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Degli eredi della solitudine:
Prosegue con il capitolo:
Quasi al completo [6/7]
Il Viaggio prosegue
con i pionieri (8)
Ed
hora proseguiamo l’impervio Sentiero, l’antica dismessa mulattiera
con l’Anima in spalla qual peso dello
Spirito avvelenato dal nuovo ingordo progresso, in nome e per conto
del Diavolo spacciato per Santo; con la bisaccia colma dei
frutti della Terra, fors’anche
dell’intero Universo donde proveniamo;
privati della materia di cui si ciba
la vera, e dicono, sana bestia; con
passo malfermo di chi per sempre perseguitato dal male antico nel conto
della falsa dottrina divenuta ideale
di vita; superiamo il ponte proibito,
là ove le mura cingono l’assedio della falsa parabola protesa e immobile nel
Tempo della Storia; ci sporgiamo dal ponte per ammirare ogni Anima rinata - impervia - seguire il
corso dell’innominata e perseguitata
Natura, impetuosa precipitare a valle - conferire la vita -; sino alla grotta, il riparo ove per secoli, meditata ispirata parola da Lei comandata; dona l’oblio della mitica
forza forgiata dal Dio e sua figlia, Dèa cinta dell’Immacolata bellezza
perseguitata; Natura divenuta oracolare sibillina incompresa Poesia; come nel ventre d’una antica Dèa l’oracolo rinasce all’Anima
frammentata dalla crosta sino alla più alta vetta della Stratosfera!
Ove
ogni Dèmone del cielo medita giusta vendetta!
Il Verso dello Sciamano, dell’Oracolo, del Profeta diviene parola scolpita in difesa dell’Innominato Dio, Immacolata Natura donde la sua parola derisa e perseguitata.
Proseguiamo
l’eterno cammino là dove, nella misera hora
del Tempo conservato e giammai mutato, corre il fuoco della sulfurea Apocalisse, color acciaio temprato,
spacciata per ogni mercato, alla medesima grotta oro della miniera; forgiano il
ferro dell’armatura esposta ad ogni araldo della protetta fortezza.
L’oro
della perduta Anima cinge la corona del Dèmone civilizzato. La Bestia gli fa’ compagnia tiene in grembo
i putti del domani allevati come maiali.
Il
Feudo urla come un Drago intravede il Dèmone della Natura!
Una strada ben asfaltata - ovvero - l’equivalenza del nuovo progresso in uso all’insana economica dottrina avanza, di cui l’apparente leggenda, il mito, il rito, l’eresia, connesse e legate fra loro, ovvero un perduto mondo pagano perseguitato additato e spacciato per demoniaco, infero quanto e più del Diavolo, in compagnia di preti in odore d’eresia, comporre sulfureo elemento alchemico contrastare la materia.
Ci adeguiamo, quindi, alla geologia della Terra, giacché pur vero, che se abbiamo testimonianze di terremoti dal 1700, qual terrore manifesto dei vissani non meno dei norcini, presumiamo che tali eventi tellurici, anch’essi specificati e interpretati nel mito, conferivano e stabilivano (per quanto ancora oggi in taluni luoghi si prova e rileva una determinata energia provenire dalla Terra) un legame connesso con i sulfurei Inferi (non un caso l’oracolo di Delfi, il più noto e celebrato in Grecia quale testimonianza di una determinata Filosofia rilevata, per l’appunto, dagli Oracoli, come testimonia Plutarco, quale luogo situato in un contesto geografico come culturale non certo casuale connesso nella costante divinazione della Terra interpretata dal sulfureo antico atto dell’intera età evolutiva tradotta nella mitologica filosofica dottrina, sino alla morte di Pan l’eroe anch’egli della Natura…),
...verso il mondo sotterraneo e tellurico di una vasta tradizione di Dèi accompagnati da Dèmoni, quando in verità e per il vero, sappiamo il centro della Terra sino alla più elevata Stratosfera, evolvere la propria ed altrui frammentata connessa Natura; dalla quale ogni sconnesso quanto vano, odierno evento seminato e raccolto, simile al più volgare inutile veleno; avversare equiangolare moto dato dall’Universo intero, manifestare la propria presenza quanto l’antico disprezzo, l’ira d’ogni perseguitato avvelenato Elemento, Dio del Creato; dai moti delle stelle alle maree, dai fenomeni vulcanici, sino agli elevati imperi del cielo, sospesi nell’impercettibile invisibile atmosfera, uditi da una umile conchiglia, tutti indistintamente legati tra loro meditare giusta vendetta, così come intuirono e compresero gli antichi alla spiagge d’un saggio mare hora irrimediabilmente naufragato.
Cosa che forse abbiamo dimenticato, solo con l’Ecologia si è (ri)scoperto come l’Universo, e sua figlia la Terra, donde nata e maturata la materia in contrasto con lo Spirito eterno, in perenne costante connessione e reciproca avversione, sino al costante, lento mutevole equilibrio dato dalla Evoluzione (disgiunta e coniugata dal ‘peccato originario’); quindi l’imprescindibile legame dalla più alta Stratosfera, sino alla basse e ancora poco note, correnti degli Oceani, legami che rendono un equilibrio da precario a stabile.
Da stabile a duraturo, dimostrando
che la Natura e ogni suo dèmone tende
alla perfezione, l’uomo all’opposto, alla distruzione.
Così
dedurre, o meglio, tradurre in senso Storico quanto geologico, Santi per
Dèmoni, e Dèmoni per Santi, ci pare la giusta progressione donde rilevare il
nostro dismesso codice genetico. I roghi
appartengono all’intolleranza umana protratta e numerata per Secoli, inerente e
confacente all’impropria materia mal interpretata; al contrario, le ceneri di
ogni magma, alla costante espressione della Natura rinata per ogni Anima
perseguitata incarnare l’offeso Elemento.
La
quale Anima la si rileva fra il ghiaccio e il fuoco, così come riconosciamo
l’Universo.
Certamente il dominarla come il comprenderla, pone l’Evoluzione dell’uomo - riflessa nella propria Storia - rispetto alla dedotta geologia, in un contesto asimmetrico, quando la simmetria nella specificità d’un sacro Universo, rimossa, nel variegato - composto - preciso immutato evoluto sistema rimembrato del perduto Sentiero, convergere immutabile verso la Cima d’ogni Dio padre dell’Immacolata Dèa Natura.
Per
secoli e millenni lo abbiamo invocato!
Spesso
in sua vece adorano il diavolo!
Pan
di nuovo morto?
Con la sacra dottrina assommata ad altre scienze, compresa l’antropologia si è cercato, a e con Ragione, di interpretare quanto rimosso. Di dedurre quanto celebrato nell’apparente incoerenza del mito. Tutte queste scienze sacre connesse tra loro, daranno la risultante della Natura esplicitata nelle diverse sue Forme, a cui l’uomo appartiene sin dall’inizio dei Tempi, cioè all’ultimo Secondo dell’intero arco evolutivo.
Prima
di lui, per milioni di anni la stessa Natura
si è evoluta, ha parlato una lingua scomposta e frammentata, oracolare, ne più
ne meno di un essere vivente affiorare dall’antica elevata sulfurea dimora, il
quale crescendo migliora il suo essere ed appartenere all’Universo. Perfeziona
la propria incompresa lingua dettata da una grammatica troppo antica per essere
rimossa oppure dimenticata!
L’uomo
è riuscito, in pochi sconnessi, incompiuti frammentati articolati dotti
linguaggi, quanto Dio e sua figlia, la Natura,
mai avrebbero osato o solo immaginato, l’impareggiabile linguaggio del Diavolo!
Ma ora riprendiamo il nostro Sentiero.
(Giuliano)
Ma quanto è antica questa negromantica fama?
Possiamo
ritornare indietro nei secoli e aprire le pagine del poeta.
Fra
i poeti, infatti, risponde per primo all’appello Fazio degli Uberti col suo Dittamondo,
composto, a più riprese, tra il 1346 e
il 1367. Fazio immagina una
fantastica tournée intorno alle tre parti del mondo, compiuta per incitamento
della Virtù e in compagnia dell’antico geografo Solino.
Descrive
paesi e contrade, ricorda storie e personaggi in una sequenza di
allegorizzazioni moraleggianti che raggelano il suo verso, descrittivo e
sciolto, ma senza un intimo movimento lirico. Ebbene, Fazio, da buon toscano che punzecchia volentieri i marchisani,
come Boccaccio e il Sacchetti –
perché i toscani hanno sempre un po’ sul
naso i marchigiani, fino a Michelangelo che si avvelenava il sangue contro
Raffaello e più contro il suo conterraneo protettore Bramante – fa della Marca
nientemeno che la patria di Giuda:
Entrai nella Marca, com’io conto,
Io vidi Scariotto, onde fu Giuda,
Secondo il dir d’alcun, di cui fu conto.
Gli studiosi hanno voluto cercare veramente qualche paese delle Marche che suonasse come ‘Scariotto’, e il Crocioni pensa a Montecarotto, che al genitivo latino suona ‘Montiscarotti’.
Fazio, più attento
alle favole strane che alle vere bellezze del Piceno, subito dopo, in alcuni
versi ascrivibili al 1360 circa,
ricorda anche la fama negromantica del Lago di Pilato:
La fama qui non vo’ rimanga nuda
Del Monte di Pilato, ov’è un lago
Che si guarda la state a muda a muda,
Perché, quale s’intende in Simon
Mago,
Per sacrar il suo libro là si monta,
Ond’è tempesta poi con grande smago,
Secondo che per quei di là si conta
(libro III, cap.I)
…Ma si sa, questi versi scialbi e incolori hanno più importanza di documento che di poesia, anche perché di poesia Fazio non se ne intendeva molto.
Ed
eccoci a un altro poeta toscano, il Pulci,
che può cantare le ricchezze negromantiche del lago per averlo visitato
personalmente. Il suo sentimento verso le arti occulte qui oscilla fra il ‘bel
gioco’ e l’appassionata curiosità, più volte peccaminosamente soddisfatta. Egli
nel suo Morgante maggiore,
discorrendo in generale sulla licealità e sul potere della magia e degli
incantesimi, a un certo punto esclama:
Così vo discoprendo a poco a poco
Ch’io sono stato al Monte di Sibilla,
Che mi pareva alcun tempo un bel
gioco;
ancor resta nel cor qualche scintilla
Di riveder le tanto incantate acque,
Dove già l’ascolan Cecco mi piacque.
E Moco e Scarbo e Marmores allora
E l’osso biforcato che si schiuse
Cercavo, come fa chi s’innamora;
Questo era il mio Parnaso e le mie
Muse;
E dicone mia colpa e so che ancora
Convien che al gran Minos io me ne
scuse,
E ricognosca il ver con gli altri
erranti,
Piromanti, idromanti e geomanti
(c. XXIV, stanze 112-13)
E’ chiaro che il Pulci cercava i segreti della magia studiando l’Acerba di Cecco d’Ascoli, perché i nomi Moco, Scarbo e Marmores sono quelli misteriosi degli indovini, ricordati appunto dal poeta ascolano, insieme con ‘l’osso biforcato’, che è l’osso pettorale del gallo.
Il
Pulci dovette avere una bella ‘cotta’
per la magia, se fece con essa ‘come fa chi s’innamora’. La sicurezza del
linguaggio negromantico lo conferma, specie in quell’ultimo verso disteso a
galoppo di focoso puledro:
Piromanti, idromanti e geomanti…
Tutta gente diabolica, protesa a prevedere futuro dal guizzo delle fiamme e dalle code delle meteore ignee e delle stelle, e con loro in grotte scure a rimeggiare e cercare: studiare il comportamento bizzarro delle acque o da segni cabalistici sul terreno protesi nel proprio primo e primordiale Sé…
(G. Santarelli)
Plutarco, vir Delphicus, è il più alto difensore della fede oracolare intesa come saggezza. Perciò afferma:
L’arte mantica che si volge al futuro
deriva dal presente e dal passato. Nulla infatti sorge senza una ragione e la
stessa prescienza non può uscire dall’ambito della ragione. In verità, dal momento
che le cose presenti sono strette a quelle passate e le future alle presenti in
un vincolo tale che serra compiutamente il principio delle cose con la loro
fine, si può concludere che chiunque sappia stringere tale nodo e intrecciare
tutte le cose nell’ambito della Natura, costui saprà dire, in anticipo, le cose
che sono, le cose che saranno, le cose che furono. E fece bene Omero a far precedere ‘le cose
che sono…’. Perciò, anche se l’espressione
suoni male, non esiterò ad affermare che il tripode non è altro che Ragione.
Così, l’oracolo antico, nella sua forma più alta e duratura che fu la religione delfica, la quale rese vassalli gli oracoli di Aba, Tegira, Claro, Ismeno, Didime, Delo, fu saldamente ancorato al dettame della Ragione e, ora con la lotta, ora con l’alleanza, prevalse su gli oscuri riti misterici, sul furore dionisiaco, su i culti orfici, assorbendo tutte le forme oracolari nella sua luce apollinea.
Un
appello supremo alla ragione : ecco l’oracolo.
Apollo fece sì che la Pizia conversasse
con i consultanti nel modo che tengono le leggi con i cittadini, i re con i
sudditi, i maestri con gli scolari: con l’intento, cioè, di farsi comprendere e
di persuadere.
È
il trionfo della ragione.
Tra
breve, la bocca furibonda della Sibilla
eraclitea, il profetismo dei
cresmologi orfici, la tradizione delia, le spoglie di Crisa, trapassano a Delfi, al nuovo tripode
della Pizia. Lì Apollo esercita i quattro uffici: musico, profeta, medico, arciere.
Ora, tra il dio, cresciuto, così, di tutta la ricchezza dell’anima greca, e i
supplicanti dell’oracolo occorreva un medium.
Finché era rimasta profetessa la Terra, bastò che l’orante posasse il cuore sul suo seno e ne traesse il sogno (incubazione): ma d’ora innanzi Apollo parlerà umanamente per voce di una giovinetta: fu Dafne, ghermita per sempre, o Themis, figlia della Terra, che ammiriamo ancora dipinta sulla coppa di Vulci?
Sta, la bellissima giovinetta, alta sul tripode: nella mano destra ha il ramo di lauro e regge con la sinistra una pàtera che guarda, fissamente. Il velo non chiude che una piccola parte del capo: i piedi sono nudi e alti sulla Terra. La testa è china, come quella di Psiche, e sembra ascoltare, pacata, il palpito del petto appena sommosso del Nume. L’ignoto ceramista attico non avrebbe riconosciuto la Pizia furente di Lucano e del Crisostomo - capelli sparsi, contorsioni furenti, labbra schiumose - ; eppure, la pittura vascolare del V secolo si compiaceva di rappresentare oracoli e sibille oppresse da un tumultuoso delirio.
Dinanzi a quella figuretta serena e raccolta, dobbiamo concludere che Lucano, per la suggestione di Virgilio, confuse la Pizia con la Sibilla. Come ce la dipinge il pittore del vaso attico, così ce la descrive, sette secoli dopo, Plutarco. Il tripode che è ragione, secondo la convinzione di quel pio sacerdote delfico, non è seggio adatto per una profetessa furente. Dalla figurazione ancora mitica di Temi si trapassa alla Pizia plutarchea, attraverso testimonianze storiche recanti nomi, volti, episodi, descrizione del rito mantico, con tal segno di sincerità che noi oggi non degniamo di una risposta la tesi del Fontenelle.
La fanciulla di campagna, che divenne
Pizia, allorché Plutarco esercitava
il sacerdozio, è arrivata da poco per sostituire la Pizia morta dopo una
consultazione, alla quale era stata sottoposta riluttante. Il modo stesso con
cui Plutarco ne dà racconto prova che
si tratta di un caso assolutamente eccezionale, il medesimo, forse, che tinse
di orrore la consultazione di Appio, nella Farsaglia. Alla dochimanzia - narra Plutarco - la vittima era rimasta
inerte, e nondimeno la Pizia era stata costretta a purificarsi alla fonte
Castalia e ad aspirare il fumo del lauro. Rivestita del costume di Apollo Musagete,
ella aveva bevuto l’acqua della sorgente Cassotis ed era salita sul tripode,
con una foglia d’alloro in bocca e col ramo nella destra. Sin dalle prime
risposte fu chiaro, all’asprezza della voce, che essa non aveva deposto il suo
turbamento e rassomigliava a una nave con la chiglia rotta, in balìa d’uno
spirito muto e maligno.
Alla fine, tutta squassata e con un grido strano e tremendo, cadde riversa, mentre si slanciava verso l’uscita. Atterriti, fuggirono non solo gli stranieri venuti a consultare l’oracolo, ma anche i sacerdoti e lo stesso profeta Nicandro... Pochi giorni dopo la Pizia mori.
Non
è nostro compito raccogliere qui altre testimonianze donde risulti che l’empito
della profezia non è di natura dionisiaca. Al più, si potrebbe concedere che si
trattasse di uno stato di estasi simile a un dolce assopimento, a un sogno, a
un vaneggiamento .
Poi
la voce oracolare tacque.
Non solo la Beozia, ma tutta la Grecia - risonante per secoli di molteplici voci divine: arte, poesia, pensiero, responsi di numi – ammutoliti per sempre. È un’epoca stanca. I Flavi stessi, dopo l’impresa di Gerusalemme, sono come presi da quel senso extra-temporale che ispira l’Oriente. Giuseppe Flavio e Filone versano, nella storiografia e nel platonismo, la nostalgia biblica e l’elegia lamentosa di Sion…
Plutarco,
sacerdote delfico e console romano, tenta invano di nascondere sotto l’epopea
delle Vite il presagio di morte che si stende su tutte le forme del mondo
antico, ed attestando quella pace delfica e romana, così profonda da
rassomigliare a una vigilia di morte, sembra rimpiangere i tempi di Maratona.
L’oracolo,
che ai suoi grandi giorni era stato politico e morale, ora è poetico e
decadente sino a farsi patetico. Ingrossa invece il flutto della malinconia a
sommergere la voce oracolare delfica, fioca ai tempi di Plutarco e spenta sotto Giuliano.
Dal primo secolo dell’era, mentre il carisma pentecostale avanza, l’oracolo delfico sente il disgusto delle domande volgari che salgono al tripode e avviliscono: sposarsi, navigare, mercanteggiare!
Plutarco è un fedele
della religione platonica e il suo delfismo è, anzitutto, platonismo. I
personaggi che salgono come un corteo sacerdotale, tra le immagini del Museo pitico,
sino alla Lesche dei Cnidi, sono fratelli ideali di Fedone ed Eutifrone; tra loro
non c’è posto per il cinico Planetiade. Non
freme, però, nel dialogo plutarcheo l’Eros del Simposio, sì bene un
genio presso a morire; di tutta l’opera religiosa plutarchea, la morte di Pan batte la nota fondamentale, cupa
come una marcia funebre.
Nella Descrittione di tutta l’Italia di Leandro Alberti, invece molti secoli dopo, pubblicata nel 1550, troviamo i seguenti passaggi:
Vedesi alla parte de quest’altissimo
monte [Monte Vettore], che riguarda all’oriente, quel tanto famoso Lago del
quale se dice che vi apparevano i demoni costretti dagli incantatori, et che
qui vi parlano con essi. [...] Poscia alquanto più in su nell’Apennino nel
territorio Nursino, evi il Lago [...]
Secondo
Petrus Berchorius e il suo trecentesco Reductorium Morale, dal quale abbiamo già avuto modo di trarre
citazioni, esseri demoniaci dimoravano già, in modo palese, le gelide acque del
Lago:
Tra le montagne che si innalzano in
prossimità di questa città [Norcia] si trova un lago, dagli antichi consacrato
ai dèmoni, e da questi visibilmente abitato.
Il signore il cui oracolo si trova a
Delfi non dichiara e non nasconde, ma accenna.
La natura tende a nascondersi.
(Eraclito)
[Prosegue con il capitolo quasi al completo]
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