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mondi perduti (4)
Nel cuore dell’Asia centrale, puntellata dalle più
alte montagne della terra, svetta l’immensa fortezza naturale del Tibet. La sua
straordinaria altitudine - quasi cinque
chilometri su verso il cielo - spinse i viaggiatori vittoriani a definirlo ‘il
tetto del mondo’.
Emilio Motta, in quegli stessi anni, si trovava in
Svizzera, propriamente nella propria mansarda scrutava come ogni mattina, più
precisamente dal piccolo ma confortevole sottotetto, le imponenti Cime, avrebbe
sempre voluto violarne la Vetta, un po’ per amor di Fuga, un po’ per
ripercorrere - anche storicamente - gli antichi tormenti di tutte le genti che
scovava nei propri annali storici, ed esiliati li immaginava uniti alla stessa
sua corda, e da buona Guida condurli verso la fuga.
Per questo più li ammirava e animava di nuova linfa e Vita immaginandoli ‘panorami’ congiunti alle proprie vallate, e più ne scrutava la geologica geografia fin sulle inviolate alte Cime quali Cattedrali d’un credo mai scomparso. Dai Boschi li scrutata uno ad uno lenti ed infiniti dimorare come Dèi rinati, Selve quali schiere di genti rivivere e procedere al Passo ricongiunto verso la bellezza della Terra che il buon Dio concede loro qual promessa d’una Natura viva… e da ravvivare ancora…
La natura non ha sistema, essa ha vita, essa è
vita e successione da un centro ignoto verso un confine non conoscibile. La
contemplazione della natura è perciò senza fine: si può procedere nella sua
suddivisione nei più piccoli particolari, oppure seguirne nell’insieme le
tracce nelle dimensioni più estese e profonde. L’idea della metamorfosi è un
dono che viene dall’alto, molto solenne, ma al tempo stesso molto pericoloso.
Essa conduce all’assenza di forma; distrugge il sapere, lo disgrega. È simile
alla ‘vis centrifuga’ e si perderebbe nell’infinito se non avesse un
contrappeso: voglio dire l’istinto di specificazione, la tenace capacità di
persistere di ciò che una volta è divenuto realtà. È come una ‘vis centripeta’
che nessuna esteriorità può danneggiare nel suo fondamento più profondo.
Ed una mattina mentre ciò andava meditando ebbe a ricevere una inattesa Lettera. L’ufficiale addetto di Posta corse immediatamente presso il domicilio dello storico nonché ricercatore, giacché dedusse dal Regio Timbro che fosse di notevole importanza…
Egregio Signor Motta
Le parrà cosa alquanto strana che dalle remote
regioni della Svezia ho ritrovato le sue argute riflessioni accompagnate da
appunti di notevole interesse storico.
Provo orrore e umano risentimento circa la Storia
così soffocata e costretta nel breve perimetro di cotal confini, e le confesso
che la mia patria non è e sarà da meno.
Per questo motivo principiato dall’amor di ugual
medesima cultura circa la Verità vorrò sindacarne anche la Dottrina e le fonti
in cui la Geologia ha contribuito a inciderne il Pensiero, dacché come ben vede
e vedrà esiste ancora una vasta regione inviolata ed ove desumo e presumo ivi
ricolma di Tomi i quali confermano quanto da lei non detto.
Non mio l’intento di discutere un unico Principio
semmai confermare che l’Uno conteso in inutili accenti e toni presiede una
genetica trascurata e priva di tutti quegli elementi i quali ne avvelenano la
Dottrina d’ un’antico Profeta.
Questo un mio segreto Pensiero giacché ho la ferma
volontà di renderLa partecipe del mio Viaggio, ed ove so’ fin d’ora, la sua
collaborazione, preziosa collaborazione, sarà di una utilità nella conferma di
una Idea che assieme possiamo disquisire…
Certo della sua profonda comprensione rinnovo
l’invito circa il mio Viaggio il quale se pur periglioso potrebbe convalidare
talune teorie…
Stoccolma 15 Novembre 1905
Suo Sven Hedin
Il Motta si sedette quasi tremante vicino alla finestra, mai avrebbe pensato che una eccelso personaggio, figura importante e di rilievo nel tempo delle grandi esplorazioni, gli avrebbe offerto siffatta proposta. Quindi rimuginò se qualcuno lo avesse raccomandato, magari qualche parente di tutte le schiere che con la sua penna e ricerca andava rianimando di nuova linfa, probabilmente fra tutti quelli doveva pur esserci, non visto ed ignoto, qualche illustre avo dedotto dalla pianta della genealogica discendenza che andava spesso studiando.
Oppure è tutto frutto della…
Natura!
Ne siamo circondati e avvolti, incapaci di
uscirne, incapaci di penetrare più addentro in lei. Non richiesta, e senza
preavviso, essa ci afferra nel vortice della sua danza e ci trascina seco,
finché, stanchi, non ci sciogliamo dalle sue braccia.
Crea forme eternamente nuove; ciò che esiste non è
mai stato; ciò che fu non ritorna – tutto è nuovo, eppur sempre antico. Viviamo
in mezzo a lei, e le siamo stranieri.
Essa parla continuamente con noi, e non ci
tradisce il suo segreto. Agiamo continuamente su di lei, e non abbiamo su di
lei nessun potere. Sembra aver puntato tutto sull’individualità, ma non sa che
farsene degli individui.
Costruisce sempre e sempre distrugge: la sua fucina è inaccessibile. Vive tutta nei suoi figli; ma la madre dov’è? Unica vera artista, essa va dalla più semplice materia ai contrasti più grandi e, apparentemente senza sforzo, alla perfezione assoluta – alla determinatezza più precisa, eppure delicata.
Ognuna delle sue opere ha la sua propria essenza,
ognuna delle sue manifestazioni il concetto più isolato; eppure, formano un
Tutto unico.
Recita uno spettacolo; se lei stessa lo veda, non
sappiamo; eppure lo recita per noi, spettatori seduti in un angolo.
C’è in lei una vita eterna, un eterno divenire, un
moto perenne; eppure, non fa un passo avanti. Si trasforma di continuo, non
conosce un attimo di quiete. Ignora l’immobilità; colpisce di maledizione
l’indugiare.
È salda.
Il suo passo è misurato, rare le sue eccezioni,
invariabili le sue leggi. Ha pensato e non cessa mai di pensare; non come
l’uomo, tuttavia, ma come natura. Si è riservata un’intelligenza propria, che
abbraccia ogni cosa e di cui nessuno può carpirle il segreto.
Gli uomini sono tutti in lei, e lei in tutti.
Gioca da amica con ciascuno di noi, tanto più
soddisfatta quanto più la vinciamo. Con molti il suo giuoco è tanto segreto,
che finisce prima ch’essi se ne accorgano. Anche la cosa più innaturale è
natura. Chi non la vede dappertutto, non la riconosce in nessun luogo.
Ama se stessa e tiene fissi su di sé innumerevoli
occhi e innumerevoli cuori. Si è moltiplicata per godere di sé. Crea sempre
nuovi goditori, mai sazia di offrirsi. Si compiace d’illudere. Punisce come la
più severa tiranna chi distrugge l’illusione in sé o negli altri; stringe al
cuore come un figlio chi le si abbandona con fiducia.
Innumerevoli sono i suoi figli.
Avara, propriamente, non è con nessuno; ma ha i
suoi beniamini, cui prodiga molto e molto sacrifica. Ha preso sotto la sua
protezione ciò ch’è grande. Suscita dal nulla le sue creature, e non dice loro
né da dove vengono né dove vanno.
Devono soltanto correre.
La strada, la conosce lei.
Ha pochi congegni, ma sempre operanti, mai inerti,
sempre multiformi. Il dramma ch’essa recita è sempre nuovo, perché crea
spettatori sempre nuovi. La vita è la sua più bella scoperta; la morte, il suo
stratagemma per ottenere molta vita.
Avvolge l’uomo nella tenebra e lo sprona
continuamente alla luce. Lo inchioda, torpido e greve, alla terra; ma lo
scrolla sempre a nuove imprese. Suscita bisogni perché ama il moto: il miracolo
è che ne ottenga tanto con mezzi così limitati.
Ogni bisogno è un beneficio; presto appagato, presto risorgente. Se ne elargisce uno di più, è una nuova fonte di piacere; ma, ben presto, ristabilisce l’equilibrio.
A ogni momento spicca il balzo verso la mèta più
lontana; a ogni momento è alla mèta. È la vanità in persona; ma non per noi,
agli occhi dei quali si è fatta la cosa più importante.
Permette a ogni bambino di baloccarsi con lei, a
ogni pazzo di giudicarla, a migliaia e migliaia d’inciampare in essa e non
vedere nulla; ma trae piacere da tutti, trova il suo tornaconto in ciascuno.
Alle sue
leggi si ubbidisce anche quando ci si oppone; si collabora con lei anche quando
si pretende di lavorarle contro. Trasforma in beneficio tutto ciò che dà,
perché lo rende a priori indispensabile.
Indugia per farsi desiderare; fugge via perché non
se ne diventi mai sazi. Non ha linguaggio né discorso, ma crea lingue e cuori
attraverso i quali parla e sente.
La sua corona è l’amore.
Solo per mezzo suo ci avviciniamo a lei.
Essa scava abissi fra le sue creature; ma tutte
aspirano a riunirsi. Ha isolato ogni cosa, per ricongiungerle tutte. Con pochi
sorsi alla coppa dell’amore, rende lieve il tormento di tutta una vita.
È tutto.
Si premia e si punisce, si diletta e si tormenta.
È rude e dolce, piacevole e terribile, debole e
onnipotente. In essa, tutto è sempre lì. Non conosce passato né avvenire; la
sua eternità è il presente.
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