CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
30 MAGGIO 1924

sabato 23 aprile 2022

IN ATTESA DEL 25 (dedicato alla patria caduta)

 










Precedenti capitoli 


di un dialogo 


fra una bicicletta 


e un carrarmato 


Per il bene 


dell'Avvenire del lavoratore! 


Prosegue con: 


la forza di un Fiore 







& il capitolo quasi completo







C’era una volta l’Italia. Era una bella signora di maestose forme e recava in mano una grande spada e in testa portava una corona turrita ornata d’una stella splendente.

 

Una signora nobilissima ma senza prosopopea, la quale non si offendeva se, in giro, la chiamavano confidenzialmente col nome di un famoso formaggio: il bel paese.

 

Una signora la quale, quando le facevate visita, vi mostrava compiaciuta i ricordi della sua antica opulenza e vi raccontava, sospirando dolcemente, i particolari della sua romantica avventura col biondo nizzardo.




Una signora di modesta rendita ma che teneva un’ottima tavola e viveva felice nella sua bella casa di campagna, in mezzo ai fiori e alle messi.

 

C’era una volta l’Italia: una brava signora che, una bella volta, si montò la testa con le cattive letture, sì che prese ad andare in giro con gran piume di struzzo in testa e con abiti a lungo strascico, scollati dall’ombelico al coccige.

 

E frequentò le cattive compagnie che la condussero giù giù per la china del vizio. E ogni cosa andò a catafascio.




C’era una volta l’Italia e si trattava di una dolce cosa. Ma erano quelli i tempi in cui l’Italia (come si diceva) era soltanto un’espressione geografica. Poi volle diventare un’espressione storica e (nella sessione di luglio) fu bocciata in storia e geografia. Rimandata alla sessione di settembre, si mise a posto con la storia.

 

Ma cadde nella geografia e ora deve ripetere l’anno.

 

Ma, nella prossima sessione estiva, se la caverà bene in storia e anche in geografia.

 

Cadde lungo la corsa, sembrava una leggera discesa, poi divenne l’Abisso con solo ma morte incisa sull’elmetto, sulla camicia nera e poi rossa, rossa e nera, mai sia detta Rosa speranza e amore d’una corsa terrena. Per questo andiamo o fuggiamo in biciletta addio antica Dèa…




Addio, vecchia Dèa con la dinamo, il carter e il freno contropedale.

 

Quando ti vidi per la prima volta avevo quindici anni e davanti a me si stendeva tutta ancora la strada della vita, una strada bianca di sole, macchiata qua e là da fresche ombre piene di promesse. E per vent’anni la percorremmo insieme e tu me la rendesti meno dura.

 

Tu mi insegnasti la gioia delle albe fresche e rugiadose che nascono dietro i verdi colli conquistati pedalata per pedalata.

 

Tu mi insegnasti la pace dei meriggi, lontano dal catrame rovente della città.




Tu mi insegnasti la dolce malinconia dei tramonti fra i prati verde-cupo, intersecati da canali pieni di cristallo fuso.

 

Con te io galoppai lungo i viali diritti della periferia inseguendo, nelle sere estive, le ombre dei miei sogni e dei desideri della mia giovinezza.

 

Il primo amore: due cuori e una bicicletta sola, e tu sul ghiaietto delle viottole fuori barriera rollavi dolcemente e - per ogni sassetto che pizzicavi fra il cerchione e la gomma e facevi schizzar via - i raggi ben tesi risuonavano come corde d’arpa.

 

Dleeen!... La ‘prima nomina’: due potenti speroni e soltanto un sellino di bicicletta.




Galoppate furibonde per mettere d’accordo il servizio di batteria e l’appuntamento con la bionda n° 1; l’ispezione esterna e la bionda n° 2.

 

Vent’anni camminammo assieme, vecchia Dèa.

 

E ora sei lì, appoggiata al muro, e fra te e me c’è ormai l’abisso di un armistizio. Ti guardo, vecchia Dèa, e vedo sulla canna più alta del telaio, vicino al cannotto dello sterzo, una specie di bernoccolo nichelato, con una vite a pressione e una finestrina: l’innesto di una piccola sella supplementare.

 

Ricordi quando te l’avvitai la prima volta?




Pareva che l’orgoglio ti avesse gonfiato a dismisura i pneumatici e tutte le canne del telaio. E il campanello suonava come un carillon di campane, e l’ingranaggio della ruota libera cantava alto e potente, e i freni, solo a toccare le leve, stridevano di gioia e tu, vecchia bicicletta, procedevi tronfia, pettoruta e maestosa come una Isotta Fraschini a sedici cilindri perché sul sellino supplementare era seduto il nostro primo bambino.

 

Addio, vecchia Dèa: io parto e tu rimani.

 

Opterai come il mio vecchio colonnello?




No, tu sei più di carattere di lui.

 

O ti darai alla macchia unendoti a quelle animose e inafferrabili biciclette che saetteranno e folgoreranno poi lungo le strade di tutt’Italia?

 

O piuttosto (sei così luccicante ancora e fai tanto gola) ti deporteranno nel triste Nord?

 

Ti rivedrò? Dio solo lo sa vecchia Dèa, Dio che stringe nel suo pugno il destino di tutti gli uomini e di tutte le biciclette del creato.

 

E così sia.

 

Collaborazione al giornale parlato La Campana.

 

(Guareschi)








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