CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
30 MAGGIO 1924

martedì 6 settembre 2022

IL MERCATO DELLA NATURA (20) (16)

 
























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C'èra una volta...  (14/5)


Del mito... (18/9)


Una confessione (di domenica)...


Prosegue più o meno...:


Negli stessi anni  (17/8)


Capitolo completo... 


& il quadro del giorno (22/5)







Otto e mezzo, mattina; il primo mattino luminoso degli ultimi quindici giorni.

 

Alle cinque e mezzo era tutto chiaro e tutto calmo; le brughiere risplendono, e il molo scintillante di luce sacra, e anche i fiori di campo dal gambo sottile quieti come stelle, nella pace in cui...

 

‘Tutti i semplici alberi,

 

grandi e piccoli’…

 

Ma, un’ora fa, le foglie della mia finestra hanno dapprima tremato leggermente. Ora tremano continuamente, come quelli di tutti gli alberi, sotto un vento che si alza gradualmente, di cui l’azione tremolante permette appena di definire la direzione, ma che cade e ritorna a scatti di forza variabile, come quelli che precedono un temporale — mai del tutto cessante: la direzione della sua corrente superiore è indicata da poche nuvole bianche e sfilacciate, in rapido movimento da nord, che si levavano, al momento del primo scuotimento delle foglie, dietro il limite delle brughiere a est.

 

Questo vento è il vento della pestilenza dell’ottavo decennio negli anni nel diciannovesimo secolo; un periodo che sarà sicuramente riconosciuto nella futura storia meteorologica come uno dei fenomeni finora mai registrati né compresi nel corso della Natura, e caratterizzato principalmente dall’azione quasi incessante di questo vento calamitoso.




 Mentre scrivevo queste frasi, le nuvole bianche sopra specificate sono aumentate del doppio di quelle che scorgevo quando ho cominciato a scrivere; e dopo circa due ore da quel momento, diciamo circa le undici, se il vento continua, tutto il cielo sarà buio, come lo era ieri, e negli ultimi cinque anni ho intravisto e scorto periodi analoghi a questa improvvisa oscurità!

 

Ho notato per la prima volta il carattere deciso di questo vento, e delle nuvole che porta con sé, èra il 1871, descrivendolo poi nel numero di luglio di ‘Fors Clavigera’; ma poco, a quel tempo, comprendevo la gravità esposta nella propria ed altrui universalità, neppure ho calcolato qualsiasi matematica probabilità della sua prosecuzione nel ciclo annuale delle Stagioni.

 

Posso ora affermare, sicuramente, che il suo raggio di potere si estende dal nord dell’Inghilterra alla Sicilia; e che soffia più o meno durante tutto l’anno, eccetto l’inizio dell’autunno.

 

Questa tendenza autunnale è, spero, all’inizio: ieri ha soffiato debolmente, anche se senza interruzione, dal nord, rendendo freddo ogni luogo ombroso, mentre il sole bruciava; il suo effetto sul cielo è solo quello di offuscarne l’azzurro tra masse di cumuli frastagliati.

 

Oggi è completamente assente; e sembra che ci sia speranza di bel tempo, la prima per me dalla fine di maggio, quando ho avuto due belle giornate ad Aylesbury; la terza, il 28 maggio, essendo di nuovo nera dalla mattina alla sera. 

(J. Ruskin)





Sono le nuvole celesti,

 

dee protettrici degli sfaccendati.

 

A loro dobbiamo…

 

l’intelligenza, la dialettica e la ragione.

 

Aristofane, 420 a. C.




I primi tentativi di descrivere i fenomeni atmosferici risalgono alla più remota antichità. E’ naturale che sia così, perché il clima è sempre stato l’aspetto saliente dell’esperienza ambientale degli uomini, con la sua incertezza che spingeva continuamente a nuove descrizioni e interpretazioni.

 

Nella storia, il cielo è diventato a più riprese la sede di entità immaginarie: dei, auspici, ritmi zodiacali e infine i primi balbetii del pensiero scientifico. E’ noto che alcune delle più arcaiche testimonianze scritte furono tentativi di venire a capo della perenne mutevolezza del clima.

 

Testi egizi, caldei e babilonesi serbati per millenni su tavole d’argilla e fragili papiri parlano dei misteri delle nubi, del tuono e della pioggia e includono i primi, sporadici tentativi di previsione meteorologica. Quando un alone scuro circonda la luna, il mese porterà pioggia o chiamerà a raccolta le nubi, dichiara un oracolo caldeo di quattro millenni fa.

 

Se una nube oscura il cielo, si leverà il vento, afferma un altro.

 

Questi e altri Frammenti simili, forse le più antiche ‘previsioni del tempo’ giunte fino a noi, possono essere testimonianze di un’antica sapienza meteorologica, ma non si può escludere che alludessero a minacciosi cambiamenti di clima politico e sociale (come leggeremo poi…).




 Quello che oggi è dato cogliervi con certezza è l’atmosfera palpabilmente apprensiva. Ancora più a est, al tempo della dinastia Shang, gli studiosi cinesi compilarono bollettini più precisi e tentarono di analizzarne il contenuto dividendolo in blocchi di dieci giorni – un tentativo le cui tenui tracce sono giunte fino a noi.

 

Si annotavano arcobaleni, aloni e pareli e si registrava la direzione prevalente del vento. Anche il livello delle precipitazioni piovose e nevose era misurato, nel secondo caso con canne di bambù situate nelle province settentrionali. Nelle regioni collinari dell’antica Cina si fabbricarono anche igrometri sulla capacità del carbone di legna di assorbire il vapore d’acqua. Esso era conservato e pesato all’asciutto, poi pesato di nuovo dopo l’esposizione per un tempo prestabilito all’umidità atmosferica. Il tasso di questa era indicato dallo scarto tra la prima e la seconda pesatura.

 

Due millenni prima di Cristo, in quelle lontane contrade, alcune grandezze naturali cominciarono a essere misurate e registrate. I progressi scientifici vanno sempre collocati in più ampi contesti sociali, e dietro l’evoluzione dell’antica meteorologia cinese c’era il consolidarsi di un’intera concezione del mondo. La dottrina dei che, i due principi gemelli yin e yang che presidierebbero all’equilibrio cosmico, stava diventando l’asse intorno a cui ruotava il pensiero politico e naturale del grande Impero orientale.

 

Alla fine del IV secolo a. C. il principio yin (le quali erano considerate manifestazioni terrestri del tipo ‘femminile’)  era concettualmente collegato con le nubi e la pioggia, così come la luce e il calore solari erano ritenuti yang (manifestazioni celesti del principio ‘maschile’). Secondo tale dottrina le proprietà ‘femminili‘ e ‘maschili’ sono insieme opposte e complementari, e nei fenomeni della natura non si trovano mai allo stato puro – anche se una delle due può predominare….




 La prima volta che riconobbi le nuvole portate dal vento della ‘peste’ ovvero distinte dal normale carattere sottratto al male, fu tornando da Oxford, dopo una dura giornata di lavoro, ad Abingdon, all’inizio della primavera del 1871: ci vorrebbe troppo tempo per darne un resoconto circa i particolari che hanno attirato la mia attenzione sulle nuvole; ma durante i mesi successivi ebbi  la frequente occasione di verificare i miei primi pensieri su di loro, e il primo luglio di quell’anno ne scrissi la descrizione che inizia con le ‘Fors Clavigera’ di agosto, così:

 

E’ il primo di luglio, e mi siedo per scrivere alla luce più lugubre che abbia mai scritto; vale a dire, la luce di questa mattina di mezza estate, a metà dell’Inghilterra, (Matlock, Derbyshire), nell’anno 1871.

 

Perché il cielo è coperto di nuvole grigie; non una nuvola di pioggia, ma un velo nero secco, che nessun raggio di sole può penetrare; in parte diffuso nella nebbia, debole nebbia, abbastanza da rendere inintelligibili gli oggetti lontani, ma senza alcuna sostanza, o ghirlanda, o colore proprio. E dappertutto le foglie degli alberi tremano a intermittenza, come fanno prima di un temporale; solo non violentemente, ma abbastanza da mostrare il passaggio avanti e indietro di un vento strano, pungente e sgradevole.




 Abbastanza triste, se fosse stata la prima mattina del genere temporalesco che l’estate, in genere, nello stesso periodo dell’anno adorna il comune paesaggio dal Cielo alla Terra per secoli ammirato. Ma durante tutta questa primavera, a Londra e a Oxford, attraverso l’altrettanto ‘appestato’ marzo, e attraverso l’immutabilmente cupo aprile, proseguendo nello scoraggiato maggio e il buio giugno, mattina dopo la mattina il panorama, il ‘quadro’, i colori e la luce per ogni Frammento che solitamente colora ogni impareggiabile elemento della Natura, si sono trasformati  e ammantati di grigia polvere.

 

Ed è una cosa nuova per me, e molto terribile. Ho cinquant’anni e più; e da quando ne avevo cinque, ho raccolto le migliori ore della mia vita al sole delle mattine primaverili ed estive; e io mai ho visto questi strani fenomeni fino ad ora.

 

E gli scienziati sono occupati come formiche, esaminando il sole, la luna e le sette stelle, e possono dirmi tutto su di loro ormai; e come si muovono e di cosa sono fatti.

 

E non mi interessano, da parte mia, due lustrini di rame e come si muovono, né di cosa sono fatti. Non posso spostarli in un altro modo da come vanno, né farli di altro, meglio di come sono fatti Ma mi preoccuperei molto e darei molto, se mi si potesse dire da dove viene questo vento aspro e di che cosa è fatto.

 

Perché, forse, con la previdenza e la raffinata scienza di laboratorio, si potrebbe ricavare qualcos’altro.




Sembra in parte come se fosse fatto di fumo velenoso; molto probabilmente potrebbe essere: ci sono almeno duecento camini di fornaci in un quadrato di due miglia su ogni lato di me. Ma il semplice fumo non soffierebbe avanti e indietro in quel mi sembra più come se fosse fatto di anime di uomini morti, di quelli che non sono ancora andati dove devono andare, e potrebbero svolazzare qua e là, dubitando, loro stessi, del posto più adatto per loro. 

(J. Ruskin) 

 

Tutte le realtà naturali – comprese ovviamente quelle riguardanti il clima – nel loro aspetto statico e specialmente in quello dinamico erano suscettibili di interpretazioni in base a queste idee fondamentali; e la meteorologia cinese si sviluppò in parte per esprimere e confermare questa concezione sommamente armoniosa.

 

In effetti il ciclo dell’acqua, per citare solo un caso, era un esempio adeguato, concreto e in movimento della collaborazione e del periodico passaggio di consegne dei due principi supremi: il calore solare yang alimenta la nuvolosità yin tramite il semi-occulto intermediario dell’evaporazione. Nella salita e ricaduta senza fine dell’acqua per evaporazione, condensazione e precipitazione l’equilibrio di armonia e avvicendamento sotteso all’intero funzionamento dell’universo mentale cinese.

 

Perfino la violenza del temporale serviva a illustrare il legame individuale tra le forme naturali di energia: l’eccesso di pioggia yin richiedeva, a guisa di contrappeso, una scarica di ‘fuoco’ yang sotto forma di folgore, per ricondurre entro limiti accettabili lo squilibrio del cielo in tumulto. Da qui i singolari doni delle nubi temporalesche alla terra: il tuono, il fulmine e le tracce di zolfo fortemente elettrizzato. Per il pensiero cinese tradizionale, essi rivelavano il pagamento di un debito di energia accumulatosi nel corso del tempo nelle più alte regioni dell’universo.




Qualche secolo più tardi la religione taoista dotò il suo pantheon di un intero ministero del Tuono. Quel settore del governo divino includeva gli dei del tuono e del lampo, il conte del vento, il maestro della pioggia e il suo giovane aiutante Yun-T’ung, il ‘garzone delle nuvole’ incaricato di tener sempre pronta una consistente riserva di vascelli celesti, disposti in bell’ordine e carichi di pioggia. Le moderne teorie riguardo al modello di vita feng-shui (vento e acqua) sono le ombre lunghe proiettate fino ai nostri giorni della forza inesausta di simili idee.

 

In contrasto con l’armoniosa concezione cinese, gran parte della forza morale dell’antico giudaismo venne dal racconto di violenti fenomeni metereologici vissuti in modo punitivo. Dal diluvio della Genesi alla grandine dell’Esodo, i libri mosaici e profetici sono gravati da un cupo clima di vendetta, spesso portato da forti venti orientali.

 

Il tempo atmosferico sembra dirci il più terrificante di quegli episodi, è la sola condizione della vita terrena, il solo aspetto permanente del mondo naturale, che non è e non sarà mai signoreggiato dall’uomo. Pestilenze e calamità discendevano da cieli plumbei e minacciosi, causati da malaugurati disturbi delle correnti a getto.

 

Provenendo da una civiltà che si affidava per le sue colture all’irrigazione fluviale, situazioni così estreme e imprevedibili potevano suscitare una profonda angoscia circa il futuro che li attendeva. Con precipitazioni medie annuali di appena 25-50 millimetri, il regno del faraone quasi non conosceva le intemperie e gli ebrei, che da più di quattro secoli vivevano nei suoi confini, non avrebbero mai visto il minaccioso addensarsi delle nubi temporalesche se la loro esistenza non fosse stata rivoluzionata dall’Esodo.  



                     

Ero appena tornato in quella specie di città densa di fumo misto ad olio fritto che si chiama Londra… ve lo ricordate?, dopo anni di Oceano Indiano, Pacifico, mari della Cina - una buona dose di Oriente, sei anni o poco meno – e bighellonavo qua e là, impedendovi di lavorare e invadendo le vostre case, proprio come se avessi ricevuto dal cielo la missione di civilizzarvi.

 

Per un po’ andò benissimo, ma ben presto cominciai ad averne abbastanza di stare a riposo. Allora mi misi a cercare una nave: penso che sulla terra non ci sia un lavoro più ingrato. Ma le navi non sapevano cosa farsene di me. E anche quel gioco finì con lo stancarmi.

 

Dovete sapere che, quand’ero un ragazzino, avevo la passione per le carte geografiche. Passavo delle ore a guardare l’America del sud, o l’Africa o l’Australia, e mi perdevo in tutte le glorie dell’esplorazione. A quei tempi c’erano molti spazi vuoti sulla carta della terra, e quando ne vedevo uno dall’aria particolarmente invitante (ma ce l’hanno tutti quell’aria) ci posavo il dito sopra e dicevo: ‘Quando sarò grande, ci andrò’.

 

Il Polo Nord era uno di quei luoghi, mi ricordo.




 Non ci sono ancora stato e non mi ci proverò certo adesso. L’incanto è finito. Altri di quei luoghi erano disseminati intorno all’Equatore, alle più diverse latitudini su tutti e due gli emisferi. In qualcuno ci sono stato, e... beh, non è di questo che voglio parlarvi. Ma ce n’era uno ancora, il più grande, il più vuoto, se così si può dire, dal quale ero particolarmente attratto.

 

È vero che nel frattempo non era più uno spazio vuoto.

 

Dalla mia infanzia, si era riempito di fiumi, di laghi, di nomi. Non era più una macchia bianca deliziosamente avvolta nel mistero, un terreno vergine su cui un ragazzo potesse fare i suoi sogni di gloria.

 

Era diventato un luogo di tenebra.

 

Ma là dentro c’era soprattutto un fiume, un fiume possente, che sulla carta si snodava come un gigantesco serpente, con la testa nel mare, il corpo ripiegato su un immenso territorio, la coda perduta nel cuore del continente. E mentre io guardavo la carta nella vetrina di un negozio, lui mi affascinava, come un serpente affascina un uccello, un povero stupido uccellino. Mi ricordai allora che c’era una grossa impresa, una Compagnia che commerciava su quel fiume.




Diamine, mi dissi, non potranno commerciare senza usare una qualche specie di imbarcazione su tutta quella massa d’acqua dolce - i battelli a vapore! Perché non tentare di farmene affidare uno?

 

Camminavo avanti e indietro per Fleet Street senza riuscire a scuotermi l’idea di dosso. Il serpente mi aveva incantato. Si trattava in realtà di un’impresa continentale, la Compagnia commerciale, ma io ho molte conoscenze nel Continente; vivono lì, perché, a sentir loro, costa poco e non è così sgradevole come sembra.

 

Devo purtroppo ammettere che incominciai a scomodarle. Già questa era una novità per me. Non è mia abitudine ricorrere a questi sistemi per ottenere quello che voglio, sapete. Son sempre andato per la mia strada, e con le mie gambe, dove avevo in mente di andare. Non avrei mai creduto di esserne capace, ma, vedete, avevo proprio l’impressione che lì ci dovevo andare, a qualunque costo.

 

Così li scomodai.

 

Gli uomini mi dissero ‘Carissimo’ e non fecero nulla.

 

Allora, ci credereste?, provai con le donne. Sì, io, Charlie Marlow misi le donne all’opera per avere un lavoro. Dio santo! Ma capite, era l’idea a trascinarmi. Io avevo una zia, una tenera anima entusiasta.

 

Mi scrisse: ‘Con immenso piacere. Sono pronta a fare qualsiasi cosa, proprio qualsiasi cosa per te. La tua è un’idea straordinaria. Conosco la moglie di un personaggio molto in vista nell’Amministrazione e anche un signore che ha molta voce in capitolo...’, ecc., ecc.

 

Era decisa a smuovere mari e monti per farmi nominare capitano di un vapore fluviale, se questo era il mio desiderio. Naturalmente ottenni il posto, e anche rapidamente. Pare che la Compagnia fosse venuta a sapere che uno dei suoi capitani era stato ucciso in una rissa con gli indigeni. Fu questa la mia occasione, che mi rese ancor più impaziente di partire. Solo dopo molti mesi, quando cercai di recuperare ciò che restava del corpo, seppi che all’origine della questione c’era stato un malinteso per delle galline.

 

Sì, per due galline nere! 

(J. Conrad)




L’evaporazione dalla pianura alluvionale era troppo modesta, e troppo calda e asciutta l’aria sovrastante, perché nubi imponenti si formassero in loco, mentre le grandi perturbazioni trasportate dalle correnti atmosferiche consumavano quasi tutta l’Energia molto prima di giungere sul delta del Nilo. La permanenza nelle terre semidesertiche del Sinai e di Canaan espose Mosé e i suoi seguaci non solo alle fluttuazioni stagionali della pioggia, ma anche all’inedito spettacolo dei colossali cumulonembi convettivi, le divine ‘colonne di nubi’ che cominciarono a mostrarsi agli ebrei man mano che si allontanavano dalla bassura deltizia del Goshen.

 

Fu un’esperienza improvvisa che lasciò un segno durevole, anche perché le intemperie continuarono a visitare con regolarità la loro nuova dimora. Agli occhi degli esuli che composero i libri mosaici lo spettacolo delle nubi, potenti e imprevedibili, diventò il simbolo della natura incerta, strana ed entusiasmante della loro nuova situazione. Come quegli uomini abituati all’irrigazione fluviale non tardarono a comprendere, per fondare un’agricoltura basata sulle precipitazioni essi avrebbero dovuto interrogare il cielo, e apprendere la lingua in gran parte sconosciuta.




Udiamo così le loro domande, poste con crescente urgenza nei libri di Enoch e Giobbe, echeggiare nei secoli, evitate o lasciate senza risposta o mutate in cosmologia, in una grande catena di ragionamenti inesorabilmente attraverso una serie di pietre miliari del pensiero metereologico. Tra le quali una delle più importanti fu la drammatica interpunzione del dicembre 1802, in cui per la prima volta le nubi furono denominate in modo convincente da un chimico trentenne in un seminterrato londinese.

 

Prima di allora furono compiuti tentativi più razionali di svelare i misteri dell’atmosfera e di renderne le manifestazioni meno imprevedibili e minacciose. Poco si guadagnava, infatti trasformando le nubi in dimore di dèi remoti e vendicativi, anche se quasi tutte le culture hanno percorso per qualche tempo questa strada. In quanto confine ideale tra terra e cielo, le nuvole sono state fonte di miti, oltre che di delimitazione, rispetto ad altre realtà.

 

Quali mondi, infatti, non potevano celarsi dietro di esse alla vista dei mortali?




Nella mitologia scandinava Frigg, sposa di Odino, era signora delle nubi. Nell’elevata Fensalir, la Sala delle Nebbie, con ruota e canocchia e infinita pazienza ella filava i fili d’oro tessuti dai venti negli orli rosa e arancio dei cirrostrati, che i mortali possono ammirare all’alba e al tramonto. Quelle nubi alte erano a lei riservate e intoccabili per gli altri dèi, sebbene al momento della creazione il cervello del gigante di ghiaccio Ymir fosse stato proiettato nell’aria estiva dando origine ai familiari cumuli delle quote inferiori.

 

Così, almeno, insegnava Alvis, il meno onniscente che recitava inomi coi quali ‘le nubi, proprietarie della pioggia’ erano note ‘in tutti i mondi e in ciascuno’: ‘Gli uomini che chiamano nuvole’; gli dèi ‘possibilità di pioggia’ e i Vanir ‘nibbi dei venti’. I giganti le chiamano ‘speranza di pioggia’; gli elfi ‘potenza del tempo’ e in Hel (l’Ade scandinavo) sono conosciute come ‘elmi dei segreti’.

 

Per quello che ci riguarda limiteremo il nostro interesse, come il celebre Luke Howard, ad un solo aspetto dell’evoluzione della meteorologia quale specchio del sapere scientifico e non solo: la nefologia, ovvero lo studio delle nuvole.




La pima fase importante della nefologia occidentale ebbe inizio con Talete di Mileto, filosofo presocratico e uno dei ‘sette sapienti’, e si concluse a metà del XVII secolo nel momento in cui il francese Descartes liberò la fisica dai lacci di un aristotelismo ormai sterile. Da quel momento essa si sviluppò in modo discontinuo, sulla scia della scoperta delle leggi fondamentali della fisica. Lo stesso Howard prese interesse agli aspetti poco noti della storia della nefologia, e quanto mi accingo a esporre doveva essergli in gran parte familiare, anche se solo in una fase relativamente tardiva della sua carriera scientifica – una fase in cui la lettura e i contatti epistolari sostituirono in larga misura la ricerca meteorologica originale.

 

L’evoluzione della nefologia lo appassionò tanto da dedicarle gran parte del tempo trascorso nel suo studio, le cui pareti erano tappezzate di vecchi volumi di argomento meteorologico. Lì lesse di Talete (625-545 a.C.), del quale si suole dire che sia stato il primo ‘scienziato’ dell’Occidente. Talete si interessò soprattutto di matematica e astronomia e acquisì grande fama dalla riuscita dell’eclissi solare del 585 a.C., ma fu anche notevole meteorologo ante litteram.

 

Al pari dei cinesi egli nutriva un rispetto quasi mistico per l’acqua in quanto fonte e sostegno della vita sulla terra. Quel rispetto, insieme alla tradizione omerica che il mondo galleggiasse su un oceano cosmico, lo indussero a immaginare un universo basato sull’acqua, nutrito e plasmato dalle sue proprietà vivificanti.




Le sue idee circa la mobilità di quel ‘principio materiale’ che si alzava e ricadeva ciclicamente tra cielo e terra, comprendevano quella che possiamo considerare una delle più antiche e soddisfacenti descrizioni del ciclo dell’acqua, anche se sembra improbabile che Talete abbia intuito i principi dell’evaporazione, della condensazione e della formazione delle nubi.

 

Tuttavia, sostenendo che nella natura tutto derivi dalla modificazione dell’acqua il pensatore milesio espresse una verità fondamentale sull’esistenza umana: cioè che gli uomini vivono non tanto sulla terraferma quanto sul fondo di quella sorta di oceano che è l’atmosfera.

 

E anche se sostenne che l’aria fosse una delle metamorfosi del principio cosmico umido, l’importanza che attribuì allo studio dello strato che ci sovrasta fu il primo vero passo verso la nascita di un’immaginazione meteorologica. La meteorologia come branca del sapere autonoma e definita, avente per oggetto l’atmosfera e tutto quello che contiene, era stata ufficialmente presentata al pensiero occidentale. La fama di sapiente procurò presto a Talete degli allievi, il più celebre dei quali fu Anassimandro.

 

Questi compose uno dei più antichi trattati scientifici, nel quale fu il primo a suggerire che i tuoni fossero causati dallo sfregamento delle nubi le une contro le altre, e a parlare del vento come di un ‘movimento dell’aria’. Sebbene le sue ipotesi meteorologiche fossero subordinate alla sua dottrina sull’origine infinita e indefinita della materia, si tratta pur sempre di acute intuizioni circa specifici fenomeni naturali, con un intrinseco valore intellettuale.


 L’idea che le masse d’aria potessero essere spostate, avvicinate e allontanate reciprocamente da forze sconosciute è una ricostruzione abbastanza felice, anche se parziale e sommaria, dell’origine del vento, dei moti convettivi verso l’alto o il basso indotti dall’aumento e dalla diminuzione della temperatura del suolo fino alle grandi correnti atmosferiche, dalle zone ad alta pressione a quelle a bassa pressione.

 



Sai, ci sono Anime, e se mai qualcuna di loro si ritorcesse in luoghi in cui sono stati ferite, non ci devono essere molti fra noi, in questo momento, abbastanza consapevoli nell’intenderne o decifrarne la presenza, quale spirituale e superiore nonché certa derivata appartenenza per ogni nuovo Elemento incarnato nel Tempo e nel vostro futuro Secolo raccolto nell’ira solo appena intravista!

 

Da quel giorno di mezza estate, la mia attenzione, per quanto occupata, non si è mai distratta nel registrare i fenomeni caratteristici del vento della peste; e ora ne definisco, il più brevemente possibile, i segni essenziali.

 

1. È un vento delle tenebre, - tutte le condizioni precedenti dei venti tormentosi, sia da nord che da est, erano più o meno capaci di coesistere con la luce del sole, e spesso con la luce solare stabile e brillante; ma ogni volta e dovunque soffi il vento della peste, sia pure per dieci minuti, il cielo si oscura all’istante.

 

2. È una qualità maligna del vento, scollegata da qualsiasi quarto di compasso; soffia indifferentemente da tutti i punti cardinali, attribuendo la propria amarezza e malizia ai peggiori caratteri dei venti propri di ogni quartiere. Soffierà o con pioggia torrenziale, o rabbia secca, da sud, - con raffiche rovinose da ovest, - con brividi amarissimi da nord, - e con velenosa piaga da est.

 

Il suo luogo preferito, tuttavia, è il sud-ovest, così che si distingue nella sua malignità ugualmente dal Bise di Provenza, che è sempre un vento del nord, e dal nostro vecchio amico, l’est.

 

3. Soffia sempre tremolante, facendo tremare le foglie degli alberi come se fossero tutti pioppi, ma con una particolare discontinuità che dà loro - e li osservo in questo momento mentre scrivo – un’espressione di rabbia oltre che di paura e angoscia. Puoi vedere il tipo di fremito, e sentire il minaccioso piagnucolio, nelle raffiche che precedono un grande temporale; ma il vento della peste è più preso dal panico e febbrile; e il suo suono è un sibilo invece di un lamento. 

(J. Ruskin)




 Il buco del’ozono, fu scoperto nel 1985 e stupì la comunità scientifica. Stupì il fatto che si sviluppasse a quote basse, comprese tra 12 e 22chilometri, ben al di sotto dei 25 chilometri prevedibili in base agli studi di Molina e Rowland del 1974.

 

E la ragione fu chiara dopo alcuni anni: i processi di distruzione dell’ozono stratosferico erano più complessi di quanto si potesse aspettare.

 

Il buco dell’ozono si è formato sopra il Polo Sud e non ha interessato tutto il pianeta perché le reazioni che attivano il cloro, e lo rendono un distruttore dell’ozono, avvengono soltanto in presenza di luce, sulla superficie dei micro cristalli di ghiaccio e dell’acido nitrico congelato che costituiscono le nuvole stratosferiche.

 

Queste ultime si formano soltanto a temperature, inferiori agli 80 gradi sotto lo zero, nelle zone più fredde della stratosfera: sopra l’Antartide e, in misura minore, sopra il Polo Nord. Senza questi nubi, l’ozono si salverebbe. Preso da solo, l’ossido di cloro prodotto dai Cfc ne catalizza la distruzione, ma se si combina con il biossido di azoto, un altro catalizzatore nella stratosfera, la molecola che ne risulta non reagisce con l’ozono.

 

Come clan mafiosi contrapposti, quello degli ossidi d’azoto sono entrambi pericolosi per l’ozono, ma quando si incontrano si annullano a vicenda e l’ozono riesce a scamparla.

 

Sui micro-cristalli delle nubi polari, però, i clan si separano. Alla distruzione dell’ozono, tuttavia, sono necessari anche i raggi ultravioletti del Sole, e infatti il buco si espande tra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera polare, quando la temperatura è abbastanza bassa perché si formino le particelle di ghiaccio e, al contempo, c’è abbastanza Sole da attivare le reazioni fotochimiche di distruzione.

 

Forse stupisce che modeste emissioni di Cfc bastino a produrre un fenomeno di portata talmente ampia. Bisogna però ricordare che il cloro agisce semplicemente da catalizzatore e rimane inalterato: una singola molecola di cloro può portare alla distruzione di migliaia di molecole di ozono e rimanere comunque nella stratosfera.

 

Quando il cloro raddoppia, inoltre la quantità di ozono distrutto quadruplica: negli anni Ottanta, l’ossido di cloro in stratosfera aumentava del 5% all’anno, l’ozono distrutto del 10%. Quando Molina e Rowland sostennero che il cloro dei Cfc catalizzava la distruzione dell’ozono, i produttori dichiararono che era un’ipotesi fra tante, da non prendere sul serio.

 

Con il tempo fu sempre più evidente che la comunità scientifica aveva ragione: le concentrazioni di Cfc misurate nella stratosfera concordavano con i modelli teorici.

 

Bisognerà aspettare almeno cinquant’anni prima che l’ozonosfera si ricostituisca interamente. Gli atomi di cloro che sono stati prodotti finora, infatti, rimarranno ancora in circolazione sino a quando saranno modificati dalla luce solare per formare un gas, l’acido cloridrico, che è solubile nella pioggia e viene lavato via

 

…dalle nuvole… 

(P.J. Crutzen)   


               

                            

Tra qualche anno quattro quinti della popolazione mondiale e non solo americana vivranno nelle città. Le città sono, per noi tutti, centri di cultura, di moda, di finanza e di industria, di sport e di comunicazione: sono perciò il crogiolo del successo potenziale della vita e non solo americana.

 

Ma esse sono anche il crogiolo dei problemi della vita, e ripeto, non solo americana: miseria e odio razziale, educazione insufficiente e insieme tutti gli altri mali della nuova civiltà urbanizzata (congestione e sporcizia, pericolo e senso di inutilità) che colpisce tutti salvo i più fortunati.

 

I problemi urbani si estendono molto al di là del centro delle città. Un’espansione edilizia indiscriminata ha spinto i sobborghi ad invadere la campagna e i trasporti, il rifornimento idrico, le attrezzature scolastiche e sanitarie sono diventati insufficienti e i metodi di finanziamento previsti per questi servizi essenziali sono risultati inadeguati.

 

Questo processo ha inquinato l’acqua ed avvelenato l’aria, e ci ha privati del contatto con la luce del sole, con gli alberi, con i laghi. Mentre il governo diviene sempre più inefficiente, nuovi organismi hanno proliferato, disperdendo i compiti e le energie tra dozzine di uffici lontani e privi di collegamenti fra loro. Gli individui hanno perso il contatto con le istituzioni della società, e persino l’uno con l’altro subendo e provocando, in misura sempre maggiore, indifferenza, crudeltà e violenza.

 

Nei prossimi quarant’anni la popolazione americana e non solo raddoppierà, e raddoppieranno anche i nostri problemi.

 

Dovremo costruire un numero di case, di ospedali e di scuole pari a quelli che sono stati costruiti dalla nascita della nazione. E, ciò che più importa, dovremo riuscire a trovare sufficiente spazio per ognuno: dovremo pianificare insieme dove vivere e lavorare e divertirsi, dove e come cominciare a ricostruire la nostra comunità, il luogo dove l’individuo acquista il senso dell’importanza e del significato della sua vita individuale e della sua partecipazione alla vita degli altri.

 

E’ un vasto compito.

 

Ma è il programma minimo che possiamo prospettarci perché le nostre città siano luoghi degni e sicuri, ricchi di stimoli e di risultati: perché la nostra società possa definirsi civiltà. 

(R. Kennedy) 

 

        



    

Per giorni e giorni i due pionieri del commercio e del progresso restavano in osservazione sul piazzale vuoto, nel vibrante luccichio del sole a perpendicolo. Al di sotto dell’alto argine, il fiume silenzioso continuava a scorrere scintillante e inesorabile. Sui banchi di sabbia nel centro della corrente, ippopotami e alligatori si crogiolavano al sole gli uni accanto agli altri. E tutto all’intorno in ogni direzione, a circondare l’insignificante spiazzo disboscato della base commerciale, foreste immense, che celavano fatali complicazioni di vita fantastica, si stendevano nell’eloquente silenzio della muta grandiosità. I due uomini non comprendevano niente, non si curavano di nulla tranne che del passaggio dei giorni che li separavano dal ritorno del piroscafo. Il loro predecessore aveva lasciato dei libri sdruciti.

 

Presero quei rottami di romanzi e, non avendo mai letto niente del genere prima d’allora, furono molto sorpresi e divertiti. Poi per lunghi giorni ci furono interminabili e sciocche discussioni sulle trame e sui personaggi.

 

Trovarono anche delle vecchie copie di un giornale del loro paese. La stampa parlava in un linguaggio ampolloso di ciò che si compiaceva di chiamare “La nostra espansione coloniale”.....


(& il Capitolo completo...)








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