Dello stesso autore:
Un altro Universo
Prosegue in:
Viaggi onirici (3)
Introduzione
(maggio 1920… 1640…)
… Camminavo, o meglio
mi trascinavo, attraverso quella che sembrava una palude interminabile e priva
di alberi, sotto un cielo di piombo.
Mio compagno era un
uomo talmente vecchio da spaventarmi, sebbene sentissi che lo conoscevo, o che
per lo meno lo avevo conosciuto. I capelli bianchi gli scendevano lungo le
spalle, e la barba arrivava quasi sino in terra. Nonostante l’età, era più
forte di me, perché seguiva senza sforzo un sentiero che mi affaticava.
Improvvisamente innanzi
a noi apparve una casa solitaria. Era molto antica, simile alle fattorie del
New England costruite dal 1640 al 1680, con un tetto a mansarda esageratamente
obliquo, ricoperto di tegole di legno. Mentre ci avvicinammo alla casa, il
vecchio disse, rivolto a me: ‘Non è cambiata’. Io non risposi, e il vecchio
aggiunse: ‘In duecento anni, non è cambiata’.
Ancora rimasi
silenzioso, e lui disse: ‘Sei stato un folle ad aspettare di rinascere; io sono
più saggio, e ho vissuto per tutto questo tempo’. Non appena ebbe detto questo,
mi parve di ricordarmi di lui. Era vestito di stracci così scoloriti e informi
che era impossibile immaginarne la provenienza: avrebbero anche potuto esser
pezzi di sacco cuciti insieme. Ma come lo ricordavo io era giovane, vestito di
un soprabito rosso e alti stivaloni, con una grande parrucca nera e il cappello
a tre punte.
La sua faccia, in
questo vago ricordo, era liscia, ma scura per le radici di una barba
prodigiosamente fitta. Allora dissi anch’io: ‘Non è cambiata’. Ci avvicinammo
alla casa ed entrammo, trovando all’interno uno strato di intonaco caduto, e
una generale rovina. Cominciammo a salire una scala pericolante. Il vecchio
disse: ‘La troveremo proprio come prima’.
Io aggiunsi: ‘Dopo due
secoli, la cosa sarà sempre la stessa, la troveremo di sopra’. Ancora salivamo.
L’edificio aveva due soli piani, ma la fine dell’antica scala sembrava non
arrivasse mai. Su, su, su,… finché le pareti intorno a noi si confusero con la
nebbia e le nubi turbinanti… e sempre salivano….
‘La troveremo come
prima; non è cambiata’….
La città senza nome
Quando mi avvicinai alla città senza nome, capii che era maledetta.
Viaggiavo in una vallata riarsa e terribile sotto la luna e, da lontano, la
vidi sporgere stranamente al di sopra della sabbia così come parti di un
cadavere sporgono da una tomba mal ricoperta…
La paura parlava delle pietre consunte di quell’antica sopravvivenza
del diluvio, di quell’antenata della piramide più antica; e un’aurea invisibile
mi respinse e mi ordinò di allontanarmi da quei segreti antichi e sinistri che
nessun uomo dovrebbe mai vedere, e che nessun altro uomo aveva mai osato
vedere.
Remota, nel deserto dell’Arabia, si stende la Città senza Nome,
sgretolata e diruta, le basse mura seminascoste dalla sabbia di innumerevoli
ère. Doveva essere così prima che fossero gettate le fondamenta di Memphis, e
quando i mattoni di Babilonia ancora non erano cotti. Non esiste nessuna leggenda
tanto antica da darle un nome, o da ricordarla viva. Ma se ne sussurra intorno
ai fuochi degli accampamenti, e le vecchie ne mormorano nelle tende degli
sceicchi, cosicché tutte le tribù la evitano senza sapere assolutamente perché.
Fu di quella città che Abdul Alhazred, il poeta pazzo, sognò la notte
prima di creare il suo inspiegabile distico:
Non è morto ciò che può
vivere in eterno,
… Vagai tra le informi fondamenta delle case, senza trovare né una scultura
né un’iscrizione che parlasse di quegli uomini, se uomini erano, che
costruirono quella città e vi dimorarono ère prima….
L’antichità del posto era malsana, e desiderai ardentemente di
incontrare qualche segno del fatto che la città fosse stata veramente edificata
dal genere umano. Le rovine avevano proporzioni e dimensioni che non mi
piacquero. Avevo con me parecchi attrezzi, e scavai molto all’interno delle
mura degli edifici distrutti; ma procedevo lentamente, e non scoprii nulla di
significativo.
Quando la notte e la luna tornarono, sentii un vento gelido che portò
una nuova paura, cosicché non osai restare nella città. E, quando uscii dalle
vetuste mura per andare a dormire, una piccola tempesta di sabbia si raccolse
alle mie spalle: gemeva e soffiava sulle pietre grigie, sebbene la luna fosse
luminosa e la maggior parte del deserto immobile.
D’improvviso mi imbattei in un luogo dove il fondo roccioso si alzava
ripido dalla sabbia a formare un basso dirupo; e lì vidi con gioia un’apparente
promessa di altre tracce di quel popolo antidiluviano…. Tagliate rozzamente
sulla parete del dirupo, c’erano le inconfondibili facciate di parecchi piccoli
edifici o templi di forma tozza. Al loro interno potevano essere conservati
molti segreti di ère troppo remote per essere calcolate, sebbene le tempeste di
sabbia avessero già da lungo tempo cancellato ogni incisione che fosse stata
all’esterno….
Vicino a me, molto in basso e coperte di sabbia, c’erano delle buie
aperture, ma io ne liberai una con la vanga e strisciai all’interno, portando
una torcia per illuminare qualsiasi mistero vi fosse celato. Quando fui dentro,
vidi che la caverna era veramente un tempio, e scorsi chiari segni della razza
che vi aveva vissuto e celebrato riti prima che il deserto fosse un deserto….
Vi erano altari primitivi, colonne e nicchie, tutti stranamente bassi;
e, sebbene non vedessi né sculture né affreschi, c’erano molte pietre singolari
che erano state scolpite con mezzi artificiali per rappresentare dei simboli….,
poi nella luce del crepuscolo sgomberai un’altra apertura e, con una nuova
torcia, strisciai all’interno; trovai altre pietre e simboli vaghi, sebbene
nulla di più definito del contenuto dell’altro tempio….
(Prosegue....)
(Prosegue....)
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