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Permetta Maestà, ch’io dedichi queste
pagine alla memoria del compianto Re. Il Suo aiuto morale e materiale mi
permise di compiere questo Viaggio, che per il risultato ottenuto Gli avrebbe
procurato una gioia ben grande, se da una mano scellerata la Sua vita non fosse
stata improvvisamente troncata prima del ritorno della spedizione.
Nei tempi antichi re e principi erano i capi bellicosi dei loro concittadini, gli autori di gesta eroiche. Al giorno d’oggi sono così occupati a pensare come governare con saggezza, per non naufragare nelle gelide acque così come nei vasti cieli di velenose nubi purpuree, che non hanno la possibilità di essere eroi.
Solo
modesti nonni!
Ma
c’è almeno un principio di questi tempi moderni che si è dimostrato uguale, e a
cui si ispirano, e questo è l’indomita conquista. Questi fu il Principe Luigi
Amedeo di Savoia-Aosta, Duca degli Abruzzi; il cui nome completo, tra l’altro,
è Luigi Amadeo Giuseppe Maria Ferdinando Francesco.
Degli odierni… seppur in ugual medesimo Polo… abbiamo perso memoria.
Il
principe Luigi è un italiano, figlio di Amadeo, ex re di Spagna. Era anche
nipote del re Umberto d’Italia, e quindi cugino di primo grado dell’attuale re
d’Italia, Vittorio Emanuele. Luigi nacque a Madrid il 29 gennaio 1873. Studiò
al collegio navale di Livorno.
Fu
lì che mostrò per la prima volta il suo spirito veramente democratico. Preferì
essere chiamato per nome e non si lasciò mai chiamare Duca o Altezza Reale. Dal
college entrò nella marina italiana, dove ottenne un buon primato di obbedienza
e intelligenza.
Ma stabilirsi come un semplice principe o duca non avrebbe mai soddisfatto il carattere avventuroso di Luigi. Voleva fare grandi cose e compiere azioni pericolose. La sua prima impresa è stata la salita del Mt. St. Elia in Alaska. Fino a quando non lo realizzò nel 1897, la grande vetta non era mai stata scalata.
Fu nel 1900 che guidò
una spedizione nella regione artica che batté il record di estremo nord di
Nansen, sfortunatamente il duca stesso fu gravemente congelato e non poté
lasciare la nave; ma il capitano Umberto Cagni raggiunse la latitudine 86° 33’,
e si avvicinò al Polo di poche miglia di Nansen.
La nave del Duca, la Stella polare, salpò da Christiania il 12 giugno 1899. Gravemente schiacciate dal ghiaccio, ebbero un duro compito per impedirne l’affondamento. Ma questo fu fatto, e Cagni con una festa partì sui ghiacci dell’Oceano Artico per il Polo. Le loro sofferenze furono terribili e solo sforzi eroici li riportarono in vita. La spedizione tornò a casa nel 1900, dove tutti furono onorati.
Rimembriamo
e seguiamo l’attuale… Stella Polare… in medesima ispirata aspirazione… navigare
in diversi mari…
Dacché
si dica riconosciamo l’indubbio merito al Cagni della agognata conquista.
Dedicata
a tutti i Cagni dell’Italia unita & afflitta!
Di tutti gli animali, che vivono nelle regioni settentrionali, nessuno merita tanta attenzione come il cane. Il compagno dell’uomo in tutti i climi, dalle isole del mezzogiorno, dove esso si ciba di banana, al mar polare, dove il suo cibo è il pesce, qui lavora in modo al quale non è abituato nelle regioni più favorite dalla natura. La necessità ha insegnato agli abitanti delle regioni settentrionali ad adoperare pel tiro questi animali relativamente deboli. Su tutte le coste del mar polare, dal fiume Obi allo stretto di Behring in roenlandia, nel Camciatca e nelle isole Curili, i cani servono a trainare le slitte cariche di persone e di materiale per distanze considerevoli.
I
cani presentano molta rassomiglianza coi lupi, hanno musi lunghi, aguzzi e
sporgenti, orecchie acuminate e dritte, lunga coda a pennacchio; qualcuno ha
il pelo
liscio, altri lo
hanno ricciuto; il
mantello è vario, nero,
bruno, rosso-bruno, bianco
e macchiato.
Variano in altezza, ma si ritiene che un buon cane da slitta non deve aver meno di due piedi e sette pollici e mezzo di altezza (metri 0,78), e tre piedi e tre quarti di pollice di lunghezza (metri 0,94). Il loro abbaiare è simile all’urlo dei lupi. Essi passano la vita all’aperto, nell’estate scavano nella terra buche per restare più al fresco, o si tuffano nell’acqua per evitare le zanzare, nell’inverno si proteggono seppellendosi nella neve e giacciono arrotolati col muso coperto dalla coda.
In
loro compagnia abbiamo passato il Natale…
La
notte polare principiava schiarata
dalla luna.
D’ora innanzi ogni mese, per la durata di quindici giorni, il nostro satellite ci avrebbe illuminati in modo sufficiente da poter lavorare e passeggiare all’esterno senza bisogno di fanali. Quando mancava la luna si era nell’oscurità assoluta. La scarsa luce crepuscolare, che si discerneva all’ora di mezzogiorno, diventò ogni giorno più debole, finché nella prima settimana di dicembre scomparve del tutto anche nelle giornate chiare. Né io né i miei compagni restammo colpiti dalla limpidezza del cielo. Nelle giornate serene gli astri, per un continuo polverio di neve sospeso nell’atmosfera, non brillavano, come molte volte m’è stato dato di vedere nelle regioni tropicali ed anche nel nostro paese. Il paesaggio appariva invero molto chiaro, ma questo si doveva attribuire all’intenso riflesso del ghiaccio.
I cani, dopo l’uragano dei primi giorni di novembre, non avevano più riparo nelle tempeste, e si rifugiavano in parte nel nostro vestibolo, in parte nel casotto degli strumenti. Qualcuno rimaneva all’aperto; se i più forti resistevano, i più deboli alla lunga avrebbero finito per soccombere. Accadeva qualche volta che, rimanendo qualche tempo accovacciati, per il calore del corpo si scioglieva la neve sotto di essi, e nel rigelo la coda rimaneva saldata al ghiaccio, e le povere bestie non potevano più liberarsi.
Si
pensò di
riparare i cani
in rifugi scavati
nella stessa neve trasportata
ed ammucchiata dal
drift, che qualche
giorno prima aveva minacciato
di seppellirli. Tutta la
gente si diede con
slancio a questo
nuovo lavoro, scavando
colle pale e
colle piccozze due caverne
alte un metro
e più, ampie
parecchi metri quadrati, aerate
per mezzo dei
manica-venti della macchina.
Alla luce delle lanterne queste grotte avevano un aspetto fantastico. Entro esse si chiusero tutti i cani; ma questi colle zampe e coi denti scavarono lateralmente alle porte un passaggio donde uscirono. Le nostre guide, da buoni montanari, s’impuntarono nel volerli imprigionare, e portarono presso le porte casse di galletta, e poi acqua che lasciarono gelare intorno ad esse, formando così un vero muro in cui le unghie dei cani non avrebbero potuto fare una breccia. Tutto ciò fu inutile: gli animali scavarono allora, lateralmente alle casse, dei tunnels, lunghi taluni da 5 a 6 metri. Certe volte uscirono all’aperto con sforzi inauditi dai manica-venti, il cui bordo interno era alto metri 1,20 e più sul suolo. La loro perseveranza e la loro astuzia, superiori alle nostre, ci persuasero a rinunciare di tenerli sempre rinchiusi e a lasciare che, durante le tempeste, si recassero da loro nei ripari.
Accennavo intanto alle modificazioni che il mio piano preventivo avrebbe avuto nella pratica. Infatti col dottore Cavalli si era già quasi fissata definitivamente la razione quotidiana di viveri a 1300 grammi per ciascuno, non tenendo conto degli involucri. Si prevedeva che, compresi questi, essa avrebbe superato i 1500, peso stabilito fin dal principio. Per questo aumento nella razione, si reputava necessario diminuire il numero delle persone di ogni gruppo, da quattro a tre, ma lasciando invariato quello delle slitte.
Il
23 nel pomeriggio uscimmo
come al solito, la
temperatura era sui - 2°,
ed il vento
spirava leggerissimo da maestro. Ci dirigemmo con
passo spedito verso
il fondo della baia;
la neve migliore
degli altri giorni
permise un’andatura assai più
rapida della solita.
Mentre andavamo innanzi, il vento rinfrescò alquanto, sollevando
una leggera foschia che
impediva distinguere le
slitte, e lasciava
scorgere appena il fanale
di Petigax che
camminava in testa
al gruppo.
Dopo un’ora e mezzo di marcia, Cagni, che era all’avanguardia, si fermò perché le altre slitte lo potessero raggiungere. Proprio in quel momento il vento si mise a soffiare con violenza, con una direzione diversa da quella di prima, e la temperatura si abbassò rapidamente a - 20°. Le traccia lasciate dalle slitte nella neve, che solo si vedevano in qualche punto ove questa era più molle, furono in breve tempo coperte, e diventò per noi difficile orientarci in quella posizione.
Si riprese
la via del
ritorno.
Cagni, che
si trovava con Petigax
e con me
nella prima slitta,
aveva molta fiducia
che i cani sapessero
trovare da sé
la strada della
capanna; ma, dopo pochi
minuti, ci dovemmo
persuadere che essi
avevano perduto le traccie
fatte nel venire.
Le slitte intanto
incominciarono a correre con
una notevole velocità,
e divenne evidente che
si stava scendendo
un pendio abbastanza
forte.
Dove mai c’eravamo sviati, poiché mentre credevamo di essere sul ghiaccio della baia, ci trovavamo invece sul ghiacciaio dell’isola?
Mi
spinsi innanzi con Petigax, ma
non si era
fatta una ventina di
metri, che sotto
il fanale si
vide il ghiacciaio
finire improvvisamente. Cercammo
di arrestare i compagni colle grida;
inutilmente, che i
cani vedendo innanzi
a loro il
fanale di Petigax vi
si diressero sopra
al galoppo, e
due slitte coi cani,
Cagni ed
io precipitammo dal
ghiacciaio sulla baia: un
salto di sette
od otto metri.
Le altre slitte per fortuna si arrestarono. Le prime parole di Cagni, confuse coi lamenti
dei cani, mi
resero dapprima inquieto, ma
presto fui rassicurato. Egli come me non s’era fatto
alcun male. Tranquillizzati i ompagni,
che chiedevano ansiosamente
di noi dall’alto del
ghiacciaio, rimanemmo ad
attendere che ci potessero
raggiungere.
Dove eravamo?
Nella giornata del 24 infierì una forte bufera di neve da ponente. La forza del vento era tale che Querini non poté recarsi nel casotto degli strumenti, distante appena trenta me- tri dalla tenda. Per giungervi sarebbe stato necessario essere legati con una corda. Questa bufera ci fece perdere la speranza di ritrovare le nostre slitte, ed infatti, sebbene ripetute ricerche siano state fatte non solo nell’inverno, ma anche più tardi nell’estate, esse rimasero affatto infruttuose. Il Natale fu da noi festeggiato colla maggior pompa possibile. Le nostre tende avevano avuto in quella occasione una buona lavata. Questa pulizia era vivamente desiderata. Ad operazione finita provammo la sensazione che la capanna non fosse più la stessa, e sedendoci a tavola per la colazione, sebbene l’acqua sola avesse fatto il miracolo, tutto ci parve bello.
Si avvicinava la fine dell’anno, ed anche questa festa fu celebrata con tutto l’entusiasmo possibile. Chi più contribuì all’allegria di quei giorni fu il dottore.
(S.A.R)
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