Dal mondo delle idee (di imminenti o passate Apocalissi…) rientrava in
quello più denso della sostanza contenuta e delimitata dalla forma.
Rincantucciato in camera, non dedicava più le veglie a sforzarsi di
acquisire nozioni più esatte sui rapporti tra le cose, bensì a una meditazione
non formulata sulla natura di esse.
Correggeva così quel vizio dell’intelletto che consiste
nell’impossessarsi degli oggetti per servirsene (aveva abdicato o forse delegato
tal compito divenuto in altri luoghi della memoria.. ‘indagine inquisitoriale’
ad altre ombre a lui avverse, ad altri inquisitori troppo lontani dalla
verità…), o, al contrario, nel respingerli senza penetrare abbastanza avanti
nella sostanza individuata di cui son fatti.
Così, l’acqua era stata per lui una bevanda che disseta e un liquido
che lava, una parte costituente l’Universo creato dal cristiano Demiurgo su cui
aveva intrattenuto il canonico Bartolomeo Campus quando gli parlava dello
Spirito aleggiante sulle acque, l’elemento essenziale dell’idraulica di
Archimede o della fisica di Talete, o, ancora, il segno alchimistico di una
delle forze che vanno verso il basso.
Aveva calcolato spostamenti, misurato dosi, atteso che goccioline si
condensassero nel tubo degli alambicchi. Ora, rinunciando per qualche tempo
all’osservazione che distingue e individualizza dall’esterno per darsi tutto
alla visione interiore del filosofo ‘Ermetico’, lasciava che l’acqua contenuta
in tutte le cose gli invadesse la camera come l’onda del diluvio.
Il baule e lo sgabello galleggiavano; i muri si squarciavano sotto la
pressione dell’acqua; cedeva al flusso che sposta tutte le forme e rifiuta di
lasciarsi comprimere da esse; sperimentava il mutamento di stato della falda
d’acqua che si fa vapore e della pioggia che si fa neve; faceva suoi
l’immobilità temporanea del gelo e lo scivolar della goccia limpida che scende
inspiegabilmente di traverso sul vetro, fluida sfida alla scommessa del
calcolatore.
Rinunciava alle sensazioni di tepore e di freddo che sono legate al
corpo; l’acqua lo trascinava via cadavere con altrettanta indifferenza che un
ciuffo di alghe. Rientrato nella propria carne, vi ritrovava l’elemento acqueo,
l’urina nella vescica, la saliva sulle labbra, l’acqua presente nel liquido del
sangue. Poi, ricondotto all’elemento di cui si era sempre sentito parte,
volgeva meditazione al fuoco, sentiva in sé quel calore moderato e beato che
abbiamo in comune colle bestie che camminano e gli uccelli che attraversano il
cielo.
Pensava al fuoco divorante delle febbri che si era adoperato invano
tante volte di spegnere, percepiva il guizzo avido della fiamma nascente, la
rossa gioia del braciere e la sua estinzione in ceneri nere. Osando spingersi
oltre, si univa strettamente all’implacabile ardore che distrugge ciò che
tocca; pensava ai roghi, come ne aveva visti per un autodafè in una cittadina
del Leòn, nel corso del quale erano periti quattro Eretici accusati di avere
ipocritamente abbracciato la religione cristiana senza peraltro abbandonare i
riti ereditati dai loro padri, e un Eretico che negava l’efficacia dei
sacramenti.
Si figurava quale potesse essere quella sofferenza, troppo intensa per
poterla descrivere, era lui l’uomo che aspira attraverso le narici l’odore
della propria carne che brucia; tossiva, avvolto da un fumo che non si sarebbe
disperso prima della sua morte.
Vedeva la gamba annerita drizzarsi tutta tesa con le articolazioni
lambite dalle fiamme, scorgeva i volti delle persone che assistevano al macabro
spettacolo offerto loro, uguali nei modi e nei gesti, nelle parole nei
lineamenti a quelle cui il Cristo ebbe a subire durante la Passione.
Da circa mezzo secolo si serviva della mente come di un cuneo per
allargare, meglio che poteva, gli interstizi del muro che da ogni parte ci
stringe. Le fessure si dilatavano, o piuttosto sembrava che il muro perdesse da
sé la propria compattezza senza tuttavia cessare d’essere denso, quasi muraglia
di fumo anziché di pietra.
Gli oggetti non adempivano più alla funzione di accessori utili. Come
un materasso perde il crine, lasciavano sfuggire la loro sostanza. Una foresta
riempiva la camera; lo sgabello, misurato sulla distanza che separa dal suolo
il culo d’un uomo, il tavolo che serve a scrivere o a mangiare, questa porta
che fa comunicare un cubo d’aria tra pareti con un cubo d’aria attiguo,
perdevano la ragion d’essere che l'artigiano aveva data loro per ridivenire
tronchi o rami scorticati come i San Bartolomeo dei quadri di chiesa, carichi
di foglie spettrali e d’uccelli invisibili, ancora scricchiolanti per tempeste
da lungo tempo placate e su cui la pialla aveva lasciato qua e là il grumo
della linfa.
(Prosegue...)
(Prosegue...)
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