Precedenti capitoli...:
C'èra una volta... (14/5)
& Una confessione (di domenica)...
Prosegue più o meno...:
Negli stessi anni (17/8)
Otto e mezzo, mattina; il primo mattino luminoso
degli ultimi quindici giorni.
Alle cinque e mezzo era tutto chiaro e tutto
calmo; le brughiere risplendono, e il molo scintillante di luce sacra, e anche
i fiori di campo dal gambo sottile quieti come stelle, nella pace in cui...
‘Tutti i semplici alberi,
grandi e piccoli’…
Ma, un’ora fa, le foglie della mia finestra hanno
dapprima tremato leggermente. Ora tremano continuamente, come quelli di tutti
gli alberi, sotto un vento che si alza gradualmente, di cui l’azione tremolante
permette appena di definire la direzione, ma che cade e ritorna a scatti di
forza variabile, come quelli che precedono un temporale — mai del tutto
cessante: la direzione della sua corrente superiore è indicata da poche nuvole
bianche e sfilacciate, in rapido movimento da nord, che si levavano, al momento
del primo scuotimento delle foglie, dietro il limite delle brughiere a est.
Questo vento è il vento della pestilenza
dell’ottavo decennio negli anni nel diciannovesimo secolo; un periodo che sarà
sicuramente riconosciuto nella futura storia meteorologica come uno dei
fenomeni finora mai registrati né compresi nel corso della Natura, e
caratterizzato principalmente dall’azione quasi incessante di questo vento calamitoso.
Ho notato per la prima volta il carattere deciso
di questo vento, e delle nuvole che porta con sé, èra il 1871, descrivendolo poi nel numero di luglio di ‘Fors
Clavigera’; ma poco, a quel tempo, comprendevo la gravità esposta nella propria
ed altrui universalità, neppure ho calcolato qualsiasi matematica probabilità
della sua prosecuzione nel ciclo annuale delle Stagioni.
Posso ora affermare, sicuramente, che il suo
raggio di potere si estende dal nord dell’Inghilterra alla Sicilia; e che
soffia più o meno durante tutto l’anno, eccetto l’inizio dell’autunno.
Questa tendenza autunnale è, spero, all’inizio:
ieri ha soffiato debolmente, anche se senza interruzione, dal nord, rendendo
freddo ogni luogo ombroso, mentre il sole bruciava; il suo effetto sul cielo è
solo quello di offuscarne l’azzurro tra masse di cumuli frastagliati.
Oggi è completamente assente; e sembra che ci sia
speranza di bel tempo, la prima per me dalla fine di maggio, quando ho avuto
due belle giornate ad Aylesbury; la terza, il 28 maggio, essendo di nuovo nera
dalla mattina alla sera.
(J. Ruskin)
Sono le nuvole celesti,
dee protettrici degli sfaccendati.
A loro dobbiamo…
l’intelligenza, la dialettica e la
ragione.
Aristofane, 420 a. C.
I primi tentativi di descrivere i fenomeni atmosferici risalgono alla più remota antichità. E’ naturale che sia così, perché il clima è sempre stato l’aspetto saliente dell’esperienza ambientale degli uomini, con la sua incertezza che spingeva continuamente a nuove descrizioni e interpretazioni.
Nella
storia, il cielo è diventato a più riprese la sede di entità immaginarie: dei,
auspici, ritmi zodiacali e infine i primi balbetii del pensiero scientifico. E’
noto che alcune delle più arcaiche testimonianze scritte furono tentativi di
venire a capo della perenne mutevolezza del clima.
Testi
egizi, caldei e babilonesi serbati per millenni su tavole d’argilla e fragili
papiri parlano dei misteri delle nubi, del tuono e della pioggia e includono i
primi, sporadici tentativi di previsione meteorologica. Quando un alone scuro
circonda la luna, il mese porterà pioggia o chiamerà a raccolta le nubi, dichiara
un oracolo caldeo di quattro millenni fa.
Se una nube
oscura il cielo, si leverà il vento, afferma un altro.
Questi
e altri Frammenti simili, forse le più antiche ‘previsioni del tempo’ giunte
fino a noi, possono essere testimonianze di un’antica sapienza meteorologica,
ma non si può escludere che alludessero a minacciosi cambiamenti di clima
politico e sociale (come leggeremo poi…).
Si
annotavano arcobaleni, aloni e pareli e si registrava la direzione prevalente
del vento. Anche il livello delle precipitazioni piovose e nevose era misurato,
nel secondo caso con canne di bambù situate nelle province settentrionali. Nelle
regioni collinari dell’antica Cina si fabbricarono anche igrometri sulla capacità
del carbone di legna di assorbire il vapore d’acqua. Esso era conservato e
pesato all’asciutto, poi pesato di nuovo dopo l’esposizione per un tempo
prestabilito all’umidità atmosferica. Il tasso di questa era indicato dallo
scarto tra la prima e la seconda pesatura.
Due
millenni prima di Cristo, in quelle lontane contrade, alcune grandezze naturali
cominciarono a essere misurate e registrate. I progressi scientifici vanno
sempre collocati in più ampi contesti sociali, e dietro l’evoluzione dell’antica
meteorologia cinese c’era il consolidarsi di un’intera concezione del mondo. La
dottrina dei che, i due principi gemelli yin e yang che presidierebbero
all’equilibrio cosmico, stava diventando l’asse intorno a cui ruotava il pensiero
politico e naturale del grande Impero orientale.
Alla fine del IV secolo a. C. il principio yin (le quali erano considerate
manifestazioni terrestri del tipo ‘femminile’)
era concettualmente collegato con le nubi e la pioggia, così come la
luce e il calore solari erano ritenuti yang
(manifestazioni celesti del principio ‘maschile’). Secondo tale dottrina le
proprietà ‘femminili‘ e ‘maschili’ sono insieme opposte e complementari, e nei
fenomeni della natura non si trovano mai allo stato puro – anche se una delle
due può predominare….
E’ il primo di luglio, e mi siedo per scrivere
alla luce più lugubre che abbia mai scritto; vale a dire, la luce di questa
mattina di mezza estate, a metà dell’Inghilterra, (Matlock, Derbyshire), nell’anno
1871.
Perché il cielo è coperto di nuvole grigie; non
una nuvola di pioggia, ma un velo nero secco, che nessun raggio di sole può
penetrare; in parte diffuso nella nebbia, debole nebbia, abbastanza da rendere
inintelligibili gli oggetti lontani, ma senza alcuna sostanza, o ghirlanda, o
colore proprio. E dappertutto le foglie degli alberi tremano a intermittenza,
come fanno prima di un temporale; solo non violentemente, ma abbastanza da
mostrare il passaggio avanti e indietro di un vento strano, pungente e
sgradevole.
Ed è una cosa nuova per me, e molto terribile. Ho
cinquant’anni e più; e da quando ne avevo cinque, ho raccolto le migliori ore
della mia vita al sole delle mattine primaverili ed estive; e io mai ho visto
questi strani fenomeni fino ad ora.
E gli scienziati sono occupati come formiche,
esaminando il sole, la luna e le sette stelle, e possono dirmi tutto su di loro
ormai; e come si muovono e di cosa sono fatti.
E non mi interessano, da parte mia, due lustrini
di rame e come si muovono, né di cosa sono fatti. Non posso spostarli in un
altro modo da come vanno, né farli di altro, meglio di come sono fatti Ma mi
preoccuperei molto e darei molto, se mi si potesse dire da dove viene questo
vento aspro e di che cosa è fatto.
Perché, forse, con la previdenza e la raffinata
scienza di laboratorio, si potrebbe ricavare qualcos’altro.
Sembra in parte come se fosse fatto di fumo
velenoso; molto probabilmente potrebbe essere: ci sono almeno duecento camini
di fornaci in un quadrato di due miglia su ogni lato di me. Ma il semplice fumo
non soffierebbe avanti e indietro in quel mi sembra più come se fosse fatto di
anime di uomini morti, di quelli che non sono ancora andati dove devono andare,
e potrebbero svolazzare qua e là, dubitando, loro stessi, del posto più adatto
per loro.
(J. Ruskin)
Tutte le
realtà naturali – comprese ovviamente quelle riguardanti il clima – nel loro
aspetto statico e specialmente in quello dinamico erano suscettibili di
interpretazioni in base a queste idee fondamentali; e la meteorologia cinese si
sviluppò in parte per esprimere e confermare questa concezione sommamente
armoniosa.
In effetti
il ciclo dell’acqua, per citare solo un caso, era un esempio adeguato, concreto
e in movimento della collaborazione e del periodico passaggio di consegne dei
due principi supremi: il calore solare yang
alimenta la nuvolosità yin tramite il
semi-occulto intermediario dell’evaporazione. Nella salita e ricaduta senza
fine dell’acqua per evaporazione, condensazione e precipitazione l’equilibrio
di armonia e avvicendamento sotteso all’intero funzionamento dell’universo
mentale cinese.
Perfino la
violenza del temporale serviva a illustrare il legame individuale tra le forme
naturali di energia: l’eccesso di pioggia yin
richiedeva, a guisa di contrappeso, una scarica di ‘fuoco’ yang sotto forma di folgore, per ricondurre entro limiti
accettabili lo squilibrio del cielo in tumulto. Da qui i singolari doni delle
nubi temporalesche alla terra: il tuono, il fulmine e le tracce di zolfo
fortemente elettrizzato. Per il pensiero cinese tradizionale, essi rivelavano
il pagamento di un debito di energia accumulatosi nel corso del tempo nelle più
alte regioni dell’universo.
Qualche secolo più tardi la religione taoista dotò il suo pantheon di un intero ministero del Tuono. Quel settore del governo divino includeva gli dei del tuono e del lampo, il conte del vento, il maestro della pioggia e il suo giovane aiutante Yun-T’ung, il ‘garzone delle nuvole’ incaricato di tener sempre pronta una consistente riserva di vascelli celesti, disposti in bell’ordine e carichi di pioggia. Le moderne teorie riguardo al modello di vita feng-shui (vento e acqua) sono le ombre lunghe proiettate fino ai nostri giorni della forza inesausta di simili idee.
In
contrasto con l’armoniosa concezione cinese, gran parte della forza morale
dell’antico giudaismo venne dal racconto di violenti fenomeni metereologici
vissuti in modo punitivo. Dal diluvio della Genesi alla grandine dell’Esodo, i
libri mosaici e profetici sono gravati da un cupo clima di vendetta, spesso
portato da forti venti orientali.
Il tempo
atmosferico sembra dirci il più terrificante di quegli episodi, è la sola
condizione della vita terrena, il solo aspetto permanente del mondo naturale,
che non è e non sarà mai signoreggiato dall’uomo. Pestilenze e calamità
discendevano da cieli plumbei e minacciosi, causati da malaugurati disturbi
delle correnti a getto.
Provenendo
da una civiltà che si affidava per le sue colture all’irrigazione fluviale,
situazioni così estreme e imprevedibili potevano suscitare una profonda
angoscia circa il futuro che li attendeva. Con precipitazioni medie annuali di
appena 25-50 millimetri, il regno del faraone quasi non conosceva le intemperie
e gli ebrei, che da più di quattro secoli vivevano nei suoi confini, non
avrebbero mai visto il minaccioso addensarsi delle nubi temporalesche se la
loro esistenza non fosse stata rivoluzionata dall’Esodo.
Ero appena tornato in quella specie di città
densa di fumo misto ad olio fritto che si chiama Londra… ve lo ricordate?, dopo
anni di Oceano Indiano, Pacifico, mari della Cina - una buona dose di Oriente,
sei anni o poco meno – e bighellonavo qua e là, impedendovi di lavorare e
invadendo le vostre case, proprio come se avessi ricevuto dal cielo la missione
di civilizzarvi.
Per un po’ andò benissimo, ma ben presto
cominciai ad averne abbastanza di stare a riposo. Allora mi misi a cercare una
nave: penso che sulla terra non ci sia un lavoro più ingrato. Ma le navi non
sapevano cosa farsene di me. E anche quel gioco finì con lo stancarmi.
Dovete sapere che, quand’ero un ragazzino, avevo
la passione per le carte geografiche. Passavo delle ore a guardare l’America
del sud, o l’Africa o l’Australia, e mi perdevo in tutte le glorie dell’esplorazione.
A quei tempi c’erano molti spazi vuoti sulla carta della terra, e quando ne
vedevo uno dall’aria particolarmente invitante (ma ce l’hanno tutti quell’aria)
ci posavo il dito sopra e dicevo: ‘Quando sarò grande, ci andrò’.
Il Polo Nord era uno di quei luoghi, mi ricordo.
È vero che nel frattempo non era più uno spazio
vuoto.
Dalla mia infanzia, si era riempito di fiumi, di
laghi, di nomi. Non era più una macchia bianca deliziosamente avvolta nel
mistero, un terreno vergine su cui un ragazzo potesse fare i suoi sogni di
gloria.
Era diventato un luogo di tenebra.
Ma là dentro c’era soprattutto un fiume, un fiume
possente, che sulla carta si snodava come un gigantesco serpente, con la testa
nel mare, il corpo ripiegato su un immenso territorio, la coda perduta nel
cuore del continente. E mentre io guardavo la carta nella vetrina di un
negozio, lui mi affascinava, come un serpente affascina un uccello, un povero
stupido uccellino. Mi ricordai allora che c’era una grossa impresa, una
Compagnia che commerciava su quel fiume.
Diamine, mi dissi, non potranno commerciare senza usare una qualche specie di imbarcazione su tutta quella massa d’acqua dolce - i battelli a vapore! Perché non tentare di farmene affidare uno?
Camminavo avanti e indietro per Fleet Street
senza riuscire a scuotermi l’idea di dosso. Il serpente mi aveva incantato. Si
trattava in realtà di un’impresa continentale, la Compagnia commerciale, ma io
ho molte conoscenze nel Continente; vivono lì, perché, a sentir loro, costa
poco e non è così sgradevole come sembra.
Devo purtroppo ammettere che incominciai a
scomodarle. Già questa era una novità per me. Non è mia abitudine ricorrere a
questi sistemi per ottenere quello che voglio, sapete. Son sempre andato per la
mia strada, e con le mie gambe, dove avevo in mente di andare. Non avrei mai
creduto di esserne capace, ma, vedete, avevo proprio l’impressione che lì ci
dovevo andare, a qualunque costo.
Così li scomodai.
Gli uomini mi dissero ‘Carissimo’ e non fecero nulla.
Allora, ci credereste?, provai con le donne. Sì,
io, Charlie Marlow misi le donne all’opera per avere un lavoro. Dio santo! Ma
capite, era l’idea a trascinarmi. Io avevo una zia, una tenera anima
entusiasta.
Mi scrisse: ‘Con immenso piacere. Sono pronta a
fare qualsiasi cosa, proprio qualsiasi cosa per te. La tua è un’idea
straordinaria. Conosco la moglie di un personaggio molto in vista
nell’Amministrazione e anche un signore che ha molta voce in capitolo...’,
ecc., ecc.
Era decisa a smuovere mari e monti per farmi nominare capitano di un vapore fluviale, se questo era il mio desiderio. Naturalmente ottenni il posto, e anche rapidamente. Pare che la Compagnia fosse venuta a sapere che uno dei suoi capitani era stato ucciso in una rissa con gli indigeni. Fu questa la mia occasione, che mi rese ancor più impaziente di partire. Solo dopo molti mesi, quando cercai di recuperare ciò che restava del corpo, seppi che all’origine della questione c’era stato un malinteso per delle galline.
Sì, per due galline nere!
(J. Conrad)
L’evaporazione dalla pianura alluvionale era troppo modesta, e troppo calda e asciutta l’aria sovrastante, perché nubi imponenti si formassero in loco, mentre le grandi perturbazioni trasportate dalle correnti atmosferiche consumavano quasi tutta l’Energia molto prima di giungere sul delta del Nilo. La permanenza nelle terre semidesertiche del Sinai e di Canaan espose Mosé e i suoi seguaci non solo alle fluttuazioni stagionali della pioggia, ma anche all’inedito spettacolo dei colossali cumulonembi convettivi, le divine ‘colonne di nubi’ che cominciarono a mostrarsi agli ebrei man mano che si allontanavano dalla bassura deltizia del Goshen.
Fu
un’esperienza improvvisa che lasciò un segno durevole, anche perché le
intemperie continuarono a visitare con regolarità la loro nuova dimora. Agli
occhi degli esuli che composero i libri mosaici lo spettacolo delle nubi,
potenti e imprevedibili, diventò il simbolo della natura incerta, strana ed
entusiasmante della loro nuova situazione. Come quegli uomini abituati
all’irrigazione fluviale non tardarono a comprendere, per fondare
un’agricoltura basata sulle precipitazioni essi avrebbero dovuto interrogare il
cielo, e apprendere la lingua in gran parte sconosciuta.
Udiamo così le loro domande, poste con crescente urgenza nei libri di Enoch e Giobbe, echeggiare nei secoli, evitate o lasciate senza risposta o mutate in cosmologia, in una grande catena di ragionamenti inesorabilmente attraverso una serie di pietre miliari del pensiero metereologico. Tra le quali una delle più importanti fu la drammatica interpunzione del dicembre 1802, in cui per la prima volta le nubi furono denominate in modo convincente da un chimico trentenne in un seminterrato londinese.
Prima di
allora furono compiuti tentativi più razionali di svelare i misteri
dell’atmosfera e di renderne le manifestazioni meno imprevedibili e minacciose.
Poco si guadagnava, infatti trasformando le nubi in dimore di dèi remoti e
vendicativi, anche se quasi tutte le culture hanno percorso per qualche tempo
questa strada. In quanto confine ideale tra terra e cielo, le nuvole sono state
fonte di miti, oltre che di delimitazione, rispetto ad altre realtà.
Quali
mondi, infatti, non potevano celarsi dietro di esse alla vista dei mortali?
Nella mitologia scandinava Frigg, sposa di Odino, era signora delle nubi. Nell’elevata Fensalir, la Sala delle Nebbie, con ruota e canocchia e infinita pazienza ella filava i fili d’oro tessuti dai venti negli orli rosa e arancio dei cirrostrati, che i mortali possono ammirare all’alba e al tramonto. Quelle nubi alte erano a lei riservate e intoccabili per gli altri dèi, sebbene al momento della creazione il cervello del gigante di ghiaccio Ymir fosse stato proiettato nell’aria estiva dando origine ai familiari cumuli delle quote inferiori.
Così,
almeno, insegnava Alvis, il meno onniscente che recitava inomi coi quali ‘le
nubi, proprietarie della pioggia’ erano note ‘in tutti i mondi e in ciascuno’:
‘Gli uomini che chiamano nuvole’; gli dèi ‘possibilità di pioggia’ e i Vanir
‘nibbi dei venti’. I giganti le chiamano ‘speranza di pioggia’; gli elfi
‘potenza del tempo’ e in Hel (l’Ade scandinavo) sono conosciute come ‘elmi dei
segreti’.
Per quello
che ci riguarda limiteremo il nostro interesse, come il celebre Luke Howard, ad un solo aspetto
dell’evoluzione della meteorologia quale specchio del sapere scientifico e non
solo: la nefologia, ovvero lo studio delle nuvole.
La pima fase importante della nefologia occidentale ebbe inizio con Talete di Mileto, filosofo presocratico e uno dei ‘sette sapienti’, e si concluse a metà del XVII secolo nel momento in cui il francese Descartes liberò la fisica dai lacci di un aristotelismo ormai sterile. Da quel momento essa si sviluppò in modo discontinuo, sulla scia della scoperta delle leggi fondamentali della fisica. Lo stesso Howard prese interesse agli aspetti poco noti della storia della nefologia, e quanto mi accingo a esporre doveva essergli in gran parte familiare, anche se solo in una fase relativamente tardiva della sua carriera scientifica – una fase in cui la lettura e i contatti epistolari sostituirono in larga misura la ricerca meteorologica originale.
L’evoluzione
della nefologia lo appassionò tanto da dedicarle gran parte del tempo trascorso
nel suo studio, le cui pareti erano tappezzate di vecchi volumi di argomento
meteorologico. Lì lesse di Talete (625-545 a.C.), del quale si suole dire
che sia stato il primo ‘scienziato’ dell’Occidente. Talete si interessò soprattutto di matematica e astronomia e
acquisì grande fama dalla riuscita dell’eclissi solare del 585 a.C., ma fu anche notevole meteorologo ante litteram.
Al pari dei
cinesi egli nutriva un rispetto quasi mistico per l’acqua in quanto fonte e
sostegno della vita sulla terra. Quel rispetto, insieme alla tradizione omerica
che il mondo galleggiasse su un oceano cosmico, lo indussero a immaginare un
universo basato sull’acqua, nutrito e plasmato dalle sue proprietà vivificanti.
Le sue idee circa la mobilità di quel ‘principio materiale’ che si alzava e ricadeva ciclicamente tra cielo e terra, comprendevano quella che possiamo considerare una delle più antiche e soddisfacenti descrizioni del ciclo dell’acqua, anche se sembra improbabile che Talete abbia intuito i principi dell’evaporazione, della condensazione e della formazione delle nubi.
Tuttavia,
sostenendo che nella natura tutto derivi dalla modificazione dell’acqua il
pensatore milesio espresse una verità fondamentale sull’esistenza umana: cioè
che gli uomini vivono non tanto sulla terraferma quanto sul fondo di quella
sorta di oceano che è l’atmosfera.
E anche se
sostenne che l’aria fosse una delle metamorfosi del principio cosmico umido,
l’importanza che attribuì allo studio dello strato che ci sovrasta fu il primo
vero passo verso la nascita di un’immaginazione meteorologica. La meteorologia
come branca del sapere autonoma e definita, avente per oggetto l’atmosfera e
tutto quello che contiene, era stata ufficialmente presentata al pensiero
occidentale. La fama di sapiente procurò presto a Talete degli allievi, il più celebre dei quali fu Anassimandro.
Questi compose uno dei più antichi trattati scientifici, nel quale fu il primo a suggerire che i tuoni fossero causati dallo sfregamento delle nubi le une contro le altre, e a parlare del vento come di un ‘movimento dell’aria’. Sebbene le sue ipotesi meteorologiche fossero subordinate alla sua dottrina sull’origine infinita e indefinita della materia, si tratta pur sempre di acute intuizioni circa specifici fenomeni naturali, con un intrinseco valore intellettuale.
Sai, ci sono Anime, e se mai qualcuna di loro si ritorcesse in luoghi in cui sono stati ferite, non ci devono essere molti fra noi, in questo momento, abbastanza consapevoli nell’intenderne o decifrarne la presenza, quale spirituale e superiore nonché certa derivata appartenenza per ogni nuovo Elemento incarnato nel Tempo e nel vostro futuro Secolo raccolto nell’ira solo appena intravista!
Da quel giorno di mezza estate, la mia
attenzione, per quanto occupata, non si è mai distratta nel registrare i
fenomeni caratteristici del vento della peste; e ora ne definisco, il più brevemente
possibile, i segni essenziali.
1. È un vento delle tenebre, - tutte le
condizioni precedenti dei venti tormentosi, sia da nord che da est, erano più o
meno capaci di coesistere con la luce del sole, e spesso con la luce solare
stabile e brillante; ma ogni volta e dovunque soffi il vento della peste, sia
pure per dieci minuti, il cielo si oscura all’istante.
2. È una qualità maligna del vento, scollegata da
qualsiasi quarto di compasso; soffia indifferentemente da tutti i punti
cardinali, attribuendo la propria amarezza e malizia ai peggiori caratteri dei
venti propri di ogni quartiere. Soffierà o con pioggia torrenziale, o rabbia
secca, da sud, - con raffiche rovinose da ovest, - con brividi amarissimi da
nord, - e con velenosa piaga da est.
Il suo luogo preferito, tuttavia, è il sud-ovest,
così che si distingue nella sua malignità ugualmente dal Bise di Provenza, che
è sempre un vento del nord, e dal nostro vecchio amico, l’est.
3. Soffia sempre tremolante, facendo tremare le
foglie degli alberi come se fossero tutti pioppi, ma con una particolare
discontinuità che dà loro - e li osservo in questo momento mentre scrivo – un’espressione
di rabbia oltre che di paura e angoscia. Puoi vedere il tipo di fremito, e
sentire il minaccioso piagnucolio, nelle raffiche che precedono un grande
temporale; ma il vento della peste è più preso dal panico e febbrile; e il suo
suono è un sibilo invece di un lamento.
(J. Ruskin)
E
la ragione fu chiara dopo alcuni anni: i processi di distruzione dell’ozono
stratosferico erano più complessi di quanto si potesse aspettare.
Il
buco dell’ozono si è formato sopra il Polo Sud e non ha interessato tutto il
pianeta perché le reazioni che attivano il cloro, e lo rendono un distruttore
dell’ozono, avvengono soltanto in presenza di luce, sulla superficie dei micro
cristalli di ghiaccio e dell’acido nitrico congelato che costituiscono le
nuvole stratosferiche.
Queste
ultime si formano soltanto a temperature, inferiori agli 80 gradi sotto lo zero, nelle zone più fredde della stratosfera:
sopra l’Antartide e, in misura minore, sopra il Polo Nord. Senza questi nubi,
l’ozono si salverebbe. Preso da solo, l’ossido di cloro prodotto dai Cfc ne
catalizza la distruzione, ma se si combina con il biossido di azoto, un altro
catalizzatore nella stratosfera, la molecola che ne risulta non reagisce con
l’ozono.
Come clan
mafiosi contrapposti, quello degli ossidi d’azoto sono entrambi pericolosi per
l’ozono, ma quando si incontrano si annullano a vicenda e l’ozono riesce a
scamparla.
Sui micro-cristalli
delle nubi polari, però, i clan si separano. Alla distruzione dell’ozono,
tuttavia, sono necessari anche i raggi ultravioletti del Sole, e infatti il
buco si espande tra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera polare,
quando la temperatura è abbastanza bassa perché si formino le particelle di
ghiaccio e, al contempo, c’è abbastanza Sole da attivare le reazioni
fotochimiche di distruzione.
Forse
stupisce che modeste emissioni di Cfc bastino a produrre un fenomeno di portata
talmente ampia. Bisogna però ricordare che il cloro agisce semplicemente da
catalizzatore e rimane inalterato: una singola molecola di cloro può portare
alla distruzione di migliaia di molecole di ozono e rimanere comunque nella
stratosfera.
Quando il
cloro raddoppia, inoltre la quantità di ozono distrutto quadruplica: negli anni Ottanta, l’ossido di cloro
in stratosfera aumentava del 5% all’anno, l’ozono distrutto del 10%. Quando Molina e Rowland sostennero che il cloro
dei Cfc catalizzava la distruzione dell’ozono, i produttori dichiararono che
era un’ipotesi fra tante, da non prendere sul serio.
Con il
tempo fu sempre più evidente che la comunità scientifica aveva ragione: le
concentrazioni di Cfc misurate nella stratosfera concordavano con i modelli
teorici.
Bisognerà
aspettare almeno cinquant’anni prima che l’ozonosfera si ricostituisca interamente.
Gli atomi di cloro che sono stati prodotti finora, infatti, rimarranno ancora
in circolazione sino a quando saranno modificati dalla luce solare per formare
un gas, l’acido cloridrico, che è solubile nella pioggia e viene lavato via
…dalle nuvole…
(P.J. Crutzen)
Tra qualche anno quattro quinti della popolazione
mondiale e non solo americana vivranno nelle città. Le città sono, per noi
tutti, centri di cultura, di moda, di finanza e di industria, di sport e di
comunicazione: sono perciò il crogiolo del successo potenziale della vita e non
solo americana.
Ma esse sono anche il crogiolo dei problemi della
vita, e ripeto, non solo americana: miseria e odio razziale, educazione
insufficiente e insieme tutti gli altri mali della nuova civiltà urbanizzata
(congestione e sporcizia, pericolo e senso di inutilità) che colpisce tutti
salvo i più fortunati.
I problemi urbani si estendono molto al di là del
centro delle città. Un’espansione edilizia indiscriminata ha spinto i sobborghi
ad invadere la campagna e i trasporti, il rifornimento idrico, le attrezzature
scolastiche e sanitarie sono diventati insufficienti e i metodi di
finanziamento previsti per questi servizi essenziali sono risultati inadeguati.
Questo processo ha inquinato l’acqua ed
avvelenato l’aria, e ci ha privati del contatto con la luce del sole, con gli
alberi, con i laghi. Mentre il governo diviene sempre più inefficiente, nuovi
organismi hanno proliferato, disperdendo i compiti e le energie tra dozzine di
uffici lontani e privi di collegamenti fra loro. Gli individui hanno perso il
contatto con le istituzioni della società, e persino l’uno con l’altro subendo
e provocando, in misura sempre maggiore, indifferenza, crudeltà e violenza.
Nei prossimi quarant’anni la popolazione
americana e non solo raddoppierà, e raddoppieranno anche i nostri problemi.
Dovremo costruire un numero di case, di ospedali
e di scuole pari a quelli che sono stati costruiti dalla nascita della nazione.
E, ciò che più importa, dovremo riuscire a trovare sufficiente spazio per
ognuno: dovremo pianificare insieme dove vivere e lavorare e divertirsi, dove e
come cominciare a ricostruire la nostra comunità, il luogo dove l’individuo
acquista il senso dell’importanza e del significato della sua vita individuale
e della sua partecipazione alla vita degli altri.
E’ un vasto compito.
Ma è il programma minimo che possiamo
prospettarci perché le nostre città siano luoghi degni e sicuri, ricchi di
stimoli e di risultati: perché la nostra società possa definirsi civiltà.
(R. Kennedy)
Per giorni e giorni i due pionieri del commercio e del progresso restavano in osservazione sul piazzale vuoto, nel vibrante luccichio del sole a perpendicolo. Al di sotto dell’alto argine, il fiume silenzioso continuava a scorrere scintillante e inesorabile. Sui banchi di sabbia nel centro della corrente, ippopotami e alligatori si crogiolavano al sole gli uni accanto agli altri. E tutto all’intorno in ogni direzione, a circondare l’insignificante spiazzo disboscato della base commerciale, foreste immense, che celavano fatali complicazioni di vita fantastica, si stendevano nell’eloquente silenzio della muta grandiosità. I due uomini non comprendevano niente, non si curavano di nulla tranne che del passaggio dei giorni che li separavano dal ritorno del piroscafo. Il loro predecessore aveva lasciato dei libri sdruciti.
Presero quei rottami di romanzi e, non avendo mai
letto niente del genere prima d’allora, furono molto sorpresi e divertiti. Poi
per lunghi giorni ci furono interminabili e sciocche discussioni sulle trame e
sui personaggi.
Trovarono anche delle vecchie copie di un
giornale del loro paese. La stampa parlava in un linguaggio ampolloso di ciò
che si compiaceva di chiamare “La nostra espansione coloniale”.....
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