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Il tinamo grigio, l’amazzone fronte gialla, il
tordo formichiero faccianera, la pina vocifera, il nittibio maggiore, la
colomba plumbea, la tortora quaglia montana, l’usignolo barbuto orientale, il
succiacapre lentigginoso, il bulbul occhi rossi.
…Benvenuti nei loro habitat naturali che sanno far
vibrare di suoni con le ‘grida’ di covata, di piacere, di pericolo, di
migrazione, di stormo.
…Ogni regione del mondo ha una sua sinfonia
orchestrata dagli uccelli, da sempre gli animali più stimolanti per i
musicisti, che in tutti i modi hanno provato a imitarne la struttura
sofisticata del canto o il frullare rapido delle ali, da Clément Janequin (1485-1558)
a Olivier Messiaen (1908-1992), senza dimenticare il nostro Ottorino Respighi
(1879-1936) che ne ‘I Pini di Roma’ del 1924 per primo mescola un suono della
natura registrato (il canto degli uccelli) all’orchestra sinfonica…
L’americano Bernie
Krause (1938), musicista e biologo acustico, è autore di una mastodontica
installazione sonora dal titolo ‘The
Great Animal Orchestra’ — realizzata insieme al gruppo londinese United Visual Artists nel 2016 per la
Fondation Cartier pour l’art contemporain di Parigi — esposta a Milano alla XXII
Triennale fino al 1° settembre nell’ambito della mostra Broken Nature a cura di Paola Antonelli e poi a Londra, dal 1°
ottobre all’8 dicembre, alla galleria 180 The Strand.
Viaggiando per il mondo alla ricerca di suoni di
origine non umana, Krause — che ha lavorato anche nel cinema (Apocalypse Now di
Coppola e Rosemary’s Baby di Polanski) e divide il primato di avere introdotto
il sintetizzatore Moog nella musica pop e rock insieme a Paul Beaver — ha
registrato e studiato la quasi inaccessibile organizzazione dei suoni animali,
raccogliendo più di cinquemila ore di registrazioni di habitat naturali (con 15
mila specie diverse di animali, terrestri e marine).
United Visual Artists ha invece provato a immaginare una traduzione visiva dei suoi
paesaggi sonori, permettendo di ascoltare e visualizzare i suoni
contemporaneamente in una installazione tridimensionale (realizzata da Raymond
Depardon e Claudine Nougaret) fatta di spettrogrammi in movimento, colorati e
ipnotici, che indicano le altezze dei suoni (‘Per il pubblico abbiamo voluto
creare — dicono — un’esperienza immersiva totale’).
‘The Great Animal Orchestra’ è un’enciclopedia acustica in cui Bernie Krause ha raccolto 15
mila suoni in habitat naturali di tutto il mondo. L’installazione, che si può
ascoltare ora a Milano, mostra (anche) come certa avanguardia accademica e il
sound etnico abbiano attinto a fauna e flora.
In questo ambiente buio l’unico rumore
(fastidioso) che interrompe il rombo del silenzio e dell’attesa è quello
dell’aria condizionata, affaticata da troppo lavoro. La proiezione durerà 98
minuti precisi.
Si parte.
All’inizio in primissimo piano appare Krause, che
in un breve video di presentazione spiega in maniera molto pragmatica il senso
di un lavoro durato anni e che si potrebbe considerare in progress se in un futuro si aggiungesse altro materiale.
The Great Animal Orchestra è suddiviso in sette sezioni principali, che corrispondo a zone
della Terra individuate da Krause per la raccolta dei suoni.
‘Camp Km 41’, un sito di ricerca biologica a nord
est di Manaus, in Brasile, nella foresta amazzonica; ‘Oceans’, dove raggruppa e
allinea suoni raccolti sull’isola di Maui (Hawaii), a Vancouver (Canada), in
Nuova Zelanda, nei Caraibi e a Big Sur in California; ‘Algonquin Park’ nell’Ontario,
il più antico parco provinciale del Canada; ‘DzangaSangha’, una riserva
protetta, a sud ovest della Repubblica Centrafricana; ‘Yukon Delta’, una
riserva nazionale degli Stati Uniti nel sud ovest dell’Alaska; ‘Mungwezi Ranch’
nel Parco nazionale di Gonarezhou in Zimbabwe, nel sud-est africano; ‘Crescent
Meadow’, il Parco nazionale di Sequoia e Kings Canyon in California.
Sono questi i titoli dei metaforici ‘sette
movimenti’ della grande opera (utopica) di Krause, in cui i vocalizzi degli
animali e i rumori della natura possiedono insieme un’estensione sonora tale da
non poter essere eguagliata da nessuna voce umana.
È il caos primordiale.
Il cantiere della natura.
È il cluster dell’Universo dal quale l’essere
umano è volutamente tenuto fuori. Se vi mettete in ascolto e avete qualche
confidenza con le musiche sperimentali, molte cose registrate da Krause vi
sembreranno lunghe introduzioni a composizioni di avanguardia estrema, di
quelle che — qualcuno diceva — sembravano fatte per sviare volutamente
l’ascoltatore. Dove i suoni venivano spesso creati in studio, elettronicamente:
ascoltando The Great Animal Orchestra
— nella sezione ‘Oceans’ — possono riemergere (anche ma non solo) sullo sfondo
della memoria ricordi di Karlheinz Stockhausen, Bruno Maderna, Pierre Boulez,
Luigi Nono, della scuola di Darmstadt, quando i compositori non facevano sconti
e andavano diritti per la loro strada, lontani dai piaceri melodici.
Con The
Great Animal Orchestra non ci aggiriamo però soltanto nei dintorni della
musica accademica d’avanguardia, perché certe sonorità improvvisate dalla
natura guardano anche altrove. Prendiamo ad esempio il primo movimento, ‘Camp
Km 41’.
Si apre con un rumore di insetti e rane, segue una
sequenza breve di temporale, vocalizzi insistenti di scimmie, poi una pantera
(che, tramite l’olfatto, ha individuato alcuni microfoni e va a marcare il
territorio emettendo versi e brontolii), dei tucani e le onnipresenti cicale.
Ebbene, se prendete un disco jazz del trio Codona (Collin Walcott, Don Cherry,
Naná Vasconcelos) attivo fra il 1977 e il 1984, e ascoltate le introduzioni
libere troverete sequenze simili a quelle delle foreste di Krause.
E lo stesso discorso vale per tanta musica etnica
vera e propria.
Il ritmo dei Codona è ondivago, cambia di
continuo, come in natura. I tre polistrumentisti cercano di ricreare quel mondo
primitivo, spinti non da un approccio naturalistico ma da motivazioni di
ricerca delle proprie radici. È il momento in cui il jazz è assetato di
esotismo, di suoni etnici, antichi, ad effetto, di recupero di un passato
atavico. Di natura.
Ma prendete anche quell’esperimento bizzarro che è
il disco Lambarena oppure Africa di Pierre Akendengué e Hugues de Courson. I
grandi percussionisti che esplodono in quei periodi (oltre a Walcott e
Vasconcelos, Zakir Hussain, Trilok Gurtu) sono tutti ‘forestali’.
Per non parlare degli Art Ensemble of Chicago,
che, nei loro anni d’oro, trasformavano il palco in un museo etnografico e la
musica (spesso) nell’urlo della foresta.
Poi, certo, le differenze ci sono, perché nel jazz
arrivava l’assolo, solitario o collettivo, e la musica prendeva una sua forma,
ma certe similitudini colpiscono anche in ‘Crescent Meadow’ con i picchi
pileati che in sequenza creano suoni quasi identici a quelli di uno xilofono.
E poi ancora in ‘Mungwezi Ranch’ con i babbuini
che saltano ed emettono i loro latrati in modo battente. In quante performance
degli anni Settanta gli eroi del free o i componenti del Living Theatre, o i
danzatori di Merce Cunningham facevano la stessa cosa, ma in forma di protesta,
impegno politico e rivoluzione artistica.
O che dire del più grande raduno primaverile al
mondo di uccelli migratori che si tiene nel Delta dello Yukon?
È un coro multietnico (gli animali arrivano da
ogni parte del mondo), uno scontro/incontro di scuole di canto senza direttore.
‘Una delle cose che ho imparato — spiega Krause — è che gli animali ci hanno
insegnato a ballare e a cantare. Quando ho cominciato a osservare le
illustrazioni grafiche del suono era chiaro che questi paesaggi sonori naturali
erano organizzati in un modo preciso e chiaro. Gli uccelli avevano una propria
nicchia nello spettro acustico. Le rane, i mammiferi, gli insetti, anche loro
ce l’avevano e non invadevano quelle delle altre specie. Non coprivano cioè le
loro voci a vicenda’.
Dagli spettrogrammi di Krause risulta chiaro che
il caos (apparente) dei suoni degli animali in realtà è una rappresentazione
musicale organizzata. Vigerebbe dunque un principio democratico fra gli animali
quando cantano o fanno musica.
C’è da rilevare anche che, di norma, i suoni meno
noti al nostro orecchio sono quelli che più ci turbano. Se infatti i rumori
della foresta a grandi linee vengono colti e riconosciuti dal nostro orecchio
(per avere visto dei film, per aver visitato degli zoo) e alla fine risultano
rassicuranti, i suoni a noi sconosciuti, come quelli degli oceani, ci turbano.
Ci turbano e ci attraggono al contempo. Ci mettono di fronte all’ignoto. A
qualcosa che identifichiamo come primordiale.
Il punto più intenso di tutta l’installazione è
senza dubbio quello registrato in acqua.
I suoni del mare sono ripresi in periodi e luoghi
diversi fra il 1960 e il 1995 e sono stati poi montati in studio (ammette
Krause: ‘Lo abbiamo fatto per trasmettere un senso di coesione che raramente
c’è nei veri biomi marini’): dal cielo che sovrasta il mare, dal suono dei
gabbiani, si scende via via verso la superficie (le otarie della California),
poi in profondità medie con le corvine rosse che emettono suoni simili a quelli
di una percussione, e infine negli abissi con tre tipologie di cetacei — le
megattere, i capodogli e le orche.
La ricchezza di suoni misteriosi è impressionante:
sembra di ascoltare effetti di glissando di lunghezze diverse su strumenti a
corde in partiture sperimentali, armonici artificiali, effetti percussivi sul
ponticello del contrabbasso, trombe con la sordina, effetti da musica
elettronica, da chitarra elettrica distorta, altri suoni stridenti, un
sassofono nel momento in cui il solista fa ‘frullare’ l’ancia. Sotto a tutto,
come contrappunto subacqueo, dei bordoni fatti di suoni nel registro basso (li
emettono i pesci della barriera corallina).
The Great Animal Orchestra è una chiamata a preservare la bellezza della natura, prima che
sia troppo tardi. Ma probabilmente lo è già.
L’uomo — ricordava già ai suoi tempi Marshall
McLuhan — ha scoperto la natura solo dopo averla distrutta.
(La musica degli oceani e il jazz delle foreste - Corriere della
Sera 25 Aug 2019 - di Helmut Failoni)
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