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“In verità, per i malvagi che si accingono a compiere i loro ben meditati delitti non esiste incoraggiamento maggiore di questo: l'ingiustizia produce un frutto presto maturo e facile da cogliere, mentre il castigo sopraggiunge tardi, molto dopo che se ne sia goduto”.
Patroclea aveva terminato il suo discorso, quando Olimpico soggiunse: “Patroclea, un altro effetto strano e di gran peso producono la lentezza e l'indugio del dio in queste cose: il ritardo distrugge la fede nella provvidenza, poiché il malanno che giunge ai cattivi non subito dopo la colpa, ma più tardi, viene attribuito al caso; essi non lo definiscono ‘castigo’ ma ‘sventura’, e non ne traggono profitto, perché si ribellano per gli eventi anziché pentirsi per le proprie azioni”.
“La sferzata e il colpo di sperone, quando vengono immediatamente dopo un errore o un passo falso, correggono un cavallo e lo rimettono a posto, mentre battiture, punizioni, grida, ritardate dopo un certo tempo, gli danno l'effetto di dipendere da tutt'altro che dall'istruzione perché lo fanno soffrire senza che nulla gli venga insegnato; così la malvagità percossa e battuta per ogni colpa o errore può infine essere ricondotta alla ragione, divenire umile e timorata del dio, riconoscendo che a lui spetta di presiedere alle vicende e alle passioni umane come giudice solerte. Al contrario la giustizia lenta che procede con tardo passo (per usare le parole d'Euripide) e si abbatte sui malvagi quando capita ha in comune con il caso più che con la provvidenza l'incertezza, l'intempestività, il disordine. Non vedo dunque quale vantaggio vi sia in questi cosiddetti ‘mulini degli dèi che macinano tardi’: essi rendono invisibile la giustizia e vanificano il timore del castigo”.
Tali furono dunque le sue parole, e io stavo meditando su di esse, quando intervenne Timone: “Devo anch'io mettere l'ultimo mattone del dubbio sul nostro ragionamento, o lasciare che prima si contenda contro questi discorsi?”. “Perché mai” risposi “si dovrebbe scagliare la terza ondata e affondare completamente il discorso, se non sarà capace di respingere le prime due accuse e di salvarsi da esse? Prima di tutto, iniziamo dal focolare paterno, ossia dalla reverenza verso il divino che è propria dei filosofi dell'Accademia: non presumiamo di parlare intorno a questi argomenti come se ne sapessimo qualcosa. Più difficile, infatti, che per un ignaro di note discutere di musica, o per un inesperto di anni di strategia è che noi, uomini come siamo, indaghiamo le cose degli dèi e dei demoni: simili a quegli sprovveduti che pretendono di congetturare i progetti dei competenti con il buonsenso e l'intuizione, secondo il criterio della verosimiglianza.
Non spetta ad un profano di comprendere il motivo per cui il medico non incide prima ma dopo, cauterizza non ieri ma oggi; allo stesso modo, a proposito degli dèi, la cosa più facile e sicura per un mortale è non dire altro che questo: conoscendo perfettamente il momento in cui va curata la malvagità, essi somministrano a ciascuno il castigo come un farmaco, né questo ha una misura di grandezza comune né un tempo solo e identico per tutti. E che la medicina dell'anima, chiamata giustizia e rettitudine, sia la maggiore tra tutte le arti lo testimonia anche Pindaro insieme a moltissimi altri, quando definisce ‘artista supremo’ il dio sovrano e signore del tutto, come colui che è artefice della giustizia, alla quale appartiene di misurare il tempo, il modo e la misura della punizione di ogni singolo malvagio. Discepolo di quest'arte, secondo Platone, è stato Minasse figlio di Zeus, poiché nell'amministrare la giustizia non è possibile essere equi né comprendere l'equità di altri se non si è studiata questa scienza in modo da possederla.
“Considerate dunque il primo punto: secondo Platone, il dio si è posto come paradigma di ogni bene e concede la virtù umana, per cosi dire ricalcata su se stesso, a coloro che il dio sono capaci di seguire. L'ammasso caotico della natura iniziò a prender forma e ad assumere l'ordine dell'universo appunto assimilandosi e partecipando in un certo modo alla forma e alla virtù divine; e lo stesso Platone afferma che la natura ha acceso la vista in noi perché l'anima, davanti allo spettacolo meraviglioso dei corpi che si muovono nel cielo, si avvezzi ad amare e a ricercare il decoro e l'armonia, a prendere in odio le passioni disordinate ed instabili, a fuggire ciò che è fortuito e occasionale in quanto origine di ogni malvagità e trascuratezza. In nessun modo all'uomo è dato di attingere al dio meglio che imitandolo e ricercando ciò che in lui è buono e bello, nel conseguire la virtù.
“Per questo il dio impone la giustizia ai malvagi solo nel tempo, e con calma: non per timore che la rapidità del castigo lo conduca a errori o ripensamenti, ma per eliminare la violenza e il furore dalle nostre vendette. Egli insegna a non aggredire chi ci ha offeso come se dovessimo appagare la fame o la sete, mentre siamo in preda all'ira e maggiormente si agita infiammato l'animo che balza al di sopra della ragione bensì a por mano alla giustizia con ordine e senso della misura, imitando la sua mitezza e pazienza, e prendendo come consigliere il tempo, che ben di rado produrrà rimorsi. Gettarsi in una torbida fiumana e abbeverarsene per intemperanza, diceva Socrate, è un male minore che aggredire per vendetta il corpo di un uomo il cui sangue e la cui razza sono gli stessi nostri, mentre ancora la ragione è inquinata e piena di un'ira folle, né ci si è ancora placati o purificati. Dunque, non ‘la rappresaglia che segue immediatamente l'offesa’, di cui parlava Tucidide, bensì quella che più ne è lontana raggiunge lo scopo.
“Come
il furore, per usare le parole di Melanzio,
compie azioni tremende quando prende
[il posto del senno
...così
anche la ragione agisce secondo giustizia e con misura, quando allontana da sé
l'ira e lo sdegno. Quindi, si può apprendere la mitezza anche da esempi umani:
così Platone, levato il bastone contro uno schiavo, rimase a lungo immobile per
castigare (fu lui stesso a dirlo) la propria ira. Archita, accortosi che i
servi nei campi erano pigri e disordinati, e sentendo d'essere troppo acceso
d'ira e inasprito contro di loro, non fece nulla, ma si allontanò dicendo
soltanto: ‘Siete fortunati che sono sdegnato con voi!’. Se dunque il ricordo di
parole e il racconto di fatti umani bastano a contenere l'impeto e l'eccesso
dell'ira, è di gran lunga più naturale che - prendendo come modello il dio, il
quale non conosce timore o pentimento alcuno e tuttavia procrastina nel futuro
il castigo e lascia trascorrere il tempo diventiamo noi stessi disposti a un
simile atteggiamento: giudichiamo aspetti divini della virtù la mitezza e la
magnanimità che il dio esercita punendo alcuni subito per compiere giustizia,
molti altri dopo lungo tempo per offrire vantaggio e ammonimento.
“Consideriamo poi questo secondo argomento. Il castigo che viene dagli uomini, avendo solo uno scopo di ritorsione, si arresta quando ha reso il male a chi l'ha compiuto, ma non va oltre: come un cane, esso latra contro i colpevoli e li incalza, perseguitando i misfatti di pari passo. Dobbiamo presumere invece che il dio, quando si accinge a giudicare un'anima malata, valuti prima se le sue passioni possono essere volte al pentimento, e a chi non è completamente e irrimediabilmente malvagio conceda per qualche tempo una sospensione della pena. Egli ben conosce, infatti, quanta parte di virtù le anime portino con sé alla nascita, derivandola da lui. Sa che la loro nobiltà è salda e non effimera, ma germoglia il male contro natura, quando è corrotta da un nutrimento sbagliato o da cattive compagnie: però, curata con certi rimedi, riacquista perfettamente la qualità che le conviene. Perciò il dio non si precipita a castigare tutti nello stesso modo. Elimina subito dall'esistenza e annienta ciò che è inguaribile, poiché convivere sempre con la malvagità è dannoso per gli altri, ma ancora più per se stessi; a quelli in cui invece la tendenza all'errore sembra essersi prodotta più per ignoranza del bene che per scelta del male concede un rinvio perché cambino vita, ma se perseverano, infligge anche a loro il castigo: certo non teme che possano sfuggirei.
[……]
“Infatti, se l'indole di orsi, lupi, scimmie si rivela subito nei cuccioli senza nulla che la celi o dissimuli, la natura umana subisce l'influsso di abitudini, opinioni, leggi; sovente nasconde i suoi difetti e imita il bene, tanto da cancellare completamente ed evitare la macchia della malvagità insita nella stirpe, oppure da nasconderla per lungo tempo, come avvolgendo la scelleratezza dentro un guscio. In questo modo riesce a ingannarci, e ci avvediamo della malvagità solo alla fine, quando siamo colpiti da qualche ingiustizia come da una sferzata o da un morso; o per meglio dire, riteniamo che diventino malvagi solo quando commettono un atto malvagio, i violenti quando oltraggiano, i vili quando fuggono. Egualmente si potrebbe credere che gli scorpioni abbiano il pungiglione solo quando pungono, e le vipere il veleno quando mordono; in verità, ogni essere malvagio non diviene tale solo nel momento in cui si manifesta: ha in sé la malvagità fin dall'inizio, e la mette in atto cogliendo l'occasione e la possibilità, il ladro rubando e l'uomo tirannico violando le leggi. Ma il dio non ignora certo l'indole innata di ciascuno, dal momento che per sua natura percepisce più lo Spirito che il corpo; e non attende che la violenza giunga nelle mani, l'impudenza nelle parole, l'intemperanza nei genitali per punirle. Egli non aggredisce il colpevole per un'offesa patita, non si sdegna contro il ladrone perché l'ha aggredito, non odia l'adultero perché l'ha oltraggiato; ma, sovente, castiga l'adultero, l'avido, l'ingiusto solo al fine di guarirli, sopprimendo la malvagità prima dell'accesso, proprio come l'epilessia.
“Ma noi prima ci sdegnavamo perché i malfattori sono puniti tardi e lentamente; ora accusiamo il dio, perché ancora prima che si compia un delitto raffrena in alcuni la predisposizione naturale. In verità, a noi sfugge che spesso il futuro è peggiore e più tremendo del passato, ciò che rimane ignoto di ciò che è palese: dato che non siamo in grado di comprendere le cause per cui è meglio tollerare che alcuni giungano fino all'ingiustizia, ma altri occorre prevenirli quando ancora meditano di compierla. Allo stesso modo ad alcuni, sebbene ammalati, non giovano medicine utili ad altri che, pur non essendo infermi, sono in condizioni più precarie.
(Plutarco) & il capitolo completo & una lettera dell'Editore
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