CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
30 MAGGIO 1924

mercoledì 10 maggio 2017

UN SOGNO NEL SOGNO (3)






































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Un Sogno nel Sogno....

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Il Pregiudizio del Tempo nell'algoritmo della vita posto...










             UN SOGNO NEL SOGNO

              L’ALGORITMO DELLA VITA
                       
               Ovvero il Trovatore della Parola

          nella caverna della  vita dipinta e scritta




Habbiamo detto la Magia essere scienza, la quale c’insegna chiamar in luce, e fuori dalle  tenebre, tutte le virtù sparse, e seminate da Dio per tutte le parti del Mondo. Hai inteso ancora  ciò, che queste tenebre si siano: resta, che manifestiamo, e scopriamo le virtù, ch’entro di quelle  sono nascoste.  





Secoli passarono da quel peccato…
Secoli passarono e con loro fiumi di parole, perché quell’uomo uscì sovente non per ammirare una sola stagione, ma comporre l’intero Creato… in ogni stagione pregato.
Il vecchio albergo mutò natura, è ancora lì in piedi, anche se fa un po’ paura, più grande e meglio arredato nell’interno dove appare bello e sontuosamente pensato.
Lì intorno, invece, ogni vecchia parola uscita ha mutato rima, ogni Frammento è perso nel vento.  Non vi è più quella poesia che regnava quando quell’uomo usciva di nascosto, come se non condividesse il lungo discorso.
Qualcuno ricorda di… un’ombra, qualcuno narra di un fantasma. Qualcuno accenna ad una leggenda strana. Comunque il vecchio tomo regna sovrano padrone di ogni quadro, padrone di ogni rima, dove è riposta con cura tutta la storia e con essa l’intera cultura.
Ogni parola sottostà al Tempo, è lui che l’ha creata, è lui che l’ha forgiata, come per dire e sostenere che prima di quello non v’era sapere.




Come per affermare che quell’animale ed ogni elemento, nulla erano, senza l’uomo a spiegare il loro pensiero. Il loro contorno.
Dio fece ogni cosa per l’uomo e la sua sposa. Padroni della terra debbono sconfiggere ogni peccato. Per questo, laggiù in quella vallata, si narra che quello che si vide una lontana mattina è solo un peccato giammai un santo, e così si è sempre ciarlato. Addirittura che fosse proprio il Diavolo accompagnato ad una strana Dèa… che Dio non prega.
I nomi che aveva l’uomo braccato e la sua linfa, solo la storia, con tanta… troppa nebbia li ricorda. Sì… è vero, perché quando usciva la mattina, chi l’ha visto… dalla sua finestra, con vaghi contorni, con frammenti brevi, descrive il suo profilo, il suo vestito, il passo inquieto.
Volto non aveva, come un Libro Grande tomo senza titolo di giacenza nello scaffale della storia: biblioteca di oscura memoria. Ed anche mai si era udita la sua strana lingua. Una fitta nebbia è il ricordo della storia purgata dell’immonda Eresia. Forse perché convinta del sole che dopo illumina l’intera vallata essere la sola via, e con essa la vita. 




Certo è, io che ho scrutato e letto ogni libro, io che ho adorato ogni profumo antico di un prato, di un fiore, un albero appena fiorito mentre la sua preghiera si nascondeva…: ho visto il vero Dio Infinito senza alba… e quell’uomo comporre la Prima nebbia. Non avrei certo goduto il mio sogno incompiuto nella materia caduto.
Ogni muschio di quella primavera, ogni foglia e frutto, giammai avrebbe sfamato… il mio spirito arguto. Sono un Trovatore, ed ora che gli anni son passati mi appoggio al mio bastone, un tempo fui anche scienziato botanico e geologo. Nella ragione e nel raziocinio ho costruito il mio inchino alla stessa alba di quel mattino. Poi a nuova vita, tornato dal mio strano peccato di spiare ogni elemento del creato, in poesia mutai la mia Dèa.
Lei era atea, a nulla credeva, eccetto che, ad un numero senza uno spirito, ad una equazione senza un’anima, per scoprire poi ad un principio di mattina, fra una cifra ed una parentesi, che anche se l’equazione può spiegare l’elemento, in realtà vi è un caso costante che rende ogni numero imperfetto.




Uno scherzo, uno strano segno di un sogno ancora non letto.
Un sovrano strano che rende la mia scienza suo diletto, per burlarsi del mio… Dio. Così, quando nel tramonto della mia ora volsi gli occhi ad una diversa parola, ad un diverso principio, rinacqui all’alba di un nuovo mattino.
La poesia in questa vita divoro come fossi un animale in cerca di cibo, con solo l’istinto principio del suo stomaco che chiede nutrimento… per saziare lo spirito. Poi, ho compreso, su un letto di fiume, quando la stagione mutò il suo corso, che ogni strofa dovevo ricomporre dalla nebbia di quella prima mattina di una fame antica che mi divora.
Non è solo una crosta di terra che sazia la mia memoria, oppure una conchiglia con cui compongo e ascolto l’intera storia. Ma un frammento, una parola, una poesia, una visione antica, fuggita…. all’alba di una mattina.
In una vallata forse l’ho trovata, un tempo, quando Dio mi ha sussurrato parte del frammento… da lui creato.




Ebbi la certezza di capire ogni cosa.
Ebbi la presunzione di intuire e vedere ogni elemento, prima e dopo, quel poco avvistato.
Scavai la memoria di quel torrente, vidi ghiaccio e fuoco e pensai di essere padrone di ogni elemento, ed il sogno ricomponevo nel segreto di un… laboratorio. Pensai di conoscere il mistero della vita, ciò che vedo, non accorgendomi che in realtà ero più cieco di prima.
Ogni esperimento confermavano la potenza del mio Dio.
Forse perché pensavo di vedere o intuire la sua forma, il suo pensiero, riflesso nello specchio della mia breve ora. Forse perché pensavo di scorgere il mistero non ancora svelato dell’intero Creato. Addirittura ebbi la presunzione, nell’ora che volge al tramonto, di udire la parola, la musica antica, come un boato dal nulla della mia ora.
Dopo di quello scorgevo la grammatica della vita: milioni di ère a cui diedi un nome, fondai la mia disciplina.




Nulla vi era eccetto quello che vedevo.
Nulla vi era oltre il breve frammento della vita.
In quella vita, fui ateo, senza spirito, eccetto la conoscenza del mio arbitrio, scienza saggia, fors’anche priva di poesia, poi, quando ancora non era tramontata (la stagione ora … non ricordo…), la luce pensai vedere, cercando di spiare più da vicino l’occhio di un Dio.
Ho scomposto il suo mistero, il suo occhio, e vi lessi ogni segreto: onda e particella del creato, poi un caso… cambiò il mio destino. Il sole si oscurò, il giorno si spense , come un pozzo senza fondo, un buco nero senza contorno.
Così compresi che ciò che non si vede… è artefice e mente.
Così capii che nell’occhio di quel Dio si nasconde un ‘delirio’ antico, non appartiene alla divina luce del Creato. Anche se questa è illusione di vita, il principio della realtà divina regna nella nebbia di una Prima Mattina, dopo una scura notte, dove a stento ci sembra di scorgere il Giorno della Vita….




Certo è, che questa fu ed è eresia, perché, benché ateo, tutta la mia scienza dimorava su un libro, quasi fosse una Bibbia, e se pur il mio Dio creò il mondo in millenni di sudore, era in un certo modo parente, non dico stretto, di uno stesso Dio Straniero al suo verbo alla luce di uno stesso mattino.
Io e quel prete, o Papa che sia, adoriamo la vita così come fu concepita in funzione dell’uomo suo signore e padrone.
Possiamo nutrire divergenze, ma il resto di quanto pregato dell’intero Creato, da me.. e quel prete, è materia ed elemento su cui debbo porre la mia legge.
Ogni cosa creata fu a noi donata non solo per studiare occhio e pensiero del mio Dio… non detto, ma per scrutare cammino e sentiero da qui fino su… in quell’azzurro cielo solo appena accennato… Per questo la notte osservo le stelle, sì certo… noi veniamo da quelle, vi scorgo la mente del Creato, per il prete è Dio l’artefice di tanto spettacolo. Ogni altra magia o antica alchimia, scienza arcana… eresia o strega che sia.., spiriti inquieti di altri misteri, appartengono ad un mondo confuso di una mente malata fors’anche approssimata…




Confusi nell’ignoranza pagana di uno Sciamano futuro ciarlatano e di una superstizione antica che vuole ogni cosa viva….
Io so, invece, che ogni bestia che Dio fece o non fece… è governata dalla pura materia, meccanica ripetuta come eterna equazione principio di vita.
Non vi è pensiero o coscienza dietro quell’istinto, quell’occhio nero peggio di un aguzzino.
Non vi è ragione, io e quell’uomo di Dio, su questo andiamo di certo a braccetto.
Quella bestia, che con il tempo ha saziato l’intera mia ora, è solo una macchina senza alcun Dio, senza anima o spirito che vi dimora…. Ciò mi permette di capire e carpire il segreto della vita, per questo seziono ogni frammento (di questa strana poesia), forse per studiare la forma, come fosse una pietra, strato di morta materia.
Così in quel tramonto…, confuso per mattina, pensai intuire e capire la vita….




Così ho costruito dalla mattina alla sera una scienza saggia e retta, per ogni uomo che vuol comprendere ed amare la vita. Ma quella esistenza fu solo tramonto, non certo preghiera di vita. Perché quando la strada si aprì più luminosa di prima, in quel sole dopo un’alba avvolta in una strana nebbia, simile ad una bufera priva dell’elemento che muove ogni cosa, inciampai su un sasso, come fosse una parola non detta non scorta, in quella nebbia ancora priva della segreta sua forza.
La vallata ricordo, il posto e l’albergo furono il Tempo, nelle lunghe passeggiate del mio riposo. Pregavo anch’io un Dio, e quando la sera scrivevo il mio libro, per poi la mattina correggere ogni rigo, vedevo quell’uomo uscire avvolto nella nebbia (di un primo mattino), sembrava che fosse lui il principio di quella strana bufera, senza vento e freddo per maledire la terra.
Io che conosco il Tempo, io che sento l’aria e ogni nuvola, io che posso incastrare l’intero Universo su di un rigo con dei numeri e una equazione (muta) per spiegare il loro Dio, vidi in quella mattina il mio pensiero la mia formula perfetta apparire strana, combattuta fra una parentesi ed un numero incompiuto.




Strano, perché la sera quando pensavo di aver risolto il difficile problema, tutto racchiuso nella formula della vita, altro non scorgevo, forse perché ogni elemento del creato era chiuso e prigioniero in quel mio ragionamento.
Come ho detto, la sera, risolsi il problema, ed i numeri vedevo riflessi nel buio della finestra, le stelle gli facevano da contorno, la luna ed i pianeti erano come delle parentesi.
Così scorgevo il mondo e l’intero Universo scrutato su quel vetro, su quella finestra antica, e quella sera, quando scrissi la formula, ogni numero dell’Universo era preciso e costante in quel componimento così ben studiato.
La musica mi appariva divina.
Poi…. all’alba di una mattina, vidi che tutto il razionale della sera precedente, ogni somma, pure la più semplice, seguire una diversa logica.
Uno + Uno, non davano Due, e Due + Due, non davano Quattro, forse perché in un mio ragionamento precedente avevo stabilito il limite stesso del numero…(dell’intero componimento…) che tutto contiene.




Per cui, ora, quella somma, ragione della mia vita, dava dei risultati strani (non certo reali… specchio del mio componimento…).
Uno, io, grande scienziato. E Uno quel Dio disgraziato, su cui avevo discusso con l’alto prelato…, davano Uno, come se nulla fosse stato mai stato.
Non vi era somma all’alba di quella mattina: come recitavo la mia litania alla stessa ora di una candela sull’altare di una chiesa, Uno + Uno davano la stessa messa, ugual verbo di un unico Dio.
Eppure l’equazione, la formula, la sera prima, proprio in ragione di una stessa ‘portata’ divisa con il prelato nel grande salone dove insieme abbiamo banchettato, mi aveva conferito gioia e diletto. Avevamo mangiato ugual pane e vino e parlato di un Uomo Divino, divisi fra la mia e la sua fede.
Eppure entrambi componevamo il Tempo, prima lui… poi il mio versetto.
Alle una di notte, poi alle due, forse complice un bicchiere di vino, ci unimmo in quella grande stanza, se pur divisi nella sostanza della lunga e difficile disquisizione, abbracciavamo ugual idea in quell’ora sospesa.

E se anche il Tempo batteva il suo rintocco vicino al grande camino, Due le ore di quel primo mattino, ancora immerso nella notte. Uno era il nostro pensiero di un Dio a dividere le nostre idee misura del tempo creato.....

















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