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età tardoantica, forse nell’VIII secolo
d.C., un ignoto poeta compose un carmen in onore dell’usignolo, a cui,
secondo la tradizione mitologica latina, egli si rivolgeva con il nome di
Filomela. Dopo aver lodato il canto di questa meravigliosa creatura della
notte, l’autore volle compararlo con quello degli altri uccelli, di cui riportò
diligentemente il nome e il verso.
Ecco
così il tordo che trucilat, lo storno che pusitat, il cigno che drensat e via di seguito. E siccome l’ignoto apparteneva a un mondo
linguistico e culturale ormai lontano da quello di Svetonio, nel carme trova posto anche un nome germanico, drosca, parente del tedesco drossel e dell’inglese thrush, termini che designano il nostro tordo.
Dopo
di che, benché nessuno ce lo costringesse
(nemine cogente), il nostro poeta si mise a elencare anche i discrimina vocum, le differenti voci, degli animali a
quattro zampe, salvo concludere, quasi a scusarsi per l’inevitabile incompletezza
del suo elenco, che le specie animali sono infinite, e infinite sono pure le
voci differenti che esse emettono.
Una
cosa però per lui restava certa: tutti gli animali, con qualsiasi voce, cantano
le dovute lodi del Signore.
Il fatto è che ormai da tempo il cristianesimo ha invaso lo spazio della cultura antica. Se per i cosiddetti pagani le voci degli animali (e soprattutto degli uccelli) comunicavano agli uomini gli oscuri disegni della divinità, come avremo modo di vedere, per i cristiani esse si riducono a un autoreferenziale, e obbligatorio, canto di lode a Dio.
Le Muse ispiratrici, quelle ‘vere’, sono le
figlie di Mnemosyne, la memoria, e come tali si occupano
della memorizzazione/trasmissione del passato ‘in tutta la sua fattuale
precisione e in tutti i suoi dettagli circostanziali’.
Questo
particolare legame fra Muse da una parte e ‘catalogo’ dall’altra è reso anzi
esplicito dal fatto che spesso, nella poesia greca arcaica, l’enunciazione di
un ‘catalogo’ (come quello delle navi degli eroi, per esempio) è preceduta da
una specifica invocazione alle Muse, affinché suggeriscano al poeta le
informazioni che gli occorrono, e di cui non dispone.
Fra ‘catalogo’ da un lato e poesia dall’altro c’è del resto un’affinità prima di tutto formale, che consiste nel semplice fatto che la poesia consta di un’ordinata successione di versi: proprio come un ‘catalogo’ consta di un’ordinata successione di items.
Ordine
su ordine, è come se i versi della poesia
offrissero alle entries del ‘catalogo’
una griglia già pronta - una prefabbricata cassettiera - capace di disporre una
di seguito all’altra le singole informazioni in una sorta di archivio. Poesia e catalogo, versificazione e archivio sono forme che si fondano tutte sulla
categoria del parallelismo, ovvero dell’analoga ripetizione di elementi simili
in una successione ordinata: versi come entries,
versi che contengono entries.
[…]
Dobbiamo ora immaginare da un lato i Filosofi stoici, in particolare quelli
appartenenti alla stoà più antica, i quali erano decisamente ostili all’idea
che gli animali fossero dotati di ragione e, di conseguenza, non accettavano il
principio che uomini e bestie potessero essere legati fra loro da una qualsiasi
forma di diritto. Lo sguardo degli stoici era talmente centrato sull’uomo,
unico essere provvisto del dono della ragione, che il loro umanesimo finiva per
trasformarsi in una forma di razzismo animale, o meglio di ‘specismo’. Come
diceva Cicerone, ‘non vi è alcun
rapporto di diritto (nihil iuris esse)
fra uomini e bestie’.
In modo eccellente Crisippo ha affermato [ ... ] ‘che gli uomini possono servirsi degli animali per la loro utilità senza commettere alcuna ingiustizia’. A parere degli stoici gli animali esistono esclusivamente per il vantaggio degli uomini. Sia detto per inciso, ma Crisippo è il filosofo al quale si attribuiva il seguente detto: ‘Al porco gli dèi hanno dato l’anima a guisa di sale, perché la sua carne non marcisse’.
Sull’altro
versante stanno invece i difensori degli animali, in particolare Plutarco e
Porfirio.
Le
loro idee derivavano in parte da quelle di Teofrasto,
mentre gli argomenti di cui si servivano erano attinti alla Nuova Accademia (pur
se frequentemente mescolati con idee mistiche di tipo orfico o pitagorico).
Quali
erano le loro posizioni?
Sostanzialmente queste: gli animali sono dotati di ragione, e in varia misura anche di linguaggio; fra uomini e animali sussiste una forma di oikéiosis, parentela, che, assieme alla virtù della philanthropia, deve spingerci a usare giustizia anche nei loro confronti e così di seguito.
Quanto
ai pensatori giudaici, i quali trovavano nella Bibbia l’esplicita affermazione
dell’inferiorità degli animali, la loro posizione sembra però, come minimo,
decisamente variegata.
Per
quello che riguarda infine il pensiero cristiano, se prendiamo Agostino come suo rappresentante la
situazione si presenta abbastanza sconfortante. Basterebbe ricordare quel luogo
in cui il vescovo di Ippona, per rispondere a chi considerava la sofferenza del
parto comune anche agli animali, affermava:
Non te lo hanno detto gli animali se
il loro gemito [al momento del parto] sia un canto o un lamento [ ... ] Chi può
sapere se i moti e i suoni che gli animali manifestano in questa occasione -
essi che sono muti, e non possono perciò rivelare ciò che accade dentro di loro
- non solo non esprimano dolore, ma addirittura una qualche forma di piacere?
Agostino intendeva qui contrastare una linea di pensiero che agli animali riconosceva, se non la capacità di comunicare contenuti razionali, almeno quella di esprimere le proprie emozioni o le proprie passioni. In ogni caso, chiunque abbia visto partorire almeno la propria gatta potrà facilmente giudicare dell’insensibilità di Agostino su questo terreno.
Tra
i filosofi stoici e i loro avversari, infatti, una particolare materia di
dibattito fu costituita dalla seguente questione: se le bestie disponessero
solo di logos prophorikos, linguaggio proferito più o meno
articolato, ovvero anche di logos
endidthetos, cioè della facoltà di
pensare, quella che Porfirio
definirà, molto efficacemente, ciò che
risuona in silenzio nell’animo.
Inutile dire che, sul versante stoico, il
riconoscimento che gli animali possedessero almeno il logos prophorikos - inevitabile, bastava aver posseduto un cane -
non implicava affatto che essi dovessero essere considerati anche logikoi, dotati di ragione: gli animali continuarono ineluttabilmente a
essere considerati aloga.
Con questo torniamo al nostro Eliano, il quale
può essere considerato parte di quel manipolo, fra cui Plutarco e Porfirio, che sostenne la razionalità degli animali.
Come abbiamo visto in precedenza, nella fonosfera degli antichi le voci degli uccelli occupavano un posto (come minimo) diverso rispetto a quelle di tutti gli altri animali. I termini che si usano per descrivere le loro voci, infatti, si riassumono in uno, il principale: cantus. Le creature alate cantano alla maniera degli uomini. Questa osservazione ci permette di lanciare un ponte, abbastanza inatteso, in direzione della musica e della poesia.
Gli
antichi avevano già compreso ciò che gli scienziati moderni hanno dimostrato
con l’ausilio delle registrazioni in laboratorio, ossia che gli usignoli (come
le balene) imparano a cantare dai propri genitori.
Ma
soprattutto, che cosa intende Plinio
con l’espressione versus?
Evidentemente
si tratta delle frasi musicali che l’usignolo è in grado di eseguire, frasi
destinate a comporre quei cantus
molteplici, e di carattere individuale, che questo uccello – ‘nella cui gola si
realizza già tutto ciò che l’uomo ha escogitato con i sofisticati meccanismi
dei flauti’ - è in grado di produrre con tanta maestria. Con il termine versus si definisce insomma la sequenza ritmico-melodica emessa dall’uccello
canoro che, alla maniera di un poeta, costruisce il suo cantus mettendo in
successione dei veri e propri versi.
La valenza di questa espressione, versus, riferita al mondo degli uccelli, emerge altrettanto chiaramente quando Plinio parla del canto dei colombacci (palumbes):
Emettono tutti un canto (cantus)
simile, che è costituito da una serie di tre versus con l’aggiunta di un gemito
in clausola (in clausula)
I
colombacci producono dunque un cantus
di struttura ternaria, che comprende cioè tre unità ritmico-melodiche una di
seguito all’altra, con l’aggiunta di una clausola corrispondente a un gemito.
La terminologia usata da Plinio è
molto indicativa. In questo caso, infatti, a
versus si associa un altro termine tecnico, clausula, che, nella tradizione dei grammatici, corrisponde al
greco epodos e indica propriamente il
verso più breve che conclude una serie di versi più lunghi.
Il
canto dei colombacci viene assimilato da Plinio
a una vera e propria strofa, in cui a tre versus più lunghi fa seguito un verso
breve che corrisponde a un gemito. Quanto ci viene detto da Plinio corrisponde, in maniera
impressionante, ai risultati raggiunti dai naturalisti e dagli zoomusicologi
moderni. Per citare un solo esempio, lo studio condotto da François-Bernard Mache su centosessantacinque sequenze vocali di
usignolo ha permesso di individuare, nel canto di quest’uccello, l’esistenza di
una vera e propria frase musicale tipo:
essa contiene un’introduzione, una
serie di suoni ripetuti e una coda,
in genere consistente in un suono unico.
Il ricorso a termini come versus e clausula per definire il canto degli uccelli mostra dunque che la natura estetica - puramente e strutturalmente musicale in senso umano -, che caratterizza il canto di alcuni uccelli, era già stata individuata dagli antichi. Le osservazioni di Plinio, però, risultano interessanti anche da un punto di vista antropologico. In quanto dotati della capacità di canere o cantare, agli uccelli - o almeno ai più canori fra essi, come il merlo, l’usignolo o il colombaccio - viene attribuita la stessa dote che fra gli uomini è posseduta dai poeti: quella di comporre versus.
Nella
percezione di Plinio, il canto degli
uccelli si compone di frasi ritmicomelodiche che svolgono la stessa funzione
dei versus in una composizione poetica.
Dunque, quando il senex della Casina invita l’amico a non dimenticarsi di ‘quello
che il merlo canta nei suoi versi’ (merula
per vorsus quod cantat), Plauto intende proprio affermare che il merlo
esegue il suo richiamo, il suo canto,
in una forma di tipo ritmico-musicale: simile
appunto ai versi composti da un poeta.
Esplorare, anche sommariamente, le vocalità dei volatili con gli strumenti della ricerca contemporanea provoca in effetti scoperte di estremo interesse. Abbiamo già visto prima che alcune creature aeree sono in grado di praticare vere e proprie forme strofiche, come nel caso degli usignoli; a questo si può aggiungere che certi uccelli canori hanno la capacità di organizzare autentici duetti, come nel caso dell’averla di macchia. Altri volatili giungono poi a realizzare scambi vocali di tipo antifonale, e praticano perfino forme di canto agonistico, fondate cioè sul confronto fra due contendenti, dei quali ciascuno riprende ogni volta, variandoli, elementi canori utilizzati precedentemente dall’avversario: proprio alla maniera delle gare poetiche fra pastori immaginate da Teocrito e Virgilio, o dei contrasti ancora oggi praticati nella tradizione popolare.
Analogie
di questo genere fra i due universi sonori, quello degli uccelli e quello degli
uomini, sono davvero impressionanti. Poeti
e musicisti, dunque, hanno veramente
imitato gli uccelli, come sostenevano gli antichi, modellando le proprie forme
artistiche sulle vocalità che risuonavano negli strati più alti della
fonosfera?
Verrebbe
fatto di crederlo.
Tanto più che il processo dell’imitazione, o del prestito culturale, potrebbe aver agito non solo in un senso, ma anche nell’altro. Se gli uomini, infatti, possono aver imitato le forme musicali degli uccelli, anche gli uccelli potrebbero aver fatto altrettanto, visto che il loro canto appare spesso capace di inglobare, rielaborandole, forme e sonorità che essi captano da fonti esterne.
Abbiamo
parlato finora di imitazione: e se invece si fosse trattato di un’evoluzione
convergente fra i due universi vocali?
Non è mancato, infatti, chi ha supposto che tra le ‘funzioni musicali’ degli uomini e quelle degli uccelli sussistano tratti comuni, i quali avrebbero condotto a evoluzioni, in qualche modo, parallele. Né si può escludere che tutti questi fenomeni possano essersi realizzati in combinazione, lungo un processo che abbia visto agire simultaneamente imitazione culturale e convergenza naturale: uomini che imitano voci di uccelli, e uccelli che imitano canti di uomini, perché le rispettive capacità neurologiche, in fatto di musica, invitavano di per sé a farlo. Non dimentichiamo che la nostra fonosfera, quella in cui risuonano le musiche o i canti degli uomini e le vocalità degli uccelli, ha alle spalle un processo di lunga, anzi lunghissima durata.
(M. Bettini)
“Gli animali sono gli esseri viventi capaci, con la forza della loro misteriosa energia fisica e psichica, di introdurre l’animale-uomo ai Passaggi e alle Vie che conducono al mondo degli Spiriti Protettori e Risanatori che si celano nella Natura. Sono gli illuminati portatori di un potere segreto, chiamati ad aiutare e a proteggere quegli uomini e quelle donne “speciali” che possiedono i doni dei messaggeri divini e dei guaritori di “anime”, le figure indiscusse dell’equilibrio mentale e fisico dell’umanità: gli sciamani e le sciamane”.
Perché
queste righe scritte agli inizi del secolo scorso dall’antropologo russo Dimitri Zikov per introdurre i temi di
questa ricerca?
E
quale significato possono avere per noi, oggi, queste parole?
Riassumono
l’essenza di uno dei fenomeni antropologici, in cui fisica, metafisica e
spiritualità si alimentarono a vicenda, che comparve sul pianeta Terra, molte decine di migliaia di anni fa, dal nord al
sud dell’Asia, (con reti di migrazioni in Europa), nelle Americhe, in Africa,
in Cina, e diede vita a quei complessi avvenimenti misterico-culturali che gli
studiosi chiamarono “civiltà sciamaniche”.
I miti e le immagini dell’umanità arcaica, ci dicono che quelle culture antiche consideravano gli animali come i possessori del primato dell’ordine morale e spirituale, messo in risalto dalla loro abilità “nel giudicare con esattezza le cose e nell’essere fedeli”. Per questo erano considerati esseri univoci, se messi a confronto con l’equivocità dei comportamenti degli uomini.
Erano imbevuti di religiosità
scrive
Neil Russack
perché sempre fedeli a se stessi e
impossibilitati ad essere qualcosa d’altro,
e
come ci dice Marius Schneider
fedelmente legati alla loro natura
ritmica e musicale.
Un particolare, quest’ultimo, che fa affiorare dall’oscurità del mito e illumina la figura di Orfeo.
È
l’epoca in cui l’inquietante tradizione sciamanica, della Tracia selvaggia,
attraverso le coste del Mar Nero, approda nella Grecia asiatica, dove Apolunas è venerato dalla gente della
Licia come deità della guarigione e della musica. Migrando dalle coste
dell’Asia Minore, passando nell’isola di Creta, questa deità ricompare nella
Grecia pre-classica con il nome di Apollo,
fratello gemello di Artemide, nel cui nome si ritrova la parola greca arktòs che significa orso, anticamente
considerato un animale protettore. Apollo diventa uno degli dei guaritori, protagonisti della mitologia
celeste della Grecia classica.
Orfeo (amato da
Apollo), viene descritto dai cantori dell’epoca come poeta, mago e custode dei
semi della musica, raccolti ascoltando i suoni della pioggia e del mare, del
vento e dei torrenti nelle gole di montagna, degli animali e anche le mille sonorità degli uomini e di
tutti i paesaggi del mondo.
Conoscitore e interprete dell’anima degli animali, Orfeo ha la capacità di risvegliare la loro emotività intrattenendoli con le melodie della lira e con il canto, e addomesticando con la musica anche quelli feroci. Orfeo è il grande mediatore e ordinatore di tutte le forme energetiche della natura, simboleggia colui che indirizza l’anima degli esseri viventi verso gli equilibri che stanno oltre il caos.
Come
gli sciamani, possiede il doppio dono di musicante
e guaritore di uomini e al pari di loro è in grado di intraprendere viaggi pericolosi per penetrare
nell’oltretomba a ricuperare, nelle profondità della terra, un’anima (Euridice)
trascinata negli Inferi.
L’uomo antico, come Orfeo, condividendo gli stessi ambienti
naturali degli animali, ne percepiva il profondo legame parentale, osservandone
gli affascinanti ritmi vitali nonché verbali come sopra accennato.
Osservatori
molto attenti alle dinamiche psicologiche e corporee del mondo animale, gli
sciamani della antiche culture si consideravano capaci di interpretarne i messaggi
e le velate metafore, cogliendone anche gli aspetti in apparenza invisibili.
“Nelle culture totemiche e pre-totemiche” riassumendo una pagina dalle lezioni universitarie dell’etnomusicologo /antropologo Marius Schneider :
l’animale era vissuto come un essere
mistico, parente stretto dell’animale-uomo, perché entrambi caratterizzati dal
ritmo, come principio essenziale del concetto di vita… Ogni animale, dotato di
un grande potere intuitivo, si presentava come l’incarnazione degli dei
protettivi, ma anche degli antenati dell’uomo.
Sulla
base delle capacità di osservazione di cui si è parlato e delle difficoltà di
interpretare certi comportamenti degli animali che paiono enigmatici e oscuri,
le culture primitive li avevano scelti come ispiratori e come paradigmi del
proprio agire, assegnando loro, di conseguenza, delle caratteristiche umane e
ultra-umane. Li vivevano come modelli delle pulsioni vitali-istintuali, così
preziose per la sopravvivenza.
Per queste ragioni possiamo dire che gli animali, con la varietà dei loro linguaggi sonori e corporei, con i loro molteplici ritmi comportamentali nella vita individuale e di gruppo, hanno lasciato un’impronta misteriosa nella memoria dei nostri antenati. Un segno così forte da spingerli a modificare il significato della loro presenza e del loro linguaggio e da considerarli degli esseri con capacità profetiche, in contatto con le forze invisibili che ci parlano, e dispensatori di doni per l’umanità.
Quello degli animali è un linguaggio
dimenticato – ci ricorda Maurizio
Bettini – che si manifesta solo in certi momenti e solo a certe persone. È un linguaggio oscuro, addirittura
vincolato al segreto…
Qual
demoni della terra!
Il
linguaggio enigmatico delle origini, la cui comprensione, un tempo, era riservata
agli sciamani, ai profeti, ai veggenti, ai santi, ai mistici.
Quando il santo di Assisi, Francesco, inventa il presepio (nel significato di mangiatoia), sistema un bue e un asino accanto al neonato Gesù, mentre altri animali sembrano fare da guida ai pastori. Due animali che non soltanto scaldano con il fiato, ma con la semplice presenza assumono il ruolo di protettori del Bambino iniziatore di una nuova civiltà. Protetto e scaldato da due animali – fa notare Maurizio Bettini – la cui naturale dedizione al Bambino costituisce un’implicita dimostrazione del suo carattere divino.
Portatori
di questi valori attraverso messaggi, dai significati per noi, spesso, oscuri,
conservati attraverso i millenni dalle culture sciamaniche, gli animali guida,
oggi, vengono riscoperti ed evocati come dispensatori di insegnamenti e di
energie terapeutiche, come punti di riferimento per ricuperare un atteggiamento
più fiducioso verso la vita, per riscoprire la capacità di liberarci dai
condizionamenti, per rinnovare le pulsioni che nel cuore umano tendono anche
allo spirituale e alla trasformazione.
Queste
le ragioni che mi hanno spinto, nell’epoca delle tecnologie esasperate, a
soffermarmi sulla riscoperta dei nostri legami, anche spirituali, con il mondo
animale (specchio della natura).
Ci fu un momento nella storia dell’umanità in cui il respiro dei primitivi si fuse con la respirazione, non solo del mondo animale, ma anche di quello vegetale e minerale, i mondi che svolgevano il compito di custodi di quelle forme particolari di potere evolutivo che erano trasmettibili a noi.
Un
potere, quello animale, che ha le sue manifestazioni esteriori nella
sorprendente varietà dei loro segnali vocali e negli eleganti ed essenziali
movimenti del corpo, nelle improvvise immobilità silenziose che rivelano la
perfezione dei loro sistemi nervosi, ma anche la loro anima.
Affascinante
l’osservazione degli animali, là dove si scoprono le relazioni tra cuccioli e
adulti e tra i branchi, dove la grazia e la giocosità sono doni istintuali, in
cui si rivela una ricchezza di sottili giochi psicologici, che solo la sapienza
degli sciamani è in grado di riconoscere, di interpretare e di prendere a
modello.
La relazione stretta tra gli umani e il mondo animale è stata fondamentale per la sopravvivenza e per l’evoluzione dei nostri lontani antenati preistorici: le società umane dei cacciatori-raccoglitori.
La
lunga epoca iniziale, in cui la simbiosi uomo-natura significava anche
percorrere la strada del divino,
lasciò il posto ai millenni in cui gli uomini vissero gli animali come
anticipatori della venuta degli dei, fino alla nascita del politeismo che –
come scrive James Hillman
assunse forme animali e dove negli
stessi animali abitavano gli dei,
per
arrivare infine al passaggio dalla preistoria alla storia, quando, per una
distorta interpretazione di alcuni testi legati al monoteismo religioso, l’uomo
assunse il ruolo di padrone del pianeta, che fu visto e vissuto soltanto come
una fonte di risorse (comprese quelle animali) da sfruttare, in virtù di un
presunto diritto offerto dal cielo all’umanità.
L’inevitabile trasformazione nell’ambito religioso, politico, tecnologico-militare, comunicativo e culturale, nei millenni successivi, alterò, nel peggiore dei modi, il pensiero dell’uomo circa la relazione con la Natura Madre, che fu piegata alle nostre esigenze predatrici. Il resto delle creature viventi fu degradato a stirpe inferiore, emarginata e schiavizzata. L’animale era semplice preda o essere addomesticato al servizio dell’uomo.
Qualcosa
dell’antica simbiosi animale-uomo-natura
si salvò in alcune aree del pianeta e oggi sopravvive per merito di quelle
minoranze umane, a cui le scienze antropologiche, come abbiamo detto, danno il
nome (riduttivo) di sciamanismo.
Da queste isole culturali antiche, oggi si possono ascoltare delle flebili voci. Fanno filtrare un messaggio insistente e significativo: gli animali, ai quali spesso manchiamo di rispetto e che, in vari modi, violentiamo, conservano i misteriosi poteri di un tempo. Sono portatori di intense energie psichiche, sono gli esseri viventi ai quali i nostri antenati lontani hanno affidato l’incarico di illuminare le Vie, perché depositari di una fisicità che trascende la materia, di un fuoco che non riusciamo a vedere e di una parola che non riusciamo a sentire, avendo noi dimenticato quel contatto con le origini, cioè con l’epoca che ci vedeva come figli generati dalla Grande Madre, la Natura.
(F. Massara)
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