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Favola della domenica: la Povera Cosa (2)
C’era un uomo nelle isole che andava a pesca al solo scopo di riempirsi
in qualche modo la pancia e rischiava la vita andandosene sul mare tra quattro
assi. Ma nonostante le sue fatiche e le sue difficoltà era di cuore allegro e i
gabbiani lo udivano ridere quando gli spruzzi delle onde lo colpivano.
E benché fosse di scarsa dottrina, era di Spirito Puro; e quando il
pesce abboccava al suo amo nelle acque di mezzo egli lodava Dio senza zavorre.
Era poverissimo di beni, bruttissimo d’aspetto senza moglie, e spesso una torva
figura nera lo minacciava.
Accadde che al Tempo della pesca l’uomo si svegliasse in casa sua alla
metà circa di un pomeriggio. Il fuoco ardeva nel centro e il fumo andava su e
il sole veniva giù dal camino. E l’uomo si accorse che era come se ci fosse
qualcuno che si scaldasse le mani sulla torba incandescente.
‘Salute a te’, disse l’uomo ‘nel nome di Dio’.
‘Salute a te’, disse quello che si scaldava le mani, ‘ma non nel nome
di Dio, perché io non sono dei Suoi; e neppure nel nome dell’Inferno, perché
non appartengo all’Inferno. Perché io non sono che una esangue creatura, meno
di un soffio di vento e più leggero di un suono; e il vento mi attraversa come
fossi una rete e il suono mi spezza e il freddo mi scuote.
‘Sii chiaro con me,’ disse l’uomo, ‘e dimmi il tuo nome e la tua
natura’. ‘Il mio nome’, dichiarò l’altro, ‘non è ancora nominato e la mia
Natura non è ancora certa. Perché sono parte di un uomo; ed ero una parte dei
tuoi padri e andai con loro a pesca e in guerra ai Tempi andati. Ma il mio
turno non è ancora venuto; aspetterò finché non avrai preso moglie e poi sarò
in tuo figlio e una parte mirabile di lui, che godrà virtualmente nel varare la
barca sulla risacca, nel tenere abilmente il timone, e nell’essere un uomo
forzuto dove il cerchio si chiude e soffia a raffiche il vento’.
‘Che cosa meravigliosa da udire’, disse l’uomo; ‘e se hai intenzione di
essere davvero mio figlio, temo che ti butterà male; perché sono poverissimo di
beni e bruttissimo di faccia e non mi procurerò mai una moglie, vivessi l’età
delle aquile’. ‘Tutto ciò son venuto a rimediare, Padre mio’, disse la Povera
Cosa; ‘perché dobbiamo recarci stanotte all’isoletta delle Mani nel maniero del
conte, e là troverai una moglie da me procacciata’.
Così l’uomo si alzò e mise la barca in mare all’ora del tramonto; e la
Povera Cosa sedette a prua e gli spruzzi di spuma le attraversavano le ossa
come neve e il vento le fischiava tra i denti, e la barca non avvertiva
minimamente il suo peso. ‘Mi fai paura a guardarti, figlio mio’, disse l’uomo.
‘Perché a me sembra che tu non sia creatura di Dio'. ‘E’ soltanto il vento che
mi sibila tra i denti’, disse la Povera Cosa, ‘e non c’è vita in me per
impedirlo’.
Così giunsero all’isoletta delle pecore, dove la risacca la colpiva
d’intorno nel mezzo del mare, ed era tutta verde di felci aquiline e tutta
bagnata di rugiada e la luna la illuminava. Spinsero la barca in una cala e
posero piede a Terra; e l’uomo arrancava dietro tra le rocce nel fitto delle
felci mentre la Povera Cosa lo precedeva come fumo nel chiarore della luna.
Così giunsero al tumolo dei morti e appoggiarono l’orecchio alle pietre; e i
morti lì dentro si lamentarono come uno sciame di api: ‘Ci fu un Tempo in cui
nelle ossa avevamo midollo e nei tendini vigore; ed i pensieri nella nostra
testa si ammantavano di azioni e di parole umane. Ma ora siam disfatti e a
pezzi, e sciolti sono i nodi delle nostre ossa e i nostri pensieri si mescolano
alla polvere'.
Allora la Povera Cosa disse: ‘Imponi di donarti la virtù che
possedettero’. E l’uomo disse: ‘Ossa dei miei padri, salute! Perché io
scaturisco dai vostri lombi: e ora, badate, disfo le pietre ammucchiate del
vostro tumolo e faccio penetrare il sole di mezzogiorno nelle vostre costole.
Consideratelo ben fatto, perché ciò doveva essere, e datemi quel che sono
venuto a cercare nel nome del sangue e nel nome di Dio’. E gli Spiriti dei
morti si agitarono nel tumolo come formiche e così parlarono: ‘Hai infranto il
tetto del nostro tumolo e hai fatto entrare la luce del mezzogiorno nelle
nostre costole e in te è la forza che vive. Ma che virtù abbiamo noi? Quale
potenza? O quale gioiello è qui con noi nella polvere, che un vivente lo debba
bramare o ricevere? Perché noi siamo meno che nulla. Ma una cosa ti diciamo,
parlando a più voci come api, che la vita è piana là davanti come i binari per
un varo. Così, va’, addentrati nella vita e non temere, perché così noi tutti
facemmo nei tempi andati’.
… E le loro voci trascorsero come una corrente in un fiume…..
‘Ora’, disse la Povera Cosa, ‘ti hanno dato un ammaestramento, ma fa’
che ti diano un dono. Affonda la mano tra le ossa senza tirarti indietro e vi
troverai il loro tesoro’. Così l’uomo affondò la mano e i morti le si
attaccarono numerosi e deboli come formiche; ma egli li scosse via e, udite
udite, ciò che tirò su nella mano era un ferro di cavallo, e arrugginito. ‘E’
di nessun valore’, dichiarò l’uomo, ‘perché è arruginito’.
… ‘Staremo a vedere’, disse la Povera Cosa; ‘perché io penso che sia
buona cosa fare ciò che i nostri padri fecero e conservare ciò che essi
conservarono senza far domande. E io penso che in questo mondo una cosa valga
l’altra; e un ferro di cavallo basterà’.
(Prosegue....)
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