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La Gnosi (2/11)
Mentre la Chiesa istituzionale era impegnata a meglio definire i propri
contenuti dogmatici e a darsi un più stabile ordinamento interno, mistici in
fuga dal mondo al volgere del secolo III al IV si ritiravano nei deserti
d’Egitto e di Siria alla ricerca di una più intima e diretta comunione con una
divinità altrimenti trascendente e inaccessibile.
Era il monachesimo degli anacoreti (separazione), uomini solitari che
in quell’arido clima aspiravano, tramite alla rinuncia ai beni materiali e in
totale rottura con la società profana, al completo dominio di desideri e di
passioni quale indispensabile via per elevarsi a Dio in attesa del giudizio
ultimo.
Dall’esperienza di tali eremiti, laici che sebbene non distaccati sul piano
formale dalla Chiesa ufficiale liberamente decidevano della propria condotta
personale da ogni condizionamento, si sviluppò in maniera spontanea il
monachesimo cristiano: un movimento multiforme propagatosi con rapido successo
nelle regioni sudorientali del Mediterraneo e passato in seguito, tra i secoli
V e VII, in Occidente.
Invero, malgrado un comune preconcetto, le manifestazioni monastiche
non furono proprie del solo mondo cristiano trovando anzi evidenti riferimenti
e riscontri nelle aspirazioni religiose e morali diffusesi in Estremo Oriente
soprattutto là dove, sin dal secolo V a.C., la meditazione buddista si era
tradotta in un atteggiamento di lucida imperturbabilità e di totale distacco da
attività sensoriali e mentali affinché l’uomo, alfine dissoltosi nell’assoluto,
si liberasse dalla sofferenza connaturata all’esistenza temporale.
A lungo andare si è dibattuto tra gli studiosi su possibili relazioni
tra la professione monacale nel cristianesimo e le anteriori esperienze
spirituali dei monaci indiani, conosciuti nel mondo greco a partire dai tempi
di Alessandro Magno, senza peraltro pervenire a risposte del tutto
soddisfacenti. Meglio definiti per contro appaiono i nessi, evidenti anche a
livello lessicale, con la tradizione ascetica elaborata dal tardo pensiero
greco – stoico, pitagorico e soprattutto neoplatonico -, impegnato non solo a
formulare teorie intellettuali ma a tradurle in attivo esercizio di vita e in
scelte di condotta morale.
Pierre Hadot ha potuto dimostrare in modo convincente come nella
pratica monastica la meditazione delle Scritture rappresentasse una diretta
derivazione storica del rapporto che i filosofi della tarda antichità
intrattenevano con i testi delle loro scuole. E altresì ha chiarito come molti
dei caratteri della pietà monastica derivassero dalla ricezione, tramite la
patristica orientale, della filosofia tardoantica intesa nel suo senso
peculiare di ‘pratica di esercizi spirituali’.
Vale a dire una pratica di attenzione costante alla vita interiore e di
meditazione dei precetti divini, di abbandono profondo alla grandezza
dell’Essere e di contemplazione della propria coscienza, in sintesi di ‘ascesi’
ovvero – secondo l’originario significato del termine greco – di ‘esercizio’,
sorta di ‘allenamento’ metafisico diretto alla purificazione interiore.
L’esperienza spirituale del monachesimo cristiano, lungi dal rappresentare
un’assoluta novità era dunque in armonia con molteplici esigenze diffuse al di
fuori di quel mondo e si confermava perfettamente alla mentalità delle tarde
élite intellettuali pagane e neoplatoniche che, ansiosamente protese per
desiderio di perfezione all’esercizio della virtù, erano se mai propense a
rimproverare al cristianesimo non
l’eccesso ma il difetto di ascesi, non il disprezzo bensì l’importanza
attribuita al corpo in stretta connessione con la dottrina della sua
resurrezione, onde la polemica del neoplatonico Plotino secondo il quale ‘il
vero risveglio....
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