CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
30 MAGGIO 1924

mercoledì 3 aprile 2024

IL MIO CESARE (fuori porta)

 









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Mary Hunter Austin







In quel primo giorno all’accampamento, mentre mi preparavo a fare conoscenza con il branco, Jim mi disse che probabilmente tutti i lupi sarebbero corsi ad accogliermi, tranne Lakota. Da lui era inutile aspettarsi un benvenuto; raramente salutava qualcuno.

 

Kamots fu il primo a staccarsi dal gruppo, ringhiando affinché nessuno osasse avvicinarsi a me prima che lui avesse fatto la sua ispezione iniziale. Una volta che mi ebbe esaminata a suo piacimento, Matsi, Amani e Motomo si fecero avanti. Tutto finì all’improvviso così come era cominciato. Malgrado l’avvertimento di Jim, mi aspettavo ugualmente che il quinto lupo venisse a salutarmi, ma Lakota non si fece neanche vedere.

 

Jim mi spiegò che Lakota era stato costretto dagli altri ad assumere il ruolo di omega dopo la morte di Motaki, che originariamente deteneva quella posizione. La morte dell’omega aveva sconvolto l’ordine sociale rendendo necessaria una riclassificazione del rango dei singoli membri. Ciò avvenne attraverso una serie di lotte per la dominanza che assegnarono una volta per tutte il ruolo più basso a Lakota. Quest’ultimo stava appena iniziando ad accettare la sua sorte di capro espiatorio, di catalizzatore dell’aggressività del branco. Era una condizione tutt’altro che invidiabile, che avrebbe sopportato per quattro anni e mezzo.




Jim mi disse che la riluttanza di Lakota a incontrarmi non era dovuta semplicemente alla sua timidezza nei confronti degli estranei – un tratto della sua personalità che aveva contribuito alla sua designazione come omega – ma anche alla consapevolezza che l’arrivo di una faccia nuova avrebbe eccitato gli altri lupi. Era meglio che lui si tenesse in disparte finché la situazione non si fosse calmata.

 

La gerarchia sociale di un branco è ciò che assicura l’ordine, stabilisce chi prende le decisioni, determina gli accoppiamenti, definisce chi mangia per primo e chi per ultimo. Questo ordine viene costantemente rafforzato da manifestazioni di dominanza e di sottomissione. Purtroppo tocca all’omega reggere l’urto di questo comportamento. Gli altri lupi affermano i loro diritti prendendosela con lui, che è costretto a rovesciarsi sul dorso mugolando in segno di sottomissione. Di solito si tratta di uno scambio incruento, ma a volte, specie nella stagione degli amori, può diventare violento e molto sgradevole da osservare.





Nei branchi più complessi ci sono un maschio e una femmina alfa e spesso un maschio e una femmina omega. Nella gerarchia dei lupi il maschio tende a dominare gli altri maschi e la femmina le altre femmine, per cui esiste di solito un membro inferiore in entrambi i sessi. La coppia alfa non permette mai al maschio e alla femmina omega di accoppiarsi, quindi gli omega non sono legati tra loro come gli alfa. Quando mi unii al progetto, il branco di Sawtooth era piccolo, e consisteva soltanto di cinque maschi. Quindi Lakota era l’unico a occupare la posizione di omega.


Il mattino seguente Lakota continuava a non farsi vivo e Jim cominciò a preoccuparsi. La primavera scorsa aveva visto orme di puma nell’accampamento. Ci mettemmo a cercare tra i fitti arbusti e i pini abbattuti, coperti da una spolverata di neve.




 

A un certo punto mi voltai e vidi con sorpresa che il branco mi stava seguendo a breve distanza. Era il secondo giorno che trascorrevo nell’accampamento, e non ero ancora abituata alla comparsa improvvisa dei grossi predatori. Kamots guidava il gruppo e Matsi, Motomo e Amani seguivano in fila indiana, senza fare il minimo rumore, comportandosi come perfetti scolari in gita scolastica. Quando ci fermavamo per guardarci intorno, si bloccavano e attendevano pazientemente che riprendessimo a camminare. Ero ammirata dalla loro andatura silenziosa e aggraziata. I nostri movimenti erano inetti e decisamente maldestri rispetto al loro passo ovattato e ben calibrato. Mi chiedevo come diavolo avremmo fatto a individuare Lakota in uno spazio così ampio, se lui non voleva farsi trovare.

 

Continuammo a perlustrare il recinto per più di un’ora senza vedere traccia del povero Lakota. Quando Jim e io tornammo al punto di partenza, il gruppetto di inseguitori si era ormai stufato dei nostri vagabondaggi. Kamots si guardò intorno con l’espressione di chi ritiene di avere qualcosa di meglio da fare e se ne andò a caccia di passeri fedelmente imitato da Matsi, Amani e Motomo.

 

Appena si furono dileguati, udimmo un fruscio tra i cespugli e saltò fuori Lakota. Ci aveva pedinato per tutto quel tempo, come se non volesse perdersi la nostra passeggiata ma preferisse rimanere invisibile per evitare che gli altri membri del branco si accanissero contro di lui. Un lupo è in grado di dileguarsi nell’ambiente che lo circonda quasi per magia – ora c’è e un attimo dopo è sparito – muovendosi senza produrre il minimo rumore. Quell’animale grigio scuro, del peso di una sessantina di chili, si era mosso silenziosamente a qualche passo di distanza da noi tra i rami rosso fuoco delle sanguinelle e le candide distese di neve fresca, senza che noi sospettassimo la sua presenza.




Una delle prime cose che notai in lui fu la postura. Si avvicinò a me con passo incerto, tenendo la coda bassa, le spalle curve, il capo chino. Solo quando mi ebbe raggiunto mi resi conto che era un animale enorme, più grosso degli altri tre lupi di rango intermedio e forse persino di suo fratello Kamots, l’alfa, anche se era difficile accorgersene dato il suo atteggiamento dimesso. Le zampe erano decisamente più grandi. Evidentemente, la posizione sociale in un branco di lupi non era semplicemente dettata dalla mole o dalla forza.

 

Lakota si accostò a me e mi leccò timidamente la faccia. Gli accarezzai il dorso coperto dal nuovo manto invernale. Era pieno di bernoccoli e di croste nei punti in cui gli altri lupi lo avevano azzannato, e di piccole cicatrici sul muso dove il pelo non sarebbe ricresciuto. Per affermare la sua autorità spesso un lupo dominante afferra il muso del suo subordinato come farebbe una madre per imporre la disciplina ai suoi cuccioli. Il muso di Lakota portava i segni di quegli incontri. Mentre ero seduta accanto a lui, cominciò a rilassarsi, convincendosi a poco a poco che non avevo intenzione di fargli del male. Sollevò la zampa, la posò delicatamente sulla mia spalla guardandomi con i suoi dolci, saggi occhi ambrati, e rimanemmo fermi in questa posizione per un po’. In quel momento mi conquistò, e da allora ha sempre occupato un posto speciale nel mio cuore.




Nel corso degli anni Lakota e io mantenemmo questo legame particolare. A volte sfuggivo intenzionalmente il resto del branco per coltivare questa amicizia clandestina con il bistrattato omega. Quando gli altri lupi erano nelle vicinanze celavamo accuratamente il nostro interesse reciproco; temevamo entrambi che ciò potesse attirare l’attenzione su di lui, esponendolo al rischio che uno dei lupi di rango intermedio lo punisse per questo. Ma a volte lo raggiungevo quando stava per conto suo e ci sedevamo l’uno accanto all’altro, la sua zampa sulla mia spalla, come nel nostro primo incontro.

 

Per quanto possa apparire strano, divenne uno splendido omega. In un certo senso, l’omega è come un giullare di corte. Deve sopportare terribili soprusi da parte del re e dei cortigiani, ma non c’è alcun dubbio che sia amato. Come un giullare, spesso l’omega è colui che incita al gioco e fa il pagliaccio.




In un periodo in cui il branco era tranquillo e rilassato, vidi Lakota avvicinarsi a suo fratello Kamots e accucciarsi di colpo in posizione di gioco con la testa bassa, le zampe anteriori divaricate e la coda e il sedere alzati. Kamots entrò in azione ringhiando e mordendo per scherzo. Subito cominciarono a rincorrersi per il prato, con Lakota a pochi centimetri dalla mascella di Kamots. Tutto il linguaggio corporeo dell’omega esprimeva la sua consapevolezza che quell’inseguimento non era una pericolosa manifestazione di dominanza. Zigzagava tra l’erba con la bocca spalancata e le labbra tese in una sorta di sorriso, fingendo di farsi raggiungere e poi scattando in avanti. Alla fine Lakota fu preso, o si fece prendere. Si rovesciò sul dorso in segno di resa, tributando a Kamots gli onori della vittoria. Il fratello si piazzò a cavalcioni su di lui, simulando un’aggressione con ringhi e morsi. Lakota leccò delicatamente il muso del vincitore, il che nel linguaggio dei lupi equivale a dire “Mi arrendo”, e il gioco terminò.

 

In un’altra occasione, vidi di nuovo Kamots e Lakota rincorrersi per gioco nel prato. I due fratelli erano esteriormente molto simili – tutti e due grossi con il tipico mantello nero e grigio – quindi mi ci volle un po’ per accorgermi, con sorpresa, che stavolta era Lakota a inseguire Kamots. Non riuscivo a credere che potesse essersi verificata questa inversione di ruoli. In quell’incredibile variante del loro consueto gioco, Kamots si adattava a fare la vittima!




Approfondendo la conoscenza di questi lupi, mi resi conto che ciò accadeva regolarmente, e l’unica spiegazione scientifica è che talvolta può essere divertente farsi inseguire. Per me è la prova che la vita interiore dei lupi è molto più ricca di quanto possiamo immaginare. Nelle relazioni umane, il fratello più grande e più robusto può farsi trascinare in una lotta scherzosa da quello più giovane, fingendo di farsi battere e permettendogli di cantare vittoria. Entrambi sanno chi è il più forte, ma è divertente scambiarsi i ruoli. Molti scienziati sobbalzerebbero all’idea di attribuire delle emozioni a un animale, ma io non sono uno scienziato, dunque me lo posso permettere. L’unica interpretazione che posso dare a scene come queste è che Kamots e Lakota fossero sinceramente affezionati l’uno all’altro.

 

Qualche anno dopo, mentre io e Jim effettuavamo una ricognizione in cerca di lupi lungo il fiume Yukon con un piccolo aeroplano, vidi un branco che giocava a rincorrersi nella neve alta. Da quella distanza potevo solo immaginare la loro espressione di gioia mentre a turno si inseguivano prendendosi per la coda. Sapevo che uno dei lupi lì sotto era l’omega, che incitava gli altri a prenderlo e teneva vivo il gioco.




Purtroppo a volte l’atteggiamento scherzoso di Lakota si ritorceva contro di lui. Attirando l’attenzione su di sé poteva dar luogo a una vera e propria aggressione. Di colpo, mentre correva, si rendeva conto che quella volta l’inseguimento non era un gioco, ed era uno spettacolo straziante vedere la speranza che lo abbandonava, la paura che balenava nei suoi occhi, la sua postura che cambiava. Subito si rovesciava sul dorso e manifestava mugolando la sua sottomissione, mentre i lupi di rango intermedio si accanivano su di lui. La cosa incredibile è che tutte le volte tornava a invitare il branco al gioco, con immancabile coraggio e immancabile ottimismo.

 

I raduni di gruppo erano un altro momento rischioso per Lakota. Spesso il branco si riuniva per ululare, come per ribadire la propria unità. Il vero motivo di questo rituale è ignoto. A volte sembrava che Kamots si mettesse a ululare di proposito, come se volesse riunire il branco per rammentare a tutti la sua supremazia. Altre volte il fenomeno appariva più casuale: uno dei lupi prorompeva in un ululato spontaneo che si propagava in modo incontrollato.




Quando un lupo iniziava a ululare, gli altri si riunivano velocemente intorno a Kamots. Man mano che il coro cresceva di intensità, spesso i lupi affermavano la loro dominanza lottando, ringhiando e inchiodandosi a terra a vicenda. Erano momenti pericolosi per l’omega. Per quanto i lupi di rango intermedio, Amani e Motomo, potessero litigare fra loro, la loro aggressività finiva sempre per scaricarsi in gran parte su Lakota. Ciononostante il più delle volte lui era lì, a unire la sua voce al coro.

 

Quando iniziai a incidere quella che in seguito sarebbe diventata la colonna sonora di Wolves at Our Door, mi sforzai di registrare la singola voce di ciascun lupo il più nitidamente possibile. Cercavo di approfittare delle occasioni in cui uno degli animali ululava più o meno da solo, invece che in mezzo al gruppo. Con Lakota la cosa era più facile perché spesso si teneva ai margini, tentando di conservare un basso profilo mentre ululava. Con il microfono applicato a un’asta lunga due metri e mezzo, strisciavo lentamente e silenziosamente verso di lui, facendo attenzione a non disturbarlo.




La prima volta che registrai il suo ululato, rimasi sconvolta dal suono che percepii attraverso le cuffie. Con gli occhi chiusi e la testa gettata all’indietro, Lakota dava libero sfogo ai suoi sentimenti. La sua voce armoniosa e dolente si librò nel crepuscolo indugiando nell’aria per un tempo che parve infinito. La pura bellezza e l’espressività del suo canto mi turbarono profondamente. Mi sembrava di sentire nella sua voce tutta la tristezza, tutta la solitudine e la sofferenza che la sua umile condizione gli imponeva. Anche quando, negli anni successivi, nuovi cuccioli si aggiunsero al branco di Sawtooth, nessuno riuscì mai a eguagliare la bellezza e la malinconia dell’ululato di Lakota.

 

Vedere un branco di lupi che cantano insieme significa assistere a uno degli eventi più misteriosi e impressionanti che abbiano luogo in natura. È come se i lupi stessi non possano fare a meno di unirsi all’ululato dell’alfa. Lakota non sapeva mai a quali guai sarebbe andato incontro, ma non poteva impedirsi di partecipare. Passava da un lupo all’altro porgendo il suo omaggio, con la coda bassa e la testa che sfiorava il terreno. Ma mentre Kamots continuava a ululare, Lakota sentiva crescere dentro di sé l’urgenza di cantare, e dopo qualche mormorio incerto finiva per unirsi al coro, defilato eppure desideroso di farsi coinvolgere.




La sua partecipazione era considerata offensiva da alcuni lupi di rango intermedio, come se oltrepassasse i limiti che gli erano imposti. Amani appariva particolarmente deciso a rimetterlo al suo posto, e spesso nel corso dei raduni del branco lo attaccava, ringhiando e mostrando i denti. A volte sembrava che fosse stato Amani a gettarlo a terra, mentre in realtà era Lakota che si rovesciava sul dorso in segno di resa. Con un coro di ringhi e mugolii, a quel punto gli altri lupi entravano in azione. Per quanto raramente Lakota venisse ferito in queste dimostrazioni, i suoi lamenti erano strazianti. Amani lo sovrastava con aria trionfante, costringendolo a implorare di essere risparmiato. Una volta pago della sua esibizione, Amani si addolciva e Lakota scivolava via silenziosamente, rinunciando a ululare per un po’.




Ero abituata a dispensare le mie attenzioni a Lakota con estrema prudenza, ma a volte i nostri incontri furtivi venivano scoperti. Ogni attività umana scatenava un forte interesse nel branco. Se Motomo o Amani ci vedevano insieme, si precipitavano a indagare sul motivo per cui Lakota stava godendo dei miei favori e loro no.

 

Sotto certi aspetti erano come dei bambini. Se un lupo si procurava qualcosa – un osso, un bastoncino o l’attenzione di una persona – tutti gli altri la volevano. In quei momenti il mio timore principale era che la mia dimostrazione di affetto diventasse un’occasione per infierire su Lakota, così imparai rapidamente a rivolgere la mia attenzione agli altri lupi quando si avvicinavano. Ciò parve soddisfarli e preservare la pace. Lakota conosceva fin troppo bene le regole e si allontanava da me con discrezione, illeso ma pur sempre reietto.

 ( J. & J. Dutcher) 





 




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