorial!
Hernandez
vedeva così sepolti i suoi preziosissimi manoscritti!
Egli si era
proposto ed era riuscito a terminare ciò che i suoi predecessori non avevano
saputo maturare, ossia di dare un panorama naturalistico del Nuovo Mondo; e
seppur l’aveva dato, ora gli si negava la pubblicazione della grande immensa
opera. Hernandez non resse a questa
sofferenza attribuibile all’altrui ingorda ignoranza data dalla ‘summa’
dell’invidia sancita dai limitati naturalisti di corte i cui scribi o scrivani,
senza alcuna vera conoscenza ottenuta sul ‘campo’, ne limitarono la
pubblicazione offuscandone la conoscenza con il pretesto di fornire la propria.
E
con la salute minata dalle fatiche delle esplorazioni morì ad un anno dal
rimpatrio.
Qualche anno più tardi, quasi per una beffa del destino, la sua opera tornava a destare l’attenzione di Filippo II, il quale prese la decisione di pubblicarla, sia pure in forma compendiata: egli ne affidò l’incarico a Nardo Antonio Recchi, cui ordinò di ‘scegliere le parti più utili del manoscritto’. Recchi intese, per ‘più utili e importanti’, le parti contenenti informazioni mediche. E dopo aver compendiato l’opera di Hernandez e averla preparata per la stampa, Recchi morì.
L’intera opera passò al nipote, il quale la propose all’attenzione di un grande mecenate delle lettere, il principe Federico Cesi, duca d’Acquasparta, patrono della scienza e fondatore dell’Accademia dei Lincei. Acquistata l’opera a caro prezzo, il principe affidò ad alcuni artisti l’incarico di setacciare gli archivi alla ricerca di altre illustrazioni relative al manoscritto di Hernandez, ed il principe scrisse un epilogo in forma di saggio, Theatri Naturalis Phytosophicae Tabulae, e fu pronta alla stampa nel 1628.
E il
principe avrebbe senza dubbio sostenuto il costo della pubblicazione, se ancora
una volta, il male e la morte non fossero intervenuti ad impedirla. Così l’Accademia dei Lincei si trovò sì il ‘sacro legato’ della pubblicazione
dell’opera di Hernandez, ma non i
soldi per realizzarla. Finalmente, un socio esterno dell’Accademia, Francesco
Stelluti, riuscì ad ottenere il denaro necessario dall’ambasciatore
spagnolo don Alfonso Turiano, e nel 1649, ciò che rimaneva del grande
tesoro di Hernandez, con la preziosa
collaborazione dei suoi indigeni, primi naturalisti delle Americhe, veniva
finalmente stampata a Roma in un volume di 950 pagine, Thesaurus theatri naturalis.
In esso tra infiniti altri figuravano il disegno e la descrizione hernandeziani del quetzal, che appariva col suo nome azteco di quetzaltoloct, ma l’illustrazione risultò tanto scadente, che da lì a non molti anni, un autorevole studioso vi si sarebbe riferito come quella di un uccello ritenuto favoloso.
Il
questzal,
insomma, usciva dalla scena delle scienze europee subito dopo esservi entrato!
(V.V. Hagen)
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