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Mentre salivamo vidi che il mio maestro osservava le finestre che
davano luce alla scala. Stavo probabilmente diventando abile come lui, perché
mi avvidi subito che la loro disposizione difficilmente avrebbe consentito a
qualcuno di raggiungerle. D’altra parte neppure le finestre che si aprivano nel
refettorio parevano facilmente raggiungibili, dato che sotto di esse non vi
erano mobili di sorta.
Arrivati al sommo della scala entrammo, per il torrione orientale, allo
scriptorium e quivi non potei trattenere un grido di ammirazione. Il secondo
piano non era bipartito come quello inferiore e si offriva quindi ai miei
sguardi in tutta la sua spaziosa immensità. Le volte, curve e non troppo alte,
sostenute da robusti pilastri, racchiudevano uno spazio soffuso di bellissima
luce, perché tre enormi finestre si aprivano su ciascun lato maggiore, mentre
cinque finestre minori traforavano ciascuno dei cinque lati esterni di ciascun
torrione; otto finestre alte e strette, infine, lasciavano che la luce entrasse
anche dal pozzo ottogonale interno….
… Vidi altre volte e in altri luoghi molti scriptoria, ma nessuno in
cui così luminosamente rifulgesse, nelle colate di luce fisica che facevano
risplendere l’ambiente, lo stesso principio spirituale che la luce incarna, la
claritas, fonte di ogni bellezza e sapienza, attributo inscindibile di quella
proporzione che la sala manifestava…. Quale apparve ai miei occhi, in quell’ora
meridiana, esso mi sembrò un gioioso opificio di sapienza…..
Nelle
pagine di Bonaventura e Tommaso è implicito, pur nella cautela delle
dichiarazioni, il senso della distanza che separa le due attività umane. Nella
realtà sappiamo che si trattava però
di due gruppi di uomini, coloro che lavoravano e coloro che studiavano. La
separazione veniva sottolineata dagli eruditi: non c’è da scegliere entro una
vasta gamma di atteggiamenti. Si va dal più esplicito e sprezzante come quello
di Guglielmo Conches che già nel secolo XII bollava con l’epiteto di ‘cuoco’
chi non aveva capacità di studiare, ad Alberto Magno che chiamava ‘bruto’ chi
non capiva, a Ruggero Bacone che parlava di ‘ventosa plebs’, alla
condiscendenza bonaria di Bartolomeo Anglico che affermava di scrivere anche
per i ‘rudes ac simplices’. La convinzione di fondo è quella espressa con
scherzosa brutalità dagli studenti nei ‘Carmina Burana’: ‘L’illeterato è come
il bruto, essendo all’arte sordo e muto’.
…. Vidi poi in seguito a San Gallo uno scriptorium di simili
proporzioni, separato dalla biblioteca, ma non come questo bellamente disposto.
Antiquarii, librarii, rubricatori e studiosi stavano seduti ciascuno al proprio
tavolo, un tavolo sotto ciascuna delle finestre. E siccome le finestre erano
quaranta, quaranta monaci avrebbero potuto lavorare all’unisono, anche se in
quel momento erano appena una trentina. Severino ci spiegò che i monaci che
lavoravano allo scriptorium erano dispensati dagli uffici di terza, sesta e
nona per non dover interrompere il loro lavoro nelle ore di luce, e arrestavano
le loro attività solo al tramonto, per il vespro.
I posti più luminosi erano
riservati agli antiquari, gli alluminatori più esperti, ai rubricatori e ai
copisti. Ogni tavolo aveva tutto quanto servisse per miniare e copiare: corni
da inchiostro, penne fini che alcuni monaci stavano affinando con un coltello
sottile, pietrapomice per rendere liscia la pergamena, regoli per tracciare le
linee su cui si sarebbe distesa la scrittura. Accanto ad ogni scriba, o al
culmine del piano inclinato di ogni tavolo, stava un leggìo, su cui posava il
codice da copiare, la pagina coperta da mascherine che inquadravano la linea
che in quel momento veniva trascritta. E alcuni avevano inchiostro d’oro e di
altri colori. Altri invece stavano solo leggendo libri, e trascrivevano appunti
su loro privati quaderni o tavolette.
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