CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
30 MAGGIO 1924

lunedì 1 aprile 2024

AI CESARI

 









Prosegue con:  


la Nausea 


Prosegue ancora 


con il giusto grado 


di fiducia 


da riporre in loro







Non ricordo il giorno anno il secolo - o l’hora - senza il Tempo della più vera piccola grande minuta Natura per solo poterla narrare…, per solo dipingerla, per solo ritrarla disperata seppur Immacolata. Pallida e muta inerte giace come un umile Fiore in attesa di comporre la Primavera, nuda e casta sporge dalla riva di questa loro deriva nominata progresso senza nessun Elemento. Solo il luogo rimembro, stesso medesimo fuori dall’Idea di vaste mura di cinta di medesimo Impero: membro segreto che in più segreta pugna scorge ma non vede.

 

E come sempre è stato - e sarà ancora - proprio entro cotal cinta per dure ragioni interne all’esterno si pugna, e noi che preferiamo una più degna Visione abdichiamo cotal vizio di forma ad una diversa Dottrina, la quale per sua nobile Natura a tal antica rinnovata pugna preferisce una diversa Via…  

 

La riparo e mi inchino alla sua folta chioma, un petalo una foglia un raggio di Sole un profumo lieve per dirle che il Re l’ama ancora. Alza l’occhio verde smeraldo impallidito sporge dall’Alba del primo mattino: mi scorgo nello specchio del gelido Fiume come fosse una antico calvario, l’occhio assume sfumature azzurro-celesti come il cielo dell’Olimpo in cui forgiato l’ardore; e da questo sudario di ghiaccio l’abbraccio attento per non precipitare nell’Abisso d’un diverso incubo pugnato, divenuto miniato papiro del Dio che dall’alto detta  Legge senza il Diritto di poterla appena comprendere, oppure solo narrare, in sì vasto Regno di nero catrame per sempre pugnato!

 

Tratto dall’occhio indiscreto d’un ciclope lontano che tutto scruta e pensa vedere. Quando io e Lei, in veritate e per lo vero sappiamo, che la cecità è l’unico fiore rubato della perenne pugna la qual orna il merito di questo cippo con sopra un pargolo canterino, entro la parabola dell’oculo composto d’una nera accecata mosca di questo nudo mattino.

 

La mosca in sì vasta pugna rinata si poggia sulla materia che più l’aggrata, assieme compongono il Tempo d’una diversa speranza la qual profuma l’intera spoglia vallata senza più un Anima per poter rimembrarla.   

 

Il cippo e il pargolo canterino che salta da un Ramo al fiore del suo amore del primo mattino, in attesa dell’ape che meglio di lui sa’ comprenderne il Segreto fino al tardo pomeriggio, infiammano la pugna del Ciclope allarmato che hora avanza: cotal amore non s’addice alla pugna del micro circuito motorizzato in fase avanzata di collaudo: il Fiore va’ calpestato giammai amato!  

 

Cala l’elmo cinto di gloria in onor del padano, promettendo grana per chi ostacola il Sogno profanato, intona l’adunata pugna della sua ed altrui parabola in attesa della gloria motorizzata nonché corrazzata, ridistribuita a rete unificata ed hora anche navigabile, giacché il suffragio concede questo ed altro tempo ad ogni tiranno.

 

Cinge il Fiume d’alloro d’un rosso colore, poi incide la zolla con l’impronta d’una più nobile promessa senza più Terra degna del suo vero nome, affinché la tela il Tomo e l’intera Arte della pugna possano narrare cotal Metamorfosi di cui va fiero il mondo intero. Rosso sangue il qual straripa fin sulla neve, nero sterco di cui va fiero il concime letto al mattino e ripetuto per l’intero giorno, come un ode d’un tamburo che annunzia la pugna del piacere di cui va fiero il suo impotente rigido mestiere.

 

Il mercenario centauro l’attende di guardia vicino alla stalla, lui conosce un più profondo segreto celato al mondo intero, ed alla pugna del suo amico è gradito il futuro grugnito della maga dell’isola dell’eterno ritorno, e di Circe non rimembra il nome. Ma hora al saldo di Venere nel sacrificio dell’Olimpo in offerta, l’Idea pattuita si masturba in più comoda rata, cui il Viaggio naufragato alla precoce promessa della rinascita ed in attesa di poterla narrare ai pollici convenuti per la prossima isola prepagata.  

 

L’antica Odissea narra il suo Ulisse alla cassa di Penelope in attesa d’esser liberata con tutta la Gerusalemme entro e fora le pugnate mura del Tempio.

 

L’importante la ‘carta’ convenzionata con sufficiente credito, con ovviamente compresa al saldo della promessa, di compiere l’intero Viaggio del naufragio promosso per farvi ritorno!      

 

Oggi, al contrario, si vuol confiscare dignità dell’altrui decoro barattato per politica e Stato degno d’esser rimato non men che apostrofato nella ‘nausea’ che suscita e dispensa… cotal pugna fuori dalla cinta e cementata fortezza…  

 

Proprio cotal pugna - come dicevo - vien ancor adesso apostrofata qual nuova Terra Promessa, e/o conquistata, così come un Tempo con sermoni da chi preferisce ben diverse prediche o rime circa lo strano amplesso coniugato con la Natura del Creato, la Parabola insegna anche questo ai giovani paladini d’ugual medesimo o diverso sesso circa il ruolo dovuto d’un casino confuso per ordine in-crociato…

 

(Giuliano ai Cesari)





 

Certamente se il mio animo, il quale è con voi quasi sempre, non mi vi rammentava, io era a peggior partito che non sono i vizi còlti in uggio da lo odio che in eterno gli portarà quella libertà di natura concessami da le stelle: perché, sendo io tenuto di molto obligo con una schiera di mezzi iddii, non sapeva a chi mi intitolare la istoria che io vi intitolo.

 

S’io la dedicava al re di Francia, ingiuriava quel dei Romani.

 

Offerendola al gran genero di Cesare e gran duca di Fiorenza, lume di giustizia e di continenzia, mi dimostrava ingrato a la somma bontà di Ferrara.

 

Volgendola al magno Antonio da Leva, che averia detto di me l’ottima eccellenzia di Mantova e l’onorato marchese del Vasto?

 

Porgendola al buon prencipe di Salerno, dispiaceva al fedel conte Massimiano Stampa.

 

Se io la indrizzava a don Lopes Soria, con qual fronte mi rivolgeva io dintorno al conte Guido Rangone e al signor Luigi Gonzaga suo cognato, le cui qualità onorano tanto l’armi e le lettere quanto l’armi e le lettere onorano lui?

 

Se io la presentava a Loreno, chi mi assicurava de la grazia di Trento?

 

Che sodisfazione dava io a Claudio Rangone, lampa di gloria, colocandola nel signor Livio Liviano, o nel generoso cavalier da Legge?

 

Come trattava io l’ottimo signor Diomede Caraffa e il mio signor Giambattista Castaldo, a la gentilezza del quale tanto debbo, caso che io ne avesse ornato qualcuno altro?

 

Ma lo apparirmi voi ne la mente è stato cagione che io vi porgo i presenti ragionamenti: e ben lo meritano le condizioni le quali vi fanno risplendere come ne le loro risplendono i miei benefattori.

 

E se io vi teneva in fantasia quando consacrai i tre giorni dei Capricci al Bagattino, per avere egli la qualità dei gran maestri (che io odio per grazia de la loro avarizia), uscivano forse in campo a nome vostro: solo per aver voi di quelle parti le quali hanno i grandi uomini che io per lor vertù adoro, e sète mercatante nel procacciare e re nel dispensare, né senza quale vi congiugneste di carnal benivolenzia col tanto animoso quanto infelice Marco di Nicolò.

 

E vergogninsi i monarchi terreni: non parlo del saggio e valoroso duca Francesco Maria, ai meriti del quale mi inchino mattina e sera, ma di quelli che lasciano le lodi che se gli solevano dare e i libri che si imprimevano a nome loro, non pure a privati gentiluomini, ma a le scimie ancora, e merita di sedere a la destra de le Croniche del Iovio l’atto del Molza e del Tolomeo, i quali fecero recitare una lor comedia a tutti gli staffieri e a tutti i famigli di stalla di Medici magnanima memoria, facendo star di fuora tutte le gran gentaglie.

 

E per dirvi, Omero nel formare Ulisse non lo imbellettò con la varietà de le scienze, ma lo fece conoscitore dei costumi de le genti. E perciò io mi sforzo di ritrarre le nature altrui con la vivacità che il mirabile Tiziano ritrae questo e quel volto; e perché i buoni pittori apprezzano molto un bel groppo di figure abozzate lascio stampare le mie cose così fatte, né mi curo punto di miniar parole: perché la fatica sta nel disegno, e se bene i colori son belli da per sé, non fanno che i cartocci loro non sieno cartocci, e tutto è ciancia, eccetto il far presto e del suo.

 

Eccovi là i Salmi, eccovi la Istoria di Cristo, eccovi le Comedie, eccovi il Dialogo, eccovi i volumi divoti e allegri, secondo i subietti; e ho partorito ogni opera quasi in un dì: e perché si fornisca di vedere ciò che sa far la dote che si ha ne le fasce tosto udiransi i furori de l’armi e le passioni d’amore, che io doveria lasciar di cantare per descrivere i gesti di quel Carlo Augusto che inalza più gli uomini a consentire che se gli dica uomo, che non abbassa gli dèi a non sopportare che se gli dica iddio.

 

E quando io non fosse degno di onor veruno mercé de le invenzioni con le quali do l’anima a lo stile, merito pur qualche poco di gloria per avere spinto la verità ne le camere e ne le orecchie dei potenti a onta de la adulazione e de la menzogna, e per non difraudare il mio grado, usarò le parole istesse del singulare messer Gian Iacopo imbasciadore d’Urbino:

 

‘Noi che spendiamo il tempo nei servigi dei prencipi, insieme con ogni uomo di corte e con ciascun vertuoso, siamo riguardati e riconosciuti dai nostri padroni bontà dei gastighi che gli ha dati la penna di Pietro’.

 

E lo sa Milano come cadde de la sacra bocca di colui che in pochi mesi mi ha arricchito di due coppe d’oro:

 

‘L’Aretino è più necessario a la vita umana che le predicazioni, e che sia il vero, esse pongano in su le dritte strade le persone semplici, e i suoi scritti le signorili’

 

E il mio non è vanto, ma un modo di procedere per sostener se medesimo osservato da Enea dove non era conosciuto. E per conchiuderla, accettate il dono che io vi faccio, con quel core che io ve lo appresento; e in premio di ciò, fate riverenza a don Pedro di Toledo, marchese di Villa Franca e veceré di Napoli, in mio nome.








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