Precedenti capitoli:
Circa i pionieri (1/13)
Prosegue con il...:
Viaggio... (15)
ovvero l'evoluzione degli agenti
Prosegue ancora con:
Il Viaggio della Vergine (4/17)
Perché
accade questo, mio Dio?
Ricordo
che secoli fa mi raccontarono che nelle praterie americane, teatro nei tempi
antichi di terribili tempeste, queste tempeste erano diventate a poco a poco
sempre meno tremende, a mano a mano che l’uomo procedeva nell’occupazione di
quelle nuove terre…
E
così, se ciò fosse vero, bisognerebbe dedurre che la semplice presenza
dell’uomo esercita un certo effetto calmante o mesmerizzante sulla turbolenza
innata della Natura, oppure al contrario,
un deleterio costante veleno nel violarla e presiederla, e che uno dei
risultati della sua assenza ieri, e presenza - ovunque - oggi, sia stato quello
di togliere, oppure ripristinare un simile freno (imposto dalla Natura).
Questo amletico dubbio mi assilla!
Ricordo sempre le Strofe nello
scorgere il misfatto.
Il veleno donato!
Conoscevo
il Polo e il freddo, li conoscevo, ma
sentirsi gelare dal terrore…
Leggevo,
come ho detto, studiavo, non volevo fermarmi…
…Un vecchio mondo grave, che oscilla maestosamente sul suo asse, il mistero della sua estremità settentrionale chiusa strettamente nel suo petto, è improvvisamente elettrizzato dalla notizia che finalmente l’uomo, per secoli sconcertato nei suoi sforzi eroici, ha rivelato il suo segreto nascosto, e che l’Old Glory, simbolo dell’audacia dei moderni, galleggia dal Polo stesso.
Che
fremito di interesse passa sulle nazioni della terra; eccitazione universale;
gioie universali. Cablegram, Marconigram, portano le meravigliose notizie sotto
i mari o intorno al mondo nello spazio.
Il Polo finalmente!
Per secoli l’aurora boreale ha invitato gli spiriti avventurosi a sondare i fenomeni del grande sconosciuto, ha attirato l’uomo in porti fantastici con il ghiaccio ghiacciato dei secoli, lo ha ispirato ad attraversare la calotta glaciale della Groenlandia o a fare il suo sentiero solitario attraverso sterili terre del Nord America o la desolata tundra della Siberia, il suo coraggio intrepido non estinto da precedenti record di privazioni, fame e morte stessa. Uno dopo l’altro intrepidi esploratori hanno lasciato le loro storie di avventure elettrizzanti e la registrazione dei loro nomi o di quelli dei loro benefattori per segnare le loro scoperte personali.
Chi
erano i primi marinai che aspiravano a penetrare negli sconosciuti mari di
ghiaccio?
Molto indietro nei secoli, Pitea, audace avventuriero, riportò voci su un’isola del Circolo Polare Artico chiamata Thule, dapprima accolta dagli antichi come una meravigliosa scoperta, ma poi screditata. Nel IX secolo alcuni monaci irlandesi, trascinati dall’entusiasmo religioso e da uno spirito avventuroso, sembrano aver visitato l’Islanda, e uno, di nome Dicuil, ha lasciato testimonianze scritte, intorno all’825, che confermano la storia dell’isola Thule, che alcuni dei fratelli visitarono e riferirono che non c’era oscurità al solstizio d’estate.
Di
Sir Hugh Willoughby, primo al comando della
Speranza, si ricorda
che era alto e bello e si era dimostrato un valoroso soldato; di Richard
Chancellor, che era amato e geniale e particolarmente noto per le favorevoli sorti
dello Spirito.
Così, in quella luminosa mattina di inizio maggio, questi due comandanti con il loro fedele equipaggio navigarono lungo il Tamigi tra gli spari dei cannoni e le acclamazioni della folla radunata sulle rive del fiume per augurare loro un buon Viaggio. Era inteso tra i comandanti che se le loro navi si fossero separate, avrebbero dovuto cercare di incontrarsi a Wardhuys, un buon porto in Finmark.
Procedettero
verso nord e passarono il capo più settentrionale d’Europa in luglio. Di notte,
durante una fitta nebbia e tempesta, le due navi si separarono, la terza e la
più piccola rimase con Willoughby, e i due coraggiosi comandanti e i loro
equipaggi non si incontrarono mai più. Procedendo verso nord per circa duecento
miglia, raggiungendo Nova Zembla, Willoughby fu costretto dal ghiaccio a
tornare a una latitudine inferiore. Nel
settembre 1553 approdò alla foce del fiume Arzina, in Lapponia.
Scrisse in quel periodo nel suo diario:
Rimanendo così in questo rifugio lo
spazio di una settimana, vedendo trascorso l’anno, e anche molto maltempo, come
gelo, neve e grandine, come se fosse stato il più profondo inverno, abbiamo pensato che fosse meglio
svernare lì.
A gennaio, secondo il resoconto del
diario di Willoughby, tutti erano ancora in vita.
In
primavera i marinai russi, avventurandosi a queste alte latitudini, furono
sorpresi di vedere due navi congelate nel ghiaccio. La morsa implacabile dell’inverno
artico li teneva ancora stretti; la mano della morte nella sua forma più
raccapricciante aveva mietuto il suo raccolto.
Non
un uomo è sopravvissuto.
Quanto sono brevi i dettagli, eppure l'immaginazione rabbrividisce per le agonie dei loro ultimi giorni, il freddo, l’intenso, il congelamento; l’oscurità impenetrabile, malinconica e la morte, posando le sue dita gelide sul cuore disperato di ciascuno a sua volta e dell’ultimo Uomo, circondato dalle forme spoglie dei suoi compagni, alle prese da solo con il destino inesorabile.
Io l’Ultimo Uomo… quella
notte fui straziato da terrori panici quali mai un cuore si è sognato di
immaginare; la mia carne mortale si agitava e fremeva come uno stagno sulla cui
superficie, qua e là, spira una brezza di vento.
A volte per lo spazio di tre, quattro minuti, il profondo interesse di ciò che leggevo assorbiva la mia mente; poi mi capitava di percorrere un intero capitolo o due, senza capire il senso di una sola frase, tutto il mio cervello era come succhiato dalle truppe innumerevoli accampate intorno a me, sedotto dall’idea che a un certo punto si sarebbero svegliate, e alzate, per accusarmi:
perché
il verme era diventato il mondo, e nell’aria c’era un muoversi di sudari, e il
sapore del grigio dei fantasmi sembrava infettare la mia gola, e gli odori
dell’abominevole fare del mio naso una tomba, e vibrazioni profonde di campane riempivano
le mie orecchie.
Verso
la fine il lume divenne piccolo, sempre più smorto, e la mia immaginazione da ossario
era ormai piena zeppa di bare che si schiodavano, di cancelli di camposanto e
di becchini, dell’attrito stridente delle corde che calano la bara nella fossa,
del primo tonfo del terriccio sul coperchio di quella dimora sparuta e buia dei
mortali.
Quell’immagine letale di dita fredde e morte, mi sembrava vederla davanti a me, l’insipidezza delle lingue morte, il broncio delle labbra degli annegati e le spume svaporate che le orlano; finché il mio corpo non divenne madido, come bagnato dalle acque di scolo degli obitori, e dai sudori che i cadaveri traspirano, e dalla lacrima nauseante che si ferma sulle gote dei morti: perché, che può fare un unico insignificante uomo, avvolto nella sua veste di carne, davanti a moltitudini ed eserciti di disincarnati, solo tra tutti loro, e in nessun luogo un altro, un suo pari, a cui chiedere aiuto contro di loro?
Leggevo,
mi chinavo sopra la carta stampata, ma solo Dio sa…
Quando un foglio di carta che spostavo con cura, con mosse da ladro, faceva un solo leggero fruscio, come rimbombava quella diana nelle sale insidiate dai fantasmi del mio cuore!
E
la tosse che mi tenevo nel gozzo, reprimendola per la paura, finché non scoppiò
con spietata turbolenza dalle mie labbra, mandando ricci di freddo per tutto il
mio spirito: perché alle parole che leggevo si mescolavano dappertutto visioni
di bare striscianti, drappi funebri e lamenti, e crespi, e strilli penetranti
di follia che echeggiavano lungo le volte delle catacombe, e tutto il lutto di
quella valle d’ombra, e la tragedia della corruzione.
Due volte, nel corso della veglia spettrale di quella notte, la certezza che la presenza di uno di quegli esseri muti indugiava accanto al mio gomito sinistro, mi riempì di un tale terrore, da farmi scattare in piedi, per fargli fronte, con i pugni stretti e i capelli dritti sulla testa, freneticamente: dopo di che, credo di essere svenuto, perché mi ritrovai, in pieno giorno, con la fronte poggiata sui giornali; e decisi di non rimanere mai più, dopo il tramonto, chiuso dentro una casa: perché quella notte sarebbe bastata a uccidere l’uomo più robusto, santo cielo!
E
che questo è un pianeta insidiato dai fantasmi, ne sono certo.
Ciò
che lessi non era molto chiaro: infatti, come avrebbe mai potuto esserlo?
Ma in linea di massima confermava certe deduzioni che già avevo fatto per conto mio, e la mia curiosità poteva dirsi in buona parte soddisfatta. Si era svolto, sulle pagine di quei tomi, un duello a morte tra il mio collaboratore, professor Stanislao Zambon, e il dottor Martin Rogers; non avrei mai potuto immaginarmi uno spettacolo più indecoroso, scienziati come loro che si chiamavano a vicenda novellino, sognatore, e a un certo punto addirittura stupido.
Stanislao
non voleva ammettere che il profumo di mandorle attribuito alla nube dilagante
potesse essere dovuto ad altro che alla immaginazione eccitata dei fuggitivi;
perché, diceva, non si era mai dato il caso che un vulcano emettesse CN, o HCN,
neppure K4FeCN6, e la distruttività della nube era certamente dovuta alla
presenza di CO e di CO2.
A ciò Rogers, in un articolo notevole per la sua straordinaria acrimonia, replicava di non poter capire come perfino un novellino in chimica e geologia si azzardasse a dichiarare ai giornali che non si era mai visto che un vulcano emettesse HCN.
Che
ciò fosse accaduto, diceva, era cosa accertata, per quanto il fatto che fosse
già accaduto non risolveva certo il problema di sapere se la stessa cosa stesse
accadendo adesso, dal momento che il cianogeno, per dire il vero, non è
sostanza rara nella natura, anche se non la si trova direttamente, essendo uno
dei prodotti della distillazione dell’antracite, oltre a essere presente in
alcune radici, nelle pesche, mandorle, e in molte piante tropicali; inoltre era
già stata suggerita come molto probabile, da parte di più di uno scienziato,
l’ipotesi che determinati Sali di CN, quello potassico, oppure il ferrocianuro
di potassio, o entrambi, esistessero in notevole quantità nelle regioni vulcaniche
più profonde.
Nella
sua risposta, un articolo di due colonne, Stanislao si serviva dell’espressione
sognatore, e Rogers, quando ormai Berlino era sprofondata nel silenzio,
replicava finalmente col suo rovente stupido.
Comunque
Stanislao fu il primo…
“Già la sera del 21 febbraio avevo capito che saremmo diventati il paese europeo più colpito.
Credo
fosse mezzanotte.
Scavalcando
le gerarchie, avevo mandato un messaggio al mio direttore della Regione Europea
dell’OMS, che chiameremo HK. Doveva essere informato, e subito. Anche se la mia
era solo un’ipotesi, bisognava agire con tempestività e soprattutto in maniera
cautelativa.
Mentre
scrivevo il messaggio, uno dei pazienti nella zona rossa del Veneto era morto.
Fu
il primo decesso registrato in Italia.
Il paese sarebbe entrato nel panico molto dopo, io ci entrai già quella sera. Tutto ciò che seguì era facilmente prevedibile.
‘I
casi in Italia cresceranno esponenzialmente’, avevo scritto ad HK. E ancora: ‘Nelle
prossime ore, l’Italia diventerà probabilmente il paese più colpito d’Europa’.
Con
il senno di poi, avrei dovuto allargare lo spazio geografico e dire che
l’Italia sarebbe stata per molte settimane il paese più colpito del mondo.
L’arcangelo Gabriele in cima al
campanile di Venezia è inconfondibile. È tutto dorato, o forse d’oro, alto
quattro metri. Nonostante svetti a quasi cento metri d’altezza è impossibile
non notarlo.
Il documentario di Report proseguiva inesorabile con le immagini girate da un drone. Non potevo sbagliarmi, era proprio lui, l’arcangelo Gabriele in tutta la sua possanza, in una magnifica giornata di sole, esattamente come lo era stata quell’11 maggio.
Quando
vidi l’arcangelo in tv sicuramente la mia espressione fu diversa da quella
della Madonna due millenni fa. Forse più simile all’Urlo di Munch che alle
delicate Annunciazioni del Beato Angelico. Cambiai certamente colore, questa volta
bianco cadaverico.
Il drone continuava a girare intorno al campanile, sorvolando la città. Aspettavo solo che si posasse davanti all’iconica facciata della Scuola Grande di San Marco, dove si trova il nostro ufficio dell’OMS. Fu un falso allarme. O, alla luce di come si svolsero poi le cose, un preallarme. Le spettacolari immagini di Venezia altro non erano che un piacevole intermezzo visivo e musicale, offerto dalla città in pieno lockdown. La colonna sonora era The Sound of Silence.
La
puntata di Report parlava delle possibili relazioni tra Cina, Etiopia, OMS e
poi si soffermava sul piano pandemico”. [Sgorlon]
Quanto alla velocità della nube dilagante, Stanislao non lo definiva ancora, secondo accreditati e successivi calcoli essa variava tra le 100 e le 105 miglia al giorno; e la data in cui probabilmente l’eruzione aveva avuto luogo, egli la fissava tra il 14, il 15 e il 16 aprile; ossia uno, due o tre giorni dopo l’arrivo al Polo degli esploratori del Boreal; e finiva l’articolo osservando che, se le cose stavano davvero come lui pensava, non c’erano rifugi di sorta dove la razza umana potesse trovare scampo, a meno che si riuscisse a chiudere ermeticamente miniere, gallerie e luoghi simili; e anche così, questi nascondigli non sarebbero giovati che a un numero molto limitato di persone, salvo nel caso che l’attività letale dell’aria dovesse dimostrarsi di brevissima durata.
(Prosegue ancora il periglioso Viaggio....)
Nessun commento:
Posta un commento