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Il ruolo dell'Intellettuale (10)
Nel 1255
le opere di Aristotele entrarono ufficialmente alla facoltà delle Arti di
Parigi: poco dopo, lo studio
dei commenti dell’arabo
Averroè
innestò nella tematica della
filosofia cristiana un processo e sospetto ai più. Ciò avveniva principalmente
per due motivi: la trasformazione delle Arti da facoltà preparatoria dove si
insegnava il metodo dialettico in facoltà di fatto autonoma, mirata alla
ricerca filosofica; il carattere del sistema averroista, che appariva estraneo
alla tradizione cristiana di discendenza agostiniana. E’ proprio all’interno di
questo sistema che si trovarono gli stimoli a disegnare una nuova figura di
intellettuale il profilo teorico e la cui funzione nella prassi
dell’insegnamento contrastavano vivamente con l’immagine tradizionale del
maestro.
In che consiste
la differenza più notevole?
Credo sia
in un singolare momento di autocoscienza professionale: Sigieri di Brabante,
Boezio di Dacia tentano di far coincidere per la prima volta il progetto ideale
del filosofo con la professione quotidiana alla facoltà delle Arti. Sigieri
scive: ‘compito del filosofo è di esporre l’insegnamento di Aristotele (o altri
filosofi la cui verità assommata all’esperienza è vera), non correggere o
nascondere il suo pensiero, anche quando è contrario alla verità (teologica).
Questa semplice affermazione distingue nel modo più chiaro i differenti ambiti
professionali e di ricerca. Una concezione questa che non poteva essere
accertata da chi condivideva con la tradizione l’idea della cultura cristiana
come unità globale. Il contenuto diverrà evidente nella condanna del 1277, dove
molte tesi uscite dalle Arti e congeniali all’insegnamento
aristotelico-averroista furono censurate dal vescovo Tempier. Veniva colpito un
indirizzo che aveva connivenze anche alla facoltà di Teologia: persino Tommaso
d’Aquino era coinvolto. Ma tutto ciò apparterebbe più alla storia delle idee
che a quella dell’intellettuale se non ritrovassimo fra le tesi condannate
proposizioni come queste: ‘non c’è condizione di vita più eccellente del
dedicarsi alla filosofia’ o ‘sapienti, a questo mondo, sono solo i filosofi’.
Non ebbi peraltro il tempo di osservare il loro lavoro, perché ci venne
incontro il bibliotecario, che già
sapevamo essere Malachia da Hildesheim. Il bibliotecario ci presentò a
molti dei monaci che stavano in quel momento al lavoro. Di ciascuno Malachia ci
disse anche il lavoro che stava compiendo e di tutti ammirai la profonda
devozione al sapere e allo studio della parola divina. Conobbi così Vananzio da
Salvemec, traduttore dal greco e dall’arabo, devoto di quell’Aristotele che
certamente fu il più saggio di tutti gli uomini. Bencio da Upsala, un giovane
monaco scandinavo che si occupava di retorica. Berengario da Arundel, l’aiuto
del bibliotecario. Aymaro da Alessandria, che stava ricopiando opere che solo
per pochi mesi sarebbero state in prestito alla biblioteca, e poi un gruppo di
miniatori di vari paesi, Patrizio da Clonmacnois, Rabano da Toledo, Magnus da
Iona, Waldo da Hereford.
Il resto è vista di
un mondo che ci è proibito vedere, ammirare, contemplare. E’ solo l’immagine di
quel Dio, di cui i nostri occhi debbono celebrare in eterno la sua venuta, la
sua figura, il suo martirio. Gli occhi
di quel Dio riflessi nella sua sostanza, nell’ icona e sacrificati per
sempre alla sua opera creata. Ma con il tempo l’opera creata ha mosso i nostri
animi, i nostri spiriti, la segreta volontà non del tutto assopita di
conoscenza. Nella rigida regola del nostro Eremo, ci è concesso celebrare il –
Verbo – incarnato in diversa maniera . In questo fratello – Eraclio -, ci ha
sempre stimolato, insegnato, e poi comandato. Nella regola del nostro vivere ,
del nostro tempo, oltre alle tre funzioni giornaliere, abbiamo la possibilità
di prestare la nostra ignoranza alla – Sacra – conoscenza. La biblioteca
diviene spesso il nostro rifugio. Diviene
la fuga, lo sguardo, la vista. La voglia di vivere dinnanzi ad una non
manifesta cecità. In quanto pur cechi,
tutti noi, almeno quando prestiamo attenzione alle scritture, sembriamo
vedere. Ma dalla cecità, in realtà
troppo spesso passiamo solo ad una forte miopia. Raramente ci è concessa la
vista. Quando io, ed altri miei fratelli
vi riusciamo, cerchiamo di nascosto a fratello – Eraclio – di coniugare la luce
interiore con quella esteriore. Così
imparammo, in nome di una più segreta verità, dei meschini rimedi. Dei segreti
modi per riuscire in ciò che l’istinto non era ingannato, o del tutto assopito
e rassegnato. Fu l’istinto in cerca
della ragione che dalla cornice di un quadro una mattina ci portò al perimetro
del nostro giardino, per rubare un po’ di luce …. ed in segreto camminare in
cerchio. Osservati dalla prima sostanza, dalla prima luce di fratello
– Eraclio -. Visti senza poter vedere, perché l’occhio di fratello – Eraclio- è
solo la vista dell’Altissimo a cui tutti noi aspiriamo. Ma nel nostro lento
deambulare, come ogni giorno la regola ci insegna e comanda, abbiamo imparato
in essa la segreta essenza dell’inganno,
abbiamo meditato in noi stessi l’essenza
di questo principio, ed in ultimo in tacito assenso siamo convenuti, io,
ed i miei umili e pochi confratelli, che mentre fratello – Eraclio- ci spiava
con gli occhi, gli occhi dell’ – Onnipotente – si intende, noi cercavamo la stessa immutabile sostanza per
altri – dove- . La misura dell’ –
Invisibile – iniziava così a prendere forma e misura. Non solo la misura delle
proporzioni che costantemente cercavamo, studiavamo e paragonavamo, ma la
misura di una più probabile verità contro un – Dio – che non riuscivamo più a
vedere ne sentire.
Nasce,
fondata sulla meditazione dell’Etica a Nicomaco di Aristotele, una nuova figura
di uomo: ‘il suo piacere consiste nella speculazione, ed esso è tanto maggiore
quanto più nobili sono gli oggetti dell’intelletto. Perciò il filosofo conduce
una vita colma di piacere’. Il filosofo è il vero nobile: ‘secondo la
perfezione della natura umana i filosofi che contemplano la verità sono più
nobili dei re e dei principi’. La pressione dei tradizionalisti e della
maggioranza contro questo nuovo tipo di professore che ‘nella conoscenza del
vero trovava una vera fonte di gioia’ fu forte. Uomini di tal genere apparivano
strani e pericolosi. C’è amarezza nelle parole di Giacomo di Douai: ‘Molti
credono che i filosofi, che si danno allo studio e alla contemplazione
filosofica, siano uomini malvagi, increduli e non sottomessi alle leggi, e che
pertanto vadano legittimamente espulsi dalla comunità – così dicono; e a causa
di ciò ‘tutti quanti si danno allo studio e alla contemplazione filosofica sono
DIFFAMATI E SOSPETTI’.
(J.Le Goff, L'uomo medievale; U. Eco, Il nome della rosa; G. Lazzari, Dialoghi con Pietro Autier)
(J.Le Goff, L'uomo medievale; U. Eco, Il nome della rosa; G. Lazzari, Dialoghi con Pietro Autier)
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