(Dedicata a mio padre Grumello del Monte
-Bg- 1924-Sett 2014)
‘Ragazzo
mio’,
…disse una
voce alle mie spalle.
Io mi volsi
ed era la nonna Giuseppina.
Da anni e
annorum – perché mi lasciò quando io ero ancora ragazzo nonna Giuseppina ogni
tanto si fa viva e, per un bel pezzo, io non sono riuscito a capire come ciò
potesse accadere ma poi, fatto più maturo, lo scopersi.
Ogni tanto
uno sente il bisogno di rifugiarsi nella propria fanciullezza, e nonna Giuseppina
è legata indissolubilmente alla mia fanciullezza. Risalendo il corso della mia
vita, in riva all’esiguo specchio d’acqua limpida dal quale parte, trovo nonna
Giuseppina. Una vecchietta antica, da libro di lettura di tempi lontani, con le
ossa minute, il fazzoletto annodato sotto il mento, la sottana nera col
corpetto accollato, ed il sottile fuscello di gaggia.
‘Ragazzo
mio’…
…Si siede
lentamente su un ciocco di Pioppo ancora radicato in riva all’acqua. È Giugno:
l’erba è verde, grassa e fresca e, subito là dalla siepe che mi sta di fronte,
dall’altra parte del laghetto, si distende un campo di frumento. Vedo le spighe
che incominciano a diventare bionde, attraverso un ampio varco aperto nella
siepe. Tutti gli anni, quando il grano matura, io ritorno lì perché per me,
uomo di campagna, l’anno si svolge secondo il ciclo del pane e finisce quando
le spighe cadono.
È il mio
anno sentimentale che muore in bellezza, sotto il sole forte e chiaro e in un
trionfo di spighe d’oro e di papaveri rossi. Allora io porto i baffi del
vecchio Giovannino a specchiarsi nel laghetto vicino alla fonte. Nell’acqua
limpida galleggia ancora l’immagine del Giovannino senza baffi e, quando riesco
a stanarla, posso il confronto e vedere se gli anni e gli uomini mi hanno molto
cambiato.
‘Ragazzo
mio’,
….nonna
Giuseppina continua a guardarmi e non le sfugge nulla.
Non porta
occhiali, nonna Giuseppina, nessuno le rovinò gli occhi costringendola a
scrivere e leggere quando i suoi occhi dovevano soltanto guardare il sillabario
della Natura. Imparò a leggere quando il suo nipotino, che studiava da professore,
sentì il bisogno di aver qualcuno, in casa, che l’aiutasse a ripassare le
lezioni. Ma allora i suoi occhi erano forti e non ne risentirono mai. Imparò a
leggere, ma si rifiutò di imparare a scrivere.
‘Non serve’,
…disse al
nipotino!
Nonna
Giuseppina era saggia e l’unico grave errore lo commise soltanto dopo che il
suo nipotino, oramai noto accreditato emerito professore, si fu sposato. Il
professore era simpatico, di parlantina facile e socievole e persuasiva.
Sentiva il fascinoso imperativo del progresso meccanico. Fu, nel paese, uno dei
pionieri dell’illuminazione a petrolio e possedeva oltre una macchina stupenda
che andava con medesimo combustibile anche una calligrafia stupenda.
‘Dovreste
imparare a scrivere’,
…disse un
giorno il professore e non più nipote, a Giuseppina.
‘Scrivere
che cosa?,
…domandò
nonna Giuseppina.
‘Qualsiasi
cosa’.
‘Non c’è
nessun bisogno di scrivere quello che si può dire anche dalla finestra’,
…stabilì!
‘È
umiliante che voi non sappiate scrivere nemmeno il vostro nome’,
…insistette
l’uomo…
‘e dobbiate
firmare con una croce. La vostra croce è uguale alla croce di tutti gli
analfabeti, mentre voi siete diversa siete la nonna di un noto emerito
Professore. Ciò non è giusto!’
‘La mia
croce ha una gamba col rampino ed è fasciata, ed è diversa da tutte le altre
croci che incontri’.
‘È sempre
una croce fasciata o meno, e quando volete firmare qualcosa, occorrono sempre
due testimoni che autentichino la vostra croce. Così i vostri affari diventano
di dominio pubblico’.
Nonna
Giuseppina dimenticò l’antica saggezza ed imparò a scrivere il proprio nome e
cognome (Giuseppina Motta come da archivio comunale e parrocchiale) e, siccome
l’uomo sentiva, oltre al fascinoso imperativo del progresso elettronico, quello
non meno fascinoso economico-commerciale, nonna Giuseppina si lasciò convincere
in un secondo tempo a tracciare la propria firma in calce alle cambiali emesse
(ma anche pagate) dal nipote.
Così
pensando tutte le volte che mi ritrovo in riva al laghetto con nonna
Giuseppina, mi pare di riagganciarmi ad un altro secolo e ad un passato che,
secondo l’anagrafe, non potrebbe appartenermi.
Scoppiata
la Guerra, io rimasi solo con la nonna Giuseppina, poiché mio padre doveva
mettersi in grigioverde e mia madre faceva la maestra in un lontano paese di
campagna. Non sono mai riuscito a disobbedire a nonna Giuseppina. Quando
incominciai a sentire il fascino della strada, dimenticando a volte d’avere una
casa, succedeva che a un bel momento compariva nonna Giuseppina. Veniva giù
dalla nostra soffitta del quarto piano lentamente, perché camminava già a
fatica. Si faceva sul portone con le mani nascoste dietro la schiena e mi
chiamava con un breve sibilo che soltanto io potevo udire. Io sapevo benissimo
che in una di quelle mani impugnavano, oltre il crocefisso, anche un
bastoncello cavato fuori da una fascina.
Allora io
abbandonavo tutto e correvo verso il portone, regolandomi in modo da darle
tutto il tempo che le occorreva per togliere la mano da dietro la schiena per
colpirmi sulle gambe col rametto che stringeva in pugno e che non riuscì mai a
farmi male alla gamba perché colpendo leggermente quella sana non feriva quella
malata o fratturata. Ambedue abbiamo ossa deboli!
Successe
infatti che quando ero ragazzo malgarbato nonna Giuseppina cadde e si ruppe un
polso e dovette tenerlo ingessato Dio sa quanto, quando guarì io per la gioia
l’afferrai per il polso che pensavo curato e quello si ruppe e fratturò di
nuovo.
Non pianse
e la vidi piangere una sola volta, questo sì lo ricordo, quando un maledetto
gatto nero le divorò una passeretta che allevava, magra e spelacchiata che però
lei curò facendola divenire sana e robusta. Dio solo sa come riuscì a farla
divenire forte al contrario della sua fragilità. La teneva sulla sua spalla
sinistra e lei veniva a beccare le briciole di pane dalla sua mano.
Li sentivo
parlare e discutere assieme tutto il giorno e ciò al Professore non piaceva.
Non ho saputo mai cosa si dicessero, il fatto è che si capivano perfettamente. Ricordo
ancora il grido d’angoscia che lanciò nonna Giuseppina il giorno in cui il
gatto del professore le sbranò l’uccellino…
Se
esistesse uno psicanalista vero che riuscisse a farmi sdraiare e rilassare su
un divano e a prendere sul serio le sue domande, sono certo che il valentuomo
scoprirebbe che, all’origine dei miei più grossi guai fisici e spirituali, c’è
un gatto nero!
‘Io’,
…dissi a
nonna Giuseppina…,
‘vorrei
farti un monumento, ma non si è trovato più niente, nemmeno una traccia’.
‘Non
pensare a queste malinconie’.
‘Io parlo
spesso di te ai miei figli, ma chi sa cosa pagherei perché ti potessero vedere
anche un solo minuto mentre preghi dietro a quella finestra con il tuo amico…’.
Mi pare di
vedere ondeggiare qualcosa sullo specchio dell’acqua, e mi protesi verso il
laghetto in cerca di nonna Giuseppina e la sua diletta. Vidi il mio viso
nell’acqua. Lentamente l’ombra ondeggiare illuminarsi e scorgere il profilo di
un Signore che un po’ assomigliava a mia nonna, parlava anche lui con un amico
sconosciuto dalla mattina alla sera. Non ho capito bene di cosa discutessero.
Ed ora
quando arrivo allo stesso specchio d’acqua vedo Giovannino bambino in cerca di
more e mirtilli con gli occhi che fissano i miei nascosto dietro un fungo. Le
immagini si sovrappongono come una scala a chiocciola che lenta sale verso il
cielo…
Poi uno
sparo!
Qualcosa di
innaturale!
Quando mi
giro non vedo né Giovannino né Giuseppina col fazzoletto in capo, al margine
del campo di grano…
(da
Guareschi ispirato)
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