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Triomphus Mortis (43)
Un acquisto di civiltà è, per esempio, ogni grande opera
d’arte che è accolta dagli uomini di un dato tempo e trova eco tra loro. Questo
effetto può essere visibile in una cerchia più ristretta o più larga, può
durare poco o molto ed estendersi in certi casi fin dove giunge l’occhio della
mente. Sarebbe un’impresa fuor di luogo illustrare questo fatto con una serie
di esempi: un vero commento equivarrebbe a un elenco di tutte le grandi opere d’arte
di tutte le epoche, di tutti i pensieri filosofici e infine di tutti i sistemi
religiosi che sono ‘più che civiltà’, è vero, ma fanno parte di essa. Sorge
immediatamente la questione se ogni scoperta scientifica e ogni constatazione di fattori ignoti nella natura siano da considerarsi senz’altro come acquisti di civiltà.
Sarà difficile rispondere di no, ma bisognerà trattare
il problema con cautela. La scienza col suo potente sviluppo e la sua sorella
minore, la tecnologia, hanno avanzato dal
secolo XIX in qua la pretesa di essere esse la civiltà. Purtroppo però
l’esperienza insegna che le più alte forme di evoluzione scientifica possono abbinarsi
alla peggior barbarie.
[…] Alla lunga serie delle citate perdite di
civiltà che ci straziano il cuore dobbiamo aggiungere ancora un amaro capitolo.
Si tratta, è vero, di una perdita di civiltà che risale solo indirettamente
alla stoltezza degli uomini e va quindi citata a parte. Alludiamo al tramonto del paesaggio, alla
scomparsa cioè di quella Natura immediata che una volta circondava quasi dappertutto
le dimore umane. Questa sparizione dell’intatta Natura è un fenomeno che si
manifesta in misura diversa nei singoli paesi e nelle varie regioni.
La scomparsa della Natura intatta è un fenomeno che soltanto ora, verso la metà del secolo XX, appare in tutta la sua estensione. Esso è lamentato specialmente da quelli che oggi hanno raggiunto la vecchiaia, poiché hanno visto coi propri occhi svilupparsi e allargarsi la distruzione del paesaggio. I giovani non se ne dolgono o se ne dolgono poco: sono cresciuti infatti in una Natura già sfigurata e non sanno quel che dicono quando affibbiano a noi vecchi, che rimpiangiamo la bellezza perduta, il titolo di romantici in ritardo. Per intendere il nostro dolore i giovani avrebbero dovuto conoscere direttamente le regioni intatte dove per interi distretti non esistevano strade, come io stesso potei constatare ancora cinquant’anni or sono nel Westerwolde e in grandi parti del Drente. Sarebbe grave errore pensare che qui si voglia rammentare una bellezza scomparsa sostituita ormai da un’altra bellezza. Qui si parla invece di distruzione di civiltà, del fatto che la terra diventa inetta ad accogliere la vera civiltà dacché la si lavora per lo sfruttamento e il rendimento di una quantità sempre maggiore di prodotti utili.
Quando il professor Baas Becking, direttore
dell’Orto Botanico di Buitenzorg, ebbe a dirmi: ‘Dio ha creato la natura e l’uomo
il deserto’, non fece così per dire, ma parlava con la massima serietà.
…Il grande botanico testé mentovato crede però che la verità delle sue parole sia riconoscibile alquanto oltre i limiti della storia che tutti conoscono. Dove oggi si estendono i grandi deserti (salvo le zone polari) il terreno rivela tracce di una rigogliosa vegetazione che deve avervi prosperato prima che quei territori inaridissero. Il secolare processo di rovina del paesaggio a opera dell’uomo continua ancora, nonostante i seri provvedimenti per il rimboschimento, dovunque sorgano come funghi le brutte città su quei terreni che una volta erano brughiere o boscaglie. Può darsi però che la distruzione della Natura pura sia inevitabile fino a un certo punto. Considerazioni e argomenti economici circa l’evoluzione della popolazione (e non solo) agraria portano alla conclusione che l’uomo è costretto a distruggere il paesaggio intatto. La terra deve ‘nutrire’ i suoi abitanti e perciò si sarà sempre più costretti a mettere ogni metro quadrato di terreno a disposizione della produzione e dell’industria; per quanto si faccia, non è possibile che tutta la terra sia dichiarata parco nazionale. E così una regione dopo l’altra finisce col non essere più creatrice o conservatrice di civiltà.
Abbiamo già detto che violando la Natura intatta l’uomo
perde più che la sola bellezza del paesaggio. Ma anche questa bellezza è un
elemento molto importante e chi l’ha veduta nella sua purezza sa quale valore
rappresenti nella vita. Con la mutilazione di un paesaggio non scompare
soltanto uno sfondo idillico o romantico; si perde una parte di ciò che costituisce
il senso della vita. Concluderò queste osservazioni con alcune parole che cito
da una dissertazione del professor Burgers sul rapporto fra il concetto di
entropia e le funzioni vitali. In questa dissertazione, che seguì la conferenza
di Baas Becking sull’entropia e la dissipazione, si legge:
‘La stragrande maggioranza delle azioni umane consiste nel costruire ordinamenti a spese di qualcosa che in altro riguardo potrebbe essere considerato ugualmente un ordine. L’esatta conoscenza di questo fenomeno è di grande importanza pratica, soprattutto perché la Terra (prescindendo dall’energia solare che essa riceve) è per noi un ambiente chiuso. La spensierata demolizione, e in special modo lo spreco inconsiderato dei prodotti di demolizione e di rifiuto, senza che si badi alle conseguenze, celano il pericolo di un impoverimento e di un intossicamento della cui gravità quasi non ci rendiamo conto. Basta pensare al modo in cui l’uomo distrugge le forme e la bellezza naturale della vegetazione, del mondo animale e della natura del suolo, e immaginare come queste distruzioni, anche chi non pensi alle conseguenze materiali, covino grandissimi pericoli per la nostra sanità spirituale. Fin tanto che il numero degli uomini era più piccolo questo problema aveva poca importanza; infatti in sostituzione dei territori guasti si poteva servirsi di zone sempre nuove e intanto c’erano forze rigeneranti che agivano nella natura circostante. Ora invece il territorio assoggettato all’attività umana comprende quasi tutta la Terra e di questo fatto ci rendiamo conto più chiaramente che mai. La crisi dolorosa nella quale l’umanità si dibatte è collegata, possiamo dire, col fatto che l’uomo non ha più territori nuovi a sua disposizione’.
A questo punto chiuderemo il nostro esame di quella
triste serie di perdite di civiltà che affliggono il nostro tempo, benché
l’argomento non sia affatto esaurito. Ma desideriamo passare finalmente alla
parte positiva del nostro assunto, alle prospettive cioè di un risanamento
della nostra civiltà. Al principio del
1940, su invito della redazione della “Fortnightly Review”, scrissi un
articolo che fu pubblico nell’aprile dello stesso anno, poco prima che il
nostro paese fosse sopraffatto, col titolo ‘Conditions
for a recovery of civilization’. Quanto segue è in un
certo senso una più ampia rielaborazione dei pensieri allora formulati; e spero
che, in base alle esperienze dei quattro anni dolorosi passati fino a oggi, il
mio pensiero abbia preso aspetti più esaurienti.
Il nostro discorso non tocca, come abbiamo già osservato, il problema della ricostruzione economica e sociale perché in questo campo mi sento del tutto incompetente. Ci limiteremo pertanto a chiedere che cosa sarà necessario dal punto di vista politico per passare dallo stato di guerra allo stato di pace o almeno alla fine vera e propria della violenza armata.
Immaginiamo che la guerra in Oriente e in Occidente
abbia a terminare nel modo più favorevole, più favorevole, s’intende, per la
civiltà. Vorrebbe dire ristabilire e confermare un ordine giuridico
internazionale sulla base del diritto delle genti che vigeva nel 1939; si annullerebbe dunque ogni
mutamento territoriale avvenuto, in seguito ad aggressioni, dopo lo scoppio del
conflitto e alcuni anni prima, in attesa delle decisioni di un congresso della
pace che, dopo attento esame, potrebbe introdurre modificazioni definitive
nella distribuzione politica della Terra. Supponiamo inoltre che si sia creata
almeno l’impalcatura di una sana amministrazione della Terra da parte di alcuni
Stati grandi e di numerosi piccoli, uniti tutti insieme in un organo dotato di
potere. Infine vogliamo supporre ancora che per la ricostruzione economica si
sia trovata una formula la quale soddisfi, se non tutti, per lo meno una buona
maggioranza.
S’intende che tutto ciò non sarebbe assolutamente
sufficiente per riportare la civiltà a un alto livello. Anzi il sistema
pacifico, dato qui per ipotesi, non avrebbe alcuna possibilità di agire in
maniera conforme allo scopo. Gli organizzatori della
pace si troverebbero dapprincipio di fronte
a una quantità di problemi (e così sarà effettivamente), l’uno più difficile
dell’altro, benché anche questi compiti siano più che altro uno sgombero di
macerie. Certo non si tratta di rovine materiali dovute a devastazioni di
pietre, calce e terreno, ma di rovine spirituali che questa guerra si lascerà
dietro di sé. Sarebbe molto importante che a quella
parte del mondo che rimarrà senza rancori e senza sete di vendetta si potesse
presentare una visione della storia purgata dalle menzogne più grossolane. Una siffatta visione storica, anche se
non potesse mai raggiungere l’oggettività perfetta, qualità impossibile nella
storia, si fonderebbe almeno sulla ragionevolezza senza prevenzioni e sul
sincero desiderio di verità.
Quanto ne siamo lontani, è noto a tutti, da qualsiasi parte abbiano combattuto e sofferto. È indubitabile che nessuna vittoria militare, per quanto possa essere decisiva, sarà mai in grado di debellare o mettere in fuga le forze della menzogna. Lo spirito della menzogna risorgerà immediatamente e impiegherà tutte le energie per erigere, sull’ancor fresca bruttura d’una mentalità bugiarda che infettò interi popoli, nuovi edifici di menzogne; la radio, la stampa e la scuola si metteranno presto a disposizione di quella pericolosa mentalità.
Come ovviare però al nuovo male se, ritornata la
pace, non si sarà ancora sconfitto il male vecchio?
Come si vede, anche volendo limitare il pensiero al
campo politico, si è tosto trascinati nella zona dei problemi etici e culturali.
Una visione sincera della storia del recente
passato è dunque una delle imprescindibili condizioni del risanamento della
civiltà, anche se paia impossibile portare gli uomini a una concezione unitaria
degli avvenimenti. Solo a poco a poco si vedrà se lo spirito di certi popoli
nella loro totalità fu sconvolto, dalle filosofie fatte in serie e loro
imposte, così profondamente da rendere impossibile la riparazione dei danni
causati. Certo però gli sforzi per guarire e ristabilire la civiltà danneggiata
non si possono prorogare fino a che questa questione sia risolta. Per quanto la
parte pensante dell’umanità sia profondamente convinta che fra cent’anni
nessuno parlerà di dottrine razziali politiche e di simili parti mostruosi
dello spirito umano, questa convinzione non avrà alcun valore pratico nel
prossimo avvenire. Prima di tutto si tratterà di agire con intervento immediato
su un processo morboso già molto avanzato.
E, per illuminare il compito da un altro lato, si farà ancora in tempo a tentare possibilmente la rieducazione delle generazioni ormai guaste?
In parecchi paesi si è avvelenata la gioventù per
anni e anni con teorie assurde e la si è umiliata ammaestrandola a occupazioni
del tutto sterili, di modo che si poté diffondere una quantità inaudita di
stupidità e di radicale mancanza di umanità. In questi paesi la nefanda
introduzione della promiscuità giovanile e l’esagerazione ed eccessiva stima
della cultura fisica hanno reso persino molti giovani inetti alla riproduzione
igienicamente sana. Non tratteremo qui ampiamente del pericolo d’una
sopravalutazione della cultura fisica. Che un pericolo ci sia, mi sembra
manifesto. I pregi degli esercizi fisici e particolarmente dello sport sano
sono superiori a ogni dubbio; ma non si deve esagerare la stima della cultura
fisica al punto da respingere l’educazione dello spirito, non senza menare
qualche botta all’“intellettualismo” o a qualche cosa cui si dà questo nome.
Guardiamoci dall’innalzare a ideale esempi simili a quello di Milone di Crotone
che sosteneva sul collo il peso d’un toro.
Soltanto l’avvenire mostrerà se con un’azione
pedagogica, sia pure svolta in modo eccellente, si possa ancora raggiungere
qualche cosa nel senso di umanizzare le generazioni traviate e corrotte; ma noi
non vogliamo abbandonare questa speranza.
Non tutti i guasti, ai quali si dovrà ovviare nel prossimo avvenire tra la giovane generazione, sono conseguenze dirette della guerra o di cattivi principi politici. Si deve tener conto del fatto universalmente diffuso che anche la vita privata è senza mèta, senza direttive precise. Questa mancanza incominciò a diffondersi già negli ultimi anni del secolo XIX e non trova una spiegazione sodisfacente nella diuturna crisi economica e nelle convulsioni sociali. Si manifesta in una diminuzione della voglia di eseguire lavori ordinati, in un disorientamento entro un dato ambiente e nell’assenza di un vero e fondato rispetto per i valori e gli ideali.
Ora, se ci rivolgiamo al problema dell’epurazione
dello spirito stesso, la quale sarà indispensabile quando esso debba
ridiventare un creatore di civiltà, è evidente che anzitutto si dovrà debellare
l’esagerazione del nazionalismo. L’ipernazionalismo come dogma e convinzione,
vale a dire come atteggiamento spirituale, lo si può combattere, vogliamo
sperare, anche con mezzi spirituali; sarebbe un enorme passo avanti se la media
degli uomini relativamente colti comprendesse la quasi universale
sopravalutazione ed errata interpretazione del concetto di comunità nazionale.
E non sono soltanto i fascisti e i loro amici ad avere una stima esagerata di
questo concetto, ma tutti noi l’abbiamo.
L’opinione, professata sempre con tanta insistenza, che le nazioni sono antichissimi prodotti del sangue e del suolo o per lo meno di circostanze storiche inevitabili e predestinate, si rivela errata alla più semplice considerazione storica. La conoscenza di questo errore è indipendente dalla convinzione o concezione politica e richiede soltanto un minimo di nozioni storiche e di capacità di giudizio. Certo in tutte le questioni che riguardano il concetto di nazione ci s’imbatte subito in un’antinomia, vale a dire una deduzione contraddittoria, un “è così, eppure non è così”. Questa interiore contraddizione si potrebbe eliminare affermando che le nazioni sono fenomeni antichissimi, le nazionalità invece, nel senso di carattere popolare e costume unitario, fenomeni molto recenti. Se nell’Antico Testamento si parla di gentes (“nazioni” o “popoli”), si può effettivamente mettere questa denominazione in rapporto col moderno concetto di nazione; in queste associazioni si deve però ricordare sempre che l’antichità, da Babilonia all’impero romano, non ha mai pensato in categorie etniche, come il carattere popolare, il costume popolare o la comunità linguistica, ma al posto di queste categorie si trova il concetto di dominio (regno, cioè comunità di signoria o di culto).
[….] Nessuno avrà
il coraggio di affermare che il mondo moderno nelle sue maggiori suddivisioni
di Stati e popoli sia maturo per un siffatto progresso morale. Eppure lo si
deve considerare un postulato impellente, essenziale per un risanamento
culturale, indispensabile persino per l’elemento più esteriore e superficiale
di questo risanamento, per la fiducia fra gli Stati. In verità non si vedono le
basi necessarie per ravvivare una vera e propria civiltà nei prossimi tempi. In
nessun luogo sono messe al bando l’avarizia, la violenza, la smania di dominio,
e il mondo va incontro al prossimo avvenire come una comunità di predoni avidi
di guadagno e di godimento. Per la civiltà occidentale le prospettive sono
ancora tenebrose.
Dovremmo dunque constatare la necessità di
adattarsi al suo ulteriore decadimento?
Niente affatto.
L’incrollabile risultato delle nostre
considerazioni dev’essere invece questo: anche se la comunità non è matura e
forse non sarà mai matura per un essenziale miglioramento dei suoi difetti,
ogni individuo nella sua minuscola personalità deve fare continui sforzi per
attuare almeno in piccola parte quell’indispensabile progresso nell’amore del
prossimo.
(J. Huizinga)
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