Precedenti capitoli:
Circa la cultura (42/1)
Prosegue ancora il fato:
ovvero,
cagionando sopra la morte (44)
a guisa d’un soave e chiaro lume
cui nutrimento a poco a poco manca,
tenendo al fine il suo caro costume.
Pallida no ma più che neve bianca
che senza venti in un bel colle fiocchi,
parea posar come persona stanca:
quasi un dolce dormir ne’ suo’ belli occhi,
sendo lo spirto già da lei diviso,
era quel che morir chiaman gli sciocchi:
morte bella parea nel suo bel viso.
Quella leggiadra e
gloriosa donna
Ch’è oggi ignudo spirto e
poca terra
e fu già di valor alta
colonna,
tornava con onor da la sua
guerra,
allegra, avendo vinto il
gran nemico,
che con suo’ ingegni tutto
’l mondo atterra,
non con altr’ arme che col
cor pudico
e d’un bel viso e de’
pensieri schivi,
d’un parlar saggio e d’
onestate amico.
Era miracol novo a veder
ivi
rotte l’ arme d’ Amore,
arco e saette,
e tal morti da lui, tal
presi e vivi.
La bella donna e le
compagne elette
tornando da la nobile
vittoria
in un bel drappelletto
ivan ristrette;
poche eran, perché rara è
vera gloria,
ma ciascuna per sé parea
ben degna
di poema chiarissimo e d’
istoria;
era la lor vittoriosa
insegna
in campo verde un candido
ermellino,
ch’oro fino e topazi al
collo tegna;
non uman veramente, ma
divino
lor andar era, e lor sante
parole:
beato s’è qual nasce a tal
destino!
Stelle chiare parcano, in
mezzo un sole
che tutte ornava e non
togliea lor vista,
di rose incoronate e di viole.
E come gentil cor onore
acquista,
cosi venia quella brigata
allegra,
quando vidi un’ insegna
oscura e trista;
ed una donna involta in
veste negra,
con un furor qual io non
so se mai
al tempo de’ giganti fusse
a Flegra,
si mosse e disse: ‘O tu,
donna, che vai
di gioventute e di
bellezze altera,
e di tua vita il termine
non sai,
io son colei che si
importuna e fera
chiamata son da voi, e
sorda e cieca
gente, a cui si fa notte
innanzi sera;
io ò condotto al fin la
gente greca
e la troiana, a l’ ultimo
i Romani,
con la mia spada la qual
punge e seca,
e popoli altri barbareschi
e strani;
e giugnendo quand’ altri
non m’ aspetta
ò interrotti infiniti
penser vani.
Or a voi, quando il viver
più diletta,
drizzo ’l mio corso
innanzi che Fortuna
nel vostro dolce qualche
amaro metta’.
‘In costor non ài tu
ragione alcuna
ed in me poca: solo in
questa spoglia’
rispose quella che fu nel
mondo una.
‘Altri so che n’ avrà più
di me doglia,
la cui salute dal mio
viver pende;
a me fia grazia che di qui
mi scioglia’.
Qual è chi ’n cosa nova gli occhi intende
e vede ond’ al principio
non s’ accorse,
di ch’ or si meraviglia e
si riprende,
tal si fe’ quella fera, e
poi che ’n forse
fu stata un poco: ‘Ben le
riconosco,
disse e so quando ’l mio
dente le morse’
Poi col ciglio men torbido
e men fosco
disse: ‘Tu che la bella
schiera guidi,
pur non sentisti mai del
mio tosco;
se del consiglio mio punto
ti fidi,
ché sforzar posso, egli è
pur il migliore
fuggir vecchiezza e’ suoi
molti fastidi;
i’ son disposta a farti un
tal onore
qual altrui far non
soglio, e che tu passi
senza paura e senz’ alcun
dolore’.
‘Come piace al Signor che
’n cielo stassi
ed indi regge e tempra l’
universo,
farai di me quel che degli
altri fassi
Così rispose; ed ecco da
traverso
piena di morti tutta la
campagna,
che comprender noi po
prosa né verso:
da India, dal Cataio,
Marrocco e Spagna
el mezzo avea già pieno e
le pendici
per molti tempi quella
turba magna.
I vi eran quei che fur
detti felici,
pontefici, regnanti,
imperadori:
or sono ignudi, miseri e mendici.
U’ sono or le ricchezze? U’
son gli onori?
e le gemme e gli scettri e
le corone,
e le mitre e i purpurei
colori?
Miser chi speme in cosa
mortai pone
(ma chi non ve la pone?),
e se si trova
alla fine ingannato è ben
ragione.
O ciechi, e ’l tanto
affaticar che giova?
Tutti tornate a la gran
madre antica
e ’l vostro nome a pena si
ritrova.
Pur de le mille è un’
utile fatica,
che non sian tutte vanità
palesi?
Chi intende a’ vostri
studii, sì mel dica.
Che vale a soggiogar gli
altrui paesi
e tributarie far le genti
strane
co gli animi al suo danno
sempre accesi?
Dopo l’ imprese perigliose
e vane
e col sangue acquistar
terre e tesoro,
vie più dolce si trova l’acqua
e ’l pane
e ’l legno e ’l vetro che
le gemme e l’ oro.
Ma per non seguir più si
lungo tema,
tempo è ch’ io tomi al mio
primo lavoro.
I’ dico che giunta era l’ora
estrema
di quella breve vita
gloriosa
e ’l dubbio passo di che ’l
mondo trema,
ed a vederla un’altra
valorosa
schiera di donne, non dal
corpo sciolta,
per saper s’ esser po Morte pietosa.
Quella bella compagna era
ivi accolta
pur a vedere e contemplare
il fine
che far convensi, e non
più d’ una volta:
tutte sue amiche e tutte
eran vicine.
Allor di quella bionda
testa svelse
Morte co la sua mano un
aureo crine;
cosi del mondo il più bel
fiore scelse,
non già per odio, ma per
dimostrarsi
più chiaramente ne le cose
eccelse.
Quanti lamenti lagrimosi
sparsi
fur ivi, essendo que’
belli occhi asciutti
per ch’ io lunga stagion
cantai ed arsi!
E fra tanti sospiri e
tanti lutti
tacita, e sola lieta, si
sedea
del suo ben viver già
cogliendo i frutti.
‘Vattene in pace, o vera
mortal Dea!’
diceano; e tal fu ben, ma
non le valse
contra la Morte in sua
ragion sì rea.
Che fia de l’ altre se
questa arse ed alse
in poche notti e si cangiò
più volte?
O umane speranze cieche e
false!
Se la terra bagnar lagrime
molte
per la pietà di quella
alma gentile,
chi ’l vide, il sa; tu ’l
pensa che l’ ascolte.
L’ora prima era, il dì
sesto d’aprile,
che già mi strinse, ed or,
lasso, mi sciolse:
come Fortuna va cangiando
stile!
Nessun di servitù già mai
si dolse
né di morte quant’ io di libertate
e de la vita, ch’ altri
non mi tolse.
Debito al mondo e debito a
l’ etate
cacciar me innanzi, ch’
ero giunto in prima,
né a lui torre ancor sua
dignitate.
Or qual fusse ’l dolor qui
non si stima,
ch’a pena oso pensarne,
non eh, io sia
ardito di parlarne in
versi o ’n rima.
‘Virtù more, bellezza e
leggiadria!’
le belle donne intorno al
casto letto
triste diceano ‘ornai di
noi che fia?
chi vedrà mai in donna
atto perfetto?
chi udirà il parlar di
saver pieno
e ’l canto pien d’angelico
diletto?’
Lo spirto, per partir di
quel bel seno
con tutte sue virtuti in
sé romito,
fatto avea in quella parte
il ciel sereno.
Nessun degli avversari fu
sì ardito
ch’ apparisse già mai con
vista oscura
fin che Morte il suo
assalto ebbe fornito.
Poi che deposto il pianto
e la paura
pur al bel volto era
ciascuna intenta,
per desperazion fatta
sicura,
non come fiamma che per
forza è spenta,
ma che per se medesma si
consume,
se n’andò in pace l’anima contenta,
a guisa d’un soave e chiaro lume
cui nutrimento a poco a
poco manca,
tenendo al fine il suo
caro costume.
Pallida no ma più che neve
bianca
che senza venti in un bel
colle fiocchi,
parea posar come persona
stanca:
quasi un dolce dormir ne’
suo’ belli occhi,
sendo lo spirto già da lei
diviso,
era quel che morir chiaman
gli sciocchi:
morte bella parea nel suo
bel viso.
(Prosegue... in stile libero...)
Nessun commento:
Posta un commento