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Di una Ascesa (dello Spirito)....
[Se volesero lor signori ammirar il trapassato ingegno...]
Prosegue con:
E se talora mi accade di uscire per fare due passi
o per far visita al signore — e ciò raramente e per spontaneo affetto di dovere
e cortesia — ricevo e rendo il saluto con un chinar degli occhi ed un segno del
capo a destra e a sinistra, senza parole e da lontano, né m’imbatto in
seccature.
Per il resto c’è ben poco da dire e tutto già sai.
Ma perché tu non creda che, mutando la fortuna, come accade, io abbia mutato il
tenore della mia vita, sappi che sono qual ero. Tu conosci la misura del mio
vitto e del mio sonno: mai la fortuna mi costringerà ad accrescerla; è vero
piuttosto che la diminuisco di giorno in giorno e ormai sono giunto al punto di
non poterla diminuire che di pochissimo; insomma, avessi pure le ricchezze di
un re, esse non potrebbero certo scacciare la frugalità dalla mia mensa o
introdurre a forza i lunghi sonni nel mio letto. Mai il letto mi accoglie sano
e sveglio; mai mi corico se non sono ammalato e assonnato; e appena il sonno mi
lascia io lascio il letto, ché il sonno lo ritengo molto simile alla morte e il
letto alla tomba. Quando saremo presi dal sonno supremo, avremo tempo bastante
per giacere nella terra o sulla pietra.
Pensando a ciò ho il letto in orrore e non vi ritorno se non proprio quando la necessità mi costringe, ma appena sento soddisfatto il bisogno naturale del riposo, subito ne balzo fuori e mi ritiro nella vicina biblioteca come in una rocca. Questo mio deciso divorzio dal letto avviene di solito a mezzanotte, e perfino quando le notti sono brevi o io mi sia indugiato in una lunga veglia, mai è accaduto che a letto mi trovasse l’aurora. Insomma, cerco in tutti i modi che nulla venga a frapporsi a cure migliori, tranne quanto esige imperiosamente la necessità della natura: voglio dire il dormire, il cibarsi e una breve, onesta ricreazione che sia adatta a rinvigorire il corpo e a riconfortare la mente.
E siccome è inevitabile che essa cambi con il
cambiamento del tempo e del luogo, e tu non puoi conoscere le mie attuali
abitudini se non te le dicessi, eccole. Amo come al solito la solitudine e sono
seguace del silenzio tranne che con gli amici, tra i quali nessuno è più
loquace di me, e ciò, credo, perché ora la presenza di essi si è fatta più
scarsa, e la scarsezza, come sai, stimola il desiderio.
Spesso dunque compenso il silenzio di un anno con la loquacità di un giorno, ma quando gli amici se ne vanno ritorno muto; parlare col volgo o con persona cui non ti stringa affetto o non ti sia gradita per dottrina, la ritengo cosa fastidiosa. Seguendo poi il costume di coloro dei quali Seneca dice che provvedono non alla vita tutta ma alle singole parti di essa, pensando al sopravvenire dell’estate, ho pensato ad un luogo di villeggiatura quanto mai ameno e salubre. È chiamato Garegnano, a tre miglia dalla città, una campagna alta sulla pianura, cinta dovunque da sorgenti, non come quelle della nostra Sorga al di là delle Alpi, ma, modeste, pure limpide e belle, e che s’intrecciano e scorrono con tanti giri che appena si può capire donde vengano e dove vadano; così tra loro si congiungono, divergono e di nuovo si riuniscono e per mille giri riconfluiscono in un unico alveo che le diresti cori di ninfe che con volteggi intessono una danza virginea.
Ora io mi trovo qui, e ciò che faccio te l’ho
detto e lo sapresti anche se tacessi. La mia vita continua come al solito, se
non che, qui in campagna, ho maggior libertà. Sarebbe troppo lunga dirti quanti
fastidi cittadini eviti stando qui, di quali agresti piaceri io goda, e come
gli umili abitanti del villaggio facciano a gara per recarmi i frutti degli
alberi, i fiori dei prati, i pesci dei fiumi, le anatrelle delle paludi, gli
uccelli dei nidi, i giovani ricci dei campi e leprotti, caprioli, cinghialetti.
C’è qui un nuovo ma nobile monastero certosino, dove a ogni ora posso cogliere
il frutto di una celeste soavità. Avevo pensato di chiudermi dentro le mura di
questo convento e non ti so dire se ciò sarebbe stato più gradito a me o a quei
santissimi monaci; e l’avrei fatto senza temere che la mia presenza tornasse
loro a disagio, ma riflettendo che io non potevo fare a meno dei servi e dei
cavalli (tale è ancora il mio modo di vivere), temetti che la volgarità e lo
strepito dei servi disturbassero il silenzio di quegli uomini religiosi.
Preferii quindi abitare in una casa loro vicina dove, presente nell’impegno, assente nel disturbo, prendo parte ogni volta che lo desidero agli atti devoti di quella pia famiglia. La soglia della loro sacra casa è sempre aperta per me, dalla quale stanno lontani invece i miei servi e i forestieri, se non quei pochi che la qualità di vita rende degni di tale ospizio.
Ché in realtà bisogna cercar conforto nel prossimo
in modo tale che non sia di fastidio proprio a colui in cui cercavi conforto al
tuo fastidio: cosa che invece facciamo in molti perché, pensando troppo a noi
stessi, non ci curiamo del prossimo.
Qui dunque, perché tu sappia tutto, nulla provo
d’amaro tranne la mancanza dei vecchi amici, dei quali il mio destino e la loro
virtù mi aveva fatto ricchissimo, e povero prima la morte ed ora la lontananza.
Perché se è vero che essa separa i volti e non gli animi, pure quello della
presenza fisica dell’amico non è lieve desiderio, il quale in me sarebbe pago
se la fortuna mi restituisse te e il nostro Socrate, cosa che ho sperato a
lungo e, lo confesso, auspicato.
Ma non voglio, per giustificare me, accusare voi:
ma se continuerete nel vostro proposito, dal momento che non vi è altro
rimedio, mi conforterò con la vostra presenza immaginaria e mi accontenterò
delle conversazioni non letterarie ed erudite, ma umili e devote, di questi
santi e semplici amici di Cristo, con i quali mi piace raramente condividere la
mensa, spesso conversare, costantemente godere del loro affetto.
Infine, dalle loro preghiere, spero aiuto e conforto tanto alla mia vita quanto alla mia morte. Alle quali ti prego di aggiungere le tue perché lo Spirito Santo, di cui oggi ricorre la festività, infiammi questo cuore gelido e tenebroso.
Francesco Petrarca
Addio.
Aveva comprato una casetta nei dintorni di Vaucluse, la passione mondana gli era un po’ passata, quella per Laura l’aveva sfogata in versi, e ora preferiva una vita più semplice e più raccolta. Aveva per compagni due servitori, un cane, la natura e i libri. Lanciò la moda dell’alpinismo scalando - forse per primo - il monte Ventoux. Pescava. Faceva del giardinaggio. Ma soprattutto inondava il mondo di suoi scritti (non di messaggini...) nel più puro stile ciceroniano. Latinizzava anche i nomi dei destinatari, chiamandone uno Lelio, un altro Scipione, un altro Ovidio. Li spronava a frugare gli archivi alla ricerca di testi classici. Quando sapeva che n’era stato trovato uno, non aveva pace finché non se n’era fatto mandare una copia o l’originale che poi copiava da sé. Dalla Grecia ricevette un Omero.
Spasimò per un Euripide. Scriveva, pur di
scrivere, anche ai morti: a Tito Livio, a Virgilio eccetera... Questa per la
letteratura classica era la sua vera passione... Nel 51’ era di nuovo a
Vaucluse a scrivere un piccolo saggio, ‘De
vita solitaria’. E per la prima volta lo troviamo impegnato in una polemica
stizzosa che gli procurò parecchi nemici. Il pretesto glielo fornì la cattiva
salute di Clemente VI, il poeta gli scrisse esortandolo a diffidare dei dottori
che sono un branco di ciarlatani e basta. Era il prologo di un libello che poco
dopo compose contro di loro, così acrimonioso da farci sospettare che sotto ci
fosse un caso personale, forse non stava bene nemmeno lui... in loro
compagnia...
Prima di morire, in una lettera, si era augurato che la ‘falce’ della Luna e non certo il martello della inutile guerra lo sorprendesse mentre leggeva o scriveva. Fu esaudito. Lo trovarono con la testa reclinata su un libro. Nel testamento lasciava 50 fiorini per comprare un cappotto e una coperta a Boccaccio, che moriva di freddo e di fame...
Lui si chiama Petrarca...
...Ma, oltre che un modello di poesia, Petrarca ne
dettò uno di vita. Egli è un personaggio assolutamente nuovo: il grande
umanista del Rinascimento. Non è vero che fosse solo un cinico e frigido calcolatore,
come qualcuno lo ha descritto, intento solo al proprio tornaconto, al successo
e alla carriera, ebbe per il vero i suoi tormenti, le sue angosce e
malinconie... La sua serenità era più nei suoi versi e nelle prose che nella
sua coscienza e nei suoi sentimenti o gli obblighi verso coloro che se pur
amava per quella gloria cui anelava, in realtà forse...
Tuttavia, a differenza dell’uomo medievale, era
interiormente libero. Per lui il mondo non era affatto un ‘sogno di Dio’, ma
una cosa ben solida; se non si impegnò o meglio impegolò nelle tante
vicissitudini del mondo con tutti i suoi intrighi (pur essendo stato un ottimo
ambasciatore...) è perché, a differenza di Dante, i suoi interessi furono solo
di cultura… E nella cultura egli vedeva un sacerdozio fine a se stesso, che esentava
da qualunque altro impegno.
Per un manoscritto raro egli avrebbe sacrificato non solo la politica, ma perfino la sua amata. Nel’ 42, quando era già un personaggio altolocato e alla moda, si mise umilmente a studiare il greco col monaco calabrese Barlaam, cui per riconoscenza fece assegnare un Vescovato.
Non si consolò mai di non sapere quella lingua, e
pagò di tasca propria Leonzio Pilato per tenere dei corsi a Firenze in modo che
potesse imparare a tradurre in latino l’Iliade e l’Odisea. Quest’uomo che non
avrebbe rischiato una multa per un Papa o per un Imperatore, si sarebbe giocato
l’anima per un testo di Omero. Era vanitoso ma non meschino fino a tradurre una
novella di Boccaccio del suo ‘Decamerone’ in latino, affinché i letterati di tutto
il mondo potessero gustarla (purgata) della sua volgarità, così disse.... Purtroppo
fornì anche il modello di una cortigianeria (sottilmente simile al suo
altolocato Decamerone tradotto...) destinata a restare nel costume della ‘intellighenzia’
nazionale, anche quando questa ebbe perso ciò che lui possedeva per riscattarla:
IL TALENTO...
(I.
Montanelli)
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