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Oggi, spinto dal solo desiderio di vedere un luogo
celebre per la sua altezza, sono salito sul più alto monte di questa regione,
chiamato giustamente Ventoso. Da molti anni mi ero proposto questa gita; come
sai, infatti, per quel destino che regola le vicende degli uomini, ho abitato
in questi luoghi sino dall’infanzia e questo monte, che a bell’agio si può
ammirare da ogni parte, mi è stato quasi sempre negli occhi. Ebbi finalmente
l’impulso di realizzare ciò che mi ripromettevo ogni giorno, soprattutto dopo
essermi imbattuto, mentre giorni fa rileggevo la storia romana di Livio, nel
passo in cui il re dei Macedoni Filippo – quello che fece guerra con Roma –
salì sull’Emo, monte della Tessaglia, e di lassù credette di vedere, secondo si
diceva, due mari, l’Adriatico e l’Eusino.
Partimmo da casa il giorno stabilito e a sera
eravamo giunti a Malaucena, alle falde del monte, verso settentrione. Qui ci
fermammo un giorno ed oggi, finalmente, con un servo ciascuno, abbiamo
cominciato la salita, e molto a stento. La mole del monte, infatti, tutta
sassi, è assai scoscesa e quasi inaccessibile, ma ben disse il poeta che ‘l’ostinata
fatica vince ogni cosa’. Il giorno lungo, l’aria mite, l’entusiasmo, il vigore,
l’agilità del corpo e tutto il resto ci favorivano nella salita; ci ostacolava
soltanto la natura del luogo.
In una valletta del monte incontrammo un vecchio pastore che tentò in mille modi di dissuaderci dal salire, raccontandoci che anche lui, cinquant’anni prima, preso dal nostro stesso entusiasmo giovanile, era salito fino sulla vetta, ma che non ne aveva riportato che delusione e fatica, il corpo e le vesti lacerati dai sassi e dai pruni, e che non aveva mai sentito dire che altri, prima o dopo di lui, avesse ripetuto il tentativo. Ma mentre ci gridava queste cose, a noi – così sono i giovani, restii ad ogni consiglio – il desiderio cresceva per il divieto. Allora il vecchio, accortosi dell’inutilità dei suoi sforzi, inoltrandosi un bel po’ tra le rocce, ci mostrò col dito un sentiero tutto erto, dandoci molti avvertimenti e ripetendocene altri alle spalle, che già eravamo lontani.
Lasciate presso di lui le vesti e gli oggetti che
ci potevano essere d’impaccio, tutti soli ci accingiamo a salire e ci
incamminiamo alacremente. Ma come spesso avviene, a un grosso sforzo segue
rapidamente la stanchezza, ed eccoci a sostare su una rupe non lontana.
Rimessici in marcia, avanziamo di nuovo, ma con più lentezza; io soprattutto,
che mi arrampicavo per la montagna con passo più faticoso, mentre mio fratello,
per una scorciatoia lungo il crinale del monte, saliva sempre più in alto. Io,
più fiacco, scendevo giù, e a lui che mi richiamava e mi indicava il cammino
più diritto, rispondevo che speravo di trovare un sentiero più agevole
dall’altra parte del monte e che non mi dispiaceva di fare una strada più
lunga, ma più piana.
Pretendevo così di scusare la mia pigrizia e mentre i miei compagni erano già in alto, io vagavo tra le valli, senza scorgere da nessuna parte un sentiero più dolce; la via, invece, cresceva, e l’inutile fatica mi stancava. Annoiatomi e pentito oramai di questo girovagare, decisi di puntare direttamente verso l’alto e quando, stanco e ansimante, riuscii a raggiungere mio fratello, che si era intanto rinfrancato con un lungo riposo, per un poco procedemmo insieme. Avevamo appena lasciato quel colle che già io, dimentico del primo errabondare, sono di nuovo trascinato verso il basso, e mentre attraverso la vallata vado di nuovo alla ricerca di un sentiero pianeggiante, ecco che ricado in gravi difficoltà.
Volevo differire la fatica del salire, ma la
natura non cede alla volontà umana, né può accadere che qualcosa di corporeo
raggiunga l’altezza discendendo. Insomma, in poco tempo, tra le risa di mio
fratello e nel mio avvilimento, ciò mi accadde tre volte o più. Deluso, sedevo
spesso in qualche valletta e lì, trascorrendo rapidamente dalle cose corporee
alle incorporee, mi imponevo riflessioni di questo genere:
Ciò che hai tante volte provato oggi salendo su questo monte, si ripeterà, per te e per tanti altri che vogliono accostarsi alla beatitudine; se gli uomini non se ne rendono conto tanto facilmente, ciò è dovuto al fatto che i moti del corpo sono visibili, mentre quelli dell’animo sono invisibili ed occulti. La vita che noi chiamiamo beata è posta in alto e stretta, come dicono, è la strada che vi conduce. Inoltre vi si frappongono molti colli, e di virtù in virtù dobbiamo procedere per nobili gradi; sulla cima è la fine di tutto, è quel termine verso il quale si dirige il nostro pellegrinaggio. Tutti vogliono giungervi, ma come dice Ovidio, “volere è poco; occorre volere con ardore per raggiungere lo scopo”.
Tu certo, se non ti sbagli anche in questo come in
tante altre cose, non solo vuoi, ma vuoi con ardore. Cosa dunque ti trattiene?
Nient’altro, evidentemente, se non la strada più pianeggiante
che passa per i bassi piaceri della terra e che a prima vista sembra anche più agevole;
ma quando avrai molto vagato, allora sarai finalmente costretto a salire sotto
il peso di una fatica malamente differita verso la vetta della beatitudine,
oppure a cadere spossato nelle valli dei tuoi peccati; e se mai – inorridisco
al pensiero – le tenebre e l’ombra della morte lì dovessero coglierti, dovrai
vivere una notte eterna in perpetui tormenti’.
Non so dirti quanto tale pensiero mi rinfrancasse anima e corpo per il resto del cammino. E potessi compiere con l’anima quel viaggio cui giorno e notte sospiro così come, superata finalmente ogni difficoltà, oggi l’ho compiuto col corpo!
E io non so se quello che in un batter d’occhio e senza
alcun movimento locale può realizzare l’anima di sua natura eterna e immortale,
debba essere più facile di quello che si deve invece compiere in una
successione di tempo, con il concorso di un corpo destinato a morire e sotto il
peso grave delle membra. C’è una cima più alta di tutte, che i montanari
chiamano il ‘Figliuolo’; perché non so dirti; se non fosse per antifrasi, come
talora si fa: sembra infatti il padre di tutti i monti vicini. Sulla sua cima
c’è un piccolo pianoro e qui, stanchi, riposammo.
E dal momento che tu hai ascoltato gli affannosi
pensieri che mi sono saliti nel cuore mentre salivo, ascolta, padre mio, anche
il resto e spendi, ti prego, una sola delle tue ore a leggere la mia avventura
di un solo giorno. Dapprima, colpito da quell’aria insolitamente leggera e da
quello spettacolo grandioso, rimasi come istupidito. Mi volgo d’attorno: le
nuvole mi erano sotto i piedi e già mi divennero meno incredibili l’Athos e
l’Olimpo nel vedere coi miei occhi, su un monte meno celebrato, quanto avevo
letto ed udito di essi.
Volgo lo sguardo verso le regioni italiane, laddove più inclina il mio cuore; ed ecco che le Alpi gelide e nevose, per le quali un giorno passò quel feroce nemico del nome di Roma rompendone, come dicono, le rocce con l’aceto, mi parvero, pur così lontane, vicine. Lo confesso: ho sospirato verso quel cielo d’Italia che scorgevo con l’anima più che con gli occhi e m’invase un desiderio bruciante di rivedere l’amico e la patria anche se, in quello stesso momento, provai un poco di vergogna per questo doppio desiderio non ancora virile; eppure non mi sarebbero mancate, per l’uno e per l’altro, giustificazioni confermate da grandi testimonianze.
Ma ecco entrare in me un nuovo pensiero che dai
luoghi mi portò ai tempi. ‘Oggi – mi dicevo – si compie il decimo anno da
quando, lasciati gli studi giovanili, hai abbandonato Bologna: Dio immortale,
eterna Saggezza, quanti e quali sono stati nel frattempo i cambiamenti della
tua vita! Così tanti che non ne parlo; del resto non sono ancora così sicuro in
porto da rievocare le trascorse tempeste. Verrà forse un giorno in cui potrò
enumerarle nell’ordine stesso in cui sono avvenute, premettendovi le parole di
Agostino: “Voglio ricordare le mie passate turpitudini, le carnali corruzioni
dell’anima mia, non perché le ami, ma per amare te, Dio mio”.
Troppi sono ancora gli interessi che mi producono incertezza
ed impaccio.
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