CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

lunedì 7 marzo 2022

TRIUMPHUS MORTIS (medita e spera!) (43)

 









Precedenti capitoli: 


Circa la cultura (42/1) 


Prosegue ancora il fato: 


ovvero,


cagionando sopra la morte (44) 







a guisa d’un soave e chiaro lume

cui nutrimento a poco a poco manca,

tenendo al fine il suo caro costume.

Pallida no ma più che neve bianca

che senza venti in un bel colle fiocchi,

parea posar come persona stanca:

quasi un dolce dormir ne’ suo’ belli occhi,

sendo lo spirto già da lei diviso,

era quel che morir chiaman gli sciocchi:

morte bella parea nel suo bel viso.



Quella leggiadra e gloriosa donna

Ch’è oggi ignudo spirto e poca terra

e fu già di valor alta colonna,

tornava con onor da la sua guerra,

allegra, avendo vinto il gran nemico,

che con suo’ ingegni tutto ’l mondo atterra,

non con altr’ arme che col cor pudico

e d’un bel viso e de’ pensieri schivi,

d’un parlar saggio e d’ onestate amico.

Era miracol novo a veder ivi

rotte l’ arme d’ Amore, arco e saette,

e tal morti da lui, tal presi e vivi.

La bella donna e le compagne elette

tornando da la nobile vittoria

in un bel drappelletto ivan ristrette;

poche eran, perché rara è vera gloria,

ma ciascuna per sé parea ben degna

di poema chiarissimo e d’ istoria;

era la lor vittoriosa insegna

in campo verde un candido ermellino,

ch’oro fino e topazi al collo tegna;

non uman veramente, ma divino

lor andar era, e lor sante parole:

beato s’è qual nasce a tal destino!

Stelle chiare parcano, in mezzo un sole

che tutte ornava e non togliea lor vista,




di rose incoronate e di viole.

E come gentil cor onore acquista,

cosi venia quella brigata allegra,

quando vidi un’ insegna oscura e trista;

ed una donna involta in veste negra,

con un furor qual io non so se mai

al tempo de’ giganti fusse a Flegra,

si mosse e disse: ‘O tu, donna, che vai

di gioventute e di bellezze altera,

e di tua vita il termine non sai,

io son colei che si importuna e fera

chiamata son da voi, e sorda e cieca

gente, a cui si fa notte innanzi sera;

io ò condotto al fin la gente greca

e la troiana, a l’ ultimo i Romani,

con la mia spada la qual punge e seca,

e popoli altri barbareschi e strani;

e giugnendo quand’ altri non m’ aspetta

ò interrotti infiniti penser vani.

Or a voi, quando il viver più diletta,

drizzo ’l mio corso innanzi che Fortuna

nel vostro dolce qualche amaro metta’.

‘In costor non ài tu ragione alcuna

ed in me poca: solo in questa spoglia’

rispose quella che fu nel mondo una.

‘Altri so che n’ avrà più di me doglia,

la cui salute dal mio viver pende;

a me fia grazia che di qui mi scioglia’.




Qual è chi ’n cosa nova gli occhi intende

e vede ond’ al principio non s’ accorse,

di ch’ or si meraviglia e si riprende,

tal si fe’ quella fera, e poi che ’n forse

fu stata un poco: ‘Ben le riconosco,

disse e so quando ’l mio dente le morse’

Poi col ciglio men torbido e men fosco

disse: ‘Tu che la bella schiera guidi,

pur non sentisti mai del mio tosco;

se del consiglio mio punto ti fidi,

ché sforzar posso, egli è pur il migliore

fuggir vecchiezza e’ suoi molti fastidi;

i’ son disposta a farti un tal onore

qual altrui far non soglio, e che tu passi

senza paura e senz’ alcun dolore’.

‘Come piace al Signor che ’n cielo stassi

ed indi regge e tempra l’ universo,

farai di me quel che degli altri fassi

Così rispose; ed ecco da traverso

piena di morti tutta la campagna,

che comprender noi po prosa né verso:

da India, dal Cataio, Marrocco e Spagna

el mezzo avea già pieno e le pendici

per molti tempi quella turba magna.

I vi eran quei che fur detti felici,

pontefici, regnanti, imperadori:




or sono ignudi, miseri e mendici.

U’ sono or le ricchezze? U’ son gli onori?

e le gemme e gli scettri e le corone,

e le mitre e i purpurei colori?

Miser chi speme in cosa mortai pone

(ma chi non ve la pone?), e se si trova

alla fine ingannato è ben ragione.

O ciechi, e ’l tanto affaticar che giova?

Tutti tornate a la gran madre antica

e ’l vostro nome a pena si ritrova.

Pur de le mille è un’ utile fatica,

che non sian tutte vanità palesi?

Chi intende a’ vostri studii, sì mel dica.

Che vale a soggiogar gli altrui paesi

e tributarie far le genti strane

co gli animi al suo danno sempre accesi?

Dopo l’ imprese perigliose e vane

e col sangue acquistar terre e tesoro,

vie più dolce si trova l’acqua e ’l pane

e ’l legno e ’l vetro che le gemme e l’ oro.

Ma per non seguir più si lungo tema,

tempo è ch’ io tomi al mio primo lavoro.

I’ dico che giunta era l’ora estrema

di quella breve vita gloriosa

e ’l dubbio passo di che ’l mondo trema,

ed a vederla un’altra valorosa

schiera di donne, non dal corpo sciolta,




per saper s’ esser po Morte pietosa.

Quella bella compagna era ivi accolta

pur a vedere e contemplare il fine

che far convensi, e non più d’ una volta:

tutte sue amiche e tutte eran vicine.

Allor di quella bionda testa svelse

Morte co la sua mano un aureo crine;

cosi del mondo il più bel fiore scelse,

non già per odio, ma per dimostrarsi

più chiaramente ne le cose eccelse.

Quanti lamenti lagrimosi sparsi

fur ivi, essendo que’ belli occhi asciutti

per ch’ io lunga stagion cantai ed arsi!

E fra tanti sospiri e tanti lutti

tacita, e sola lieta, si sedea

del suo ben viver già cogliendo i frutti.

‘Vattene in pace, o vera mortal Dea!’

diceano; e tal fu ben, ma non le valse

contra la Morte in sua ragion sì rea.

Che fia de l’ altre se questa arse ed alse

in poche notti e si cangiò più volte?

O umane speranze cieche e false!

Se la terra bagnar lagrime molte

per la pietà di quella alma gentile,

chi ’l vide, il sa; tu ’l pensa che l’ ascolte.

L’ora prima era, il dì sesto d’aprile,

che già mi strinse, ed or, lasso, mi sciolse:

come Fortuna va cangiando stile!

Nessun di servitù già mai si dolse




né di morte quant’ io di libertate

e de la vita, ch’ altri non mi tolse.

Debito al mondo e debito a l’ etate

cacciar me innanzi, ch’ ero giunto in prima,

né a lui torre ancor sua dignitate.

Or qual fusse ’l dolor qui non si stima,

ch’a pena oso pensarne, non eh, io sia

ardito di parlarne in versi o ’n rima.

‘Virtù more, bellezza e leggiadria!’

le belle donne intorno al casto letto

triste diceano ‘ornai di noi che fia?

chi vedrà mai in donna atto perfetto?

chi udirà il parlar di saver pieno

e ’l canto pien d’angelico diletto?’

Lo spirto, per partir di quel bel seno

con tutte sue virtuti in sé romito,

fatto avea in quella parte il ciel sereno.

Nessun degli avversari fu sì ardito

ch’ apparisse già mai con vista oscura

fin che Morte il suo assalto ebbe fornito.

Poi che deposto il pianto e la paura

pur al bel volto era ciascuna intenta,

per desperazion fatta sicura,

non come fiamma che per forza è spenta,

ma che per se medesma si consume,

se n’andò in pace l’anima contenta,




a guisa d’un soave e chiaro lume

cui nutrimento a poco a poco manca,

tenendo al fine il suo caro costume.

Pallida no ma più che neve bianca

che senza venti in un bel colle fiocchi,

parea posar come persona stanca:

quasi un dolce dormir ne’ suo’ belli occhi,

sendo lo spirto già da lei diviso,

era quel che morir chiaman gli sciocchi:

morte bella parea nel suo bel viso.


(Prosegue... in stile libero...)







Nessun commento:

Posta un commento