CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
30 MAGGIO 1924

mercoledì 8 settembre 2021

UN QUADRO NELLA GIUSTA PROSPETTIVA (24)

 











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illogica prospettiva del proprio Tempo (25)









Il modo in cui i poeti e gli artisti dell’antichità hanno simbolizzato o personificato la Morte, ha suscitato notevoli discussioni; e le varie opinioni di Lessing, Herder, Klotz, e altri critici i quali hanno dimostrato che gli antichi adottarono molti differenti modi per raggiungere questo fine.

 

Alcuni scrittori hanno provato a rappresentare unicamente la Morte come un semplice scheletro; mentre altri hanno provato che questa figura, che si trova così frequentemente su gemme e monumenti sepolcrali, non è mai stata destinata ad ‘interpretare’ l’estinzione della vita umana, ma solo come rappresentazione semplice e astratta.




Insistono che gli antichi adottarono per questo scopo un metodo più elegante ed allegorico; che rappresentava la mortalità umana con vari simboli di distruzione, come uccelli che divoravano lucertole e serpenti, o beccavano frutti e fiori; da capre che brucano sulle viti; galli che combattono, o anche da una testa di Medusa o Gorgone.

 

I romani adottarono la simbologia mitica di Omero  nella definizione della Morte come fratello maggiore del Sonno; e, di conseguenza, su parecchie loro sculture monumentali troviamo due geni alati come rappresentanti dei suddetti personaggi, e talvolta un genio che porta un vaso sepolcrale sulla spalla, e con una fiaccola rovesciata in una mano.




È risaputo che gli antichi spesso simboleggiavano l’animo umano con la figura di una farfalla, idea estremamente ovvia e appropriata, oltre che elegante. In un monumento sepolcrale molto interessante, si vede un cadavere prostrato, e sopra di esso una farfalla che è appena uscita dalla bocca del defunto, o come dice Omero, dalla dentatura. Il suddetto eccellente antiquario ha aggiunto la seguente iscrizione sepolcrale molto curiosa che è stata trovata in Spagna, hæredibvs meis mando etiam cinere vtmeo volitet ebrivs papilio ossa ipsa tegant mea.

 

Rifiutando del tutto questo simbolo pagano, i pittori e gli incisori del Medioevo hanno sostituito una piccola figura umana che sfugge dalla bocca dei moribondi, per così dire, espirando le loro anime.




Il soggetto della morte era molto spesso rappresentato, non solo sui muri, ma nelle finestre di molte chiese, nei chiostri dei monasteri, e anche sui ponti, specialmente in Germania e Svizzera. A volte era dipinto sui paraventi delle chiese e occasionalmente scolpito su di essi, così come sulle facciate delle abitazioni domestiche. Si trova in molti dei libri di servizio manoscritti e miniati del Medioevo, e frequenti allusioni ad esso si trovano in altri manoscritti, ma molto raramente in uno stato perfetto, per quanto riguarda il numero dei soggetti.

 

La maggior parte delle rappresentazioni della Danza della Morte erano accompagnate da versi descrittivi o morali in diverse lingue.




 Un poeta provenzale, detto Marcabres o Marcabrus, è stato posto tra i ‘rimatori’, ma nessuna delle sue opere porta la minima somiglianza al soggetto comunemente rappresentato della Danza Macabra; e, inoltre, la lingua stessa è discutibile. La traduzione metrica inglese sarà evidenziata successivamente. Non è ora possibile accertare se qualcuno dei dipinti fosse accompagnato da versi descrittivi che si potessero ritenere anteriori a quelli ascritti al presunto Macabro.

 

Un’allusione molto precoce alla Danza della Morte si trova in un poema latino, che sembra sia stato composto nel XII secolo dal nostro celebre connazionale Walter de Mapes, come si trova tra altri brani che portano con sé forti segni della sua paternità. Si intitola Lamentacio et deploracio pro Morte et consilium de vivente Deo.  Nella sua costruzione c’è una sorprendente somiglianza con le comuni strofe metriche che accompagnano la Danza Macabra. Vengono introdotti molti personaggi, a cominciare da quello del Papa, che piangono tutti l’incontrollabile influenza della Morte.




Nella raccolta di poesie spagnole di Sanchez prima dell’anno 1400, si fa menzione di un rabbino Santo come un buon poeta, che visse intorno al 1360. Era ebreo e chirurgo di Don Pedro. Il suo vero nome sembra essere Mose, ma si fa chiamare Don Santo Judio de Carrion. Si dice che questa persona abbia scritto una poesia morale, chiamata Danza General.

 

Nel corso del XIII secolo apparve un’opera metrica francese sotto il nome di Li trois Mors et li trois Vis, cioè Les trois Morts et les trois Vifs. Nella biblioteca nobiliare del duca de la Valliere se ne trovarono tre manoscritti apparentemente coevi, ma diversi tra loro, che riportavano i nomi di due autori, Baudouin de Condé e Nicolas de Marginal. Questi poemi narrano di tre nobili giovani mentre cacciavano in una foresta i quali furono rapiti dalle congiunte multiple Visioni di orribili spettri o immagini della Morte, da cui ricevettero una imprescindibile lezione sulla vanità della grandezza umana.




Una primissima, e forse la più antica, allusione a questa visione sembra trovarsi in un dipinto di Andrea Orgagna nel Campo Santo di Pisa; e benché vari un poco dalla descrizione nei sopra menzionati poemi, la storia è evidentemente la stessa. Il pittore ha presentato tre giovani a cavallo con diademi sui berretti, e che sono assistiti da diversi domestici mentre si dedicano al divertimento della caccia con il falcone. Arrivano alla cella di san Macario anachorite egiziano, che con una mano presenta loro un eloquente incisione.

 

Una visione simile, ma non immediatamente connessa al presente soggetto, e finora inosservata, si trova alla fine dei versi latini attribuiti a Macaber, nell’edizione goldastiana dello Speculum omnium statuum di Roderico Zamorensi. Tre persone appaiono a un eremita (di cui non si fa il nome) nel sonno. Il primo è descritto come un uomo in abito regale; il secondo come un civile, e il terzo come una bella donna decorata con oro e gioielli. Mentre queste persone si vantano vanamente delle loro rispettive condizioni, incontrano tre orribili spettri sotto forma di corpi umani morti coperti di vermi, che li rimproverano molto severamente per la loro arroganza.




Nel chiostro della chiesa della Sainte Chapelle a Digione la Danza Macabra fu dipinta da un artista che si chiamava Masonçelle. Era scomparso ed era stato dimenticato da molto tempo, ma la sua esistenza fu scoperta negli archivi del dipartimento da mons. Boudot, un ardente investigatore dei costumi del Medioevo. La data attribuita a questo dipinto è il 1436. La chiesa soprastante fu distrutta durante la rivoluzione, in precedenza alla quale esisteva un’altra Danza Macabra nella chiesa di Notre Dame. Questo non era un dipinto sui muri, ma un ricamo bianco su un pezzo di stoffa nera alto circa due piedi e molto lungo. Fu posto sopra gli stalli del coro nelle grandi cerimonie funebri, e fu anche portato via con gli altri mobili della chiesa, nella suddetta rivoluzione.

 

La successiva Danza Macabra, è stata rinvenuta a Basilea, la quale ha ispirato molti scrittori e viaggiatori di quel tempo. Fu posta coperta in una sorta di capanno nel sagrato della chiesa del convento domenicano. È stato osservato da critici più che competenti in materia il fatto che quasi tutti i conventi dei domenicani avevano una Danza Macabra. Poiché questi frati erano predicatori di professione, il soggetto doveva essere estremamente utile nel fornire testi e materia per i loro sermoni. La presente Danza sarebbe stata dipinta su iniziativa dei prelati che assistettero al Gran Consiglio di Basilea, durato dal 1431 al 1443; e in allusione, come supposto, a una pestilenza avvenuta durante il suo perdurare.




 L’assurda attribuzione del dipinto di Basilea alla matita di Hans Holbein, nato quasi un secolo dopo, è stata adottata da diversi critici d’arte, che hanno copiato gli errori dei loro predecessori, senza accertarsi nell’effettuare gli accertamenti necessari, ovvero possedere i mezzi per ottenere corrette informazioni.

 

Il nome di Holbein, quindi, associato a questo dipinto, deve essere completamente rimosso, come la possibilità che sia stato impiegato per ritoccarlo, come alcuni hanno inavvertitamente affermato; era tutta un’opera indegna del suo talento, né mostra, anche nel suo stato più recente, la più piccola indicazione del suo stile di pittura.

 

Alcuni uomini sono Testimoni del proprio tempo, le circostanze li hanno resi tali; il loro lavoro, per quanto possa piacere alla loro generazione, non fa nulla per indagare il futuro, per indicare la direzione che il pensiero o il gusto seguiranno, né un esempio per coloro che verranno.




 Hans Holbein il giovane appartiene alla classe più piccola e distinta che accetta la tradizione tanto quanto è utile o indispensabile, e può affrontare i problemi delle stagioni che cambiano e del nuovo pensiero con perfetta fiducia e istinto infallibile, senza provare terrore nel cambiamento. Suo padre era un artista, e questo fatto sembrerebbe aver segnato il suo percorso nella vita.

 

Ma, considerando il lavoro che ha svolto, nella sua ampiezza e qualità, abbiamo tutte le ragioni per credere che l’artista sia nato per avere successo, ed anche se fosse divenuto ingegnere, generale o uno statista, avrebbe lasciato lo stesso segno indelebile sulla sua generazione, e sarebbe stato ricordato con gratitudine e ammirazione da coloro che sarebbero venuti dopo di lui. Giacché era un uomo forte ed armato di buoni e sani principi, scelse di divenire un artista.




Non è difficile, se si ha una certa dose di talento, imporsi ai propri contemporanei. La critica è raramente esaustiva o definitiva finché il tempo non ha preso una posizione tra l’uomo e le sue fatiche, aggiustando la prospettiva precedente che raramente è corretta e mai esatta, ma con Holbein il caso era diverso. La sua generazione ha riconosciuto un genio al quale rendiamo omaggio dopo secoli trascorsi.

 

Potrei fare sei pari su sei aratori,

 

affermò Enrico VIII, che non era un giudice meschino;

 

…ma su sei coetanei non sono riusciti a fare un Holbein.




Noi che veniamo a pagare il nostro tributo di ammirazione così tanto tempo dopo l’opinione, buona o cattiva, abbiamo cessato di perseguitare l’artista, e così ci troviamo in netto svantaggio. Possiamo imparare poco o nulla sui dettagli personali della sua vita; l’anno della sua nascita e anche il luogo sono in discussione, mentre tra le varie autorità che si occupano della data della sua morte c’è una differenza di ben dodici anni, sebbene il bilancio delle prove sia molto favorevole alla data anteriore e vita più breve.

 

Inoltre, gran parte della produzione dell’artista è andata perduta, e in questi giorni, quando il lavoro dei vecchi maestri viene frequentemente scoperto, e molti altri salvati dall’oblio, ci sono tutte le ragioni per sperare che il futuro, in merito a questo artista, abbia qualcosa di prezioso in serbo per noi. Ma purtroppo sappiamo che, per quanto riguarda questo paese, gran parte del suo lavoro è andato irrimediabilmente distrutto.




Durante il Commonwealth molti dei  quadri dell’artista sono stati spediti nel continente, ed il grande incendio di Whitehall ha distrutto alcune sue opere inestimabili; per quanto si apprende, furono raccolti in primo luogo dal re Edoardo VI, e furono poi venduti in Francia, dove il loro proprietario li rivendette a Carlo I, il quale, a sua volta, li cedette al conte di Pembroke, dal quale passarono al conte di Arundel, che ne disputò con il re Carlo II, che fu probabilmente consigliato nella transazione da Sir Peter Lely.

 

Quindi furono portati a Kensington Palace, gettati in un cassetto e dimenticati finché, la regina Carolina ne scoprì alcuni e il re Giorgio III trovò il resto.

 

Non è irragionevole supporre che l’esperienza di questa famosa raccolta sia tipica di quella capitata a molte altre opere della stessa mano. Il nostro interesse per l’arte è relativamente moderno; solo negli ultimi cento anni le gesta di persone colte, ricche o agiate, ha rivolto la dovuta attenzione dei grandi inestimabili tesori che giacevano trascurati nelle strade maestre e nelle strade secondarie delle grandi città; e non bisogna dimenticare che l’umidità, l’incuria e l’indifferenza sono guai che hanno un effetto molto grave e sfavorevole sulle opere d’arte. Il favore accordato a un bel quadro deve essere duraturo, né dieci generazioni di attente cure espieranno dieci anni di cattiva conservazione e di abbandono.




 Dobbiamo molto a Holbein, perché fu uno dei pochi grandi pittori del Cinquecento che dipinse l’età commerciale che altri avevano disprezzato. Sembra aver scorto l’Europa sopraggiunta ad un bivio, e che la guerra non doveva essere più considerata il solo unico interesse della vita nazionale.

 

Per rendersi conto di come è cambiata la tempra del mondo, basta ricordare che se la spada è sguainata nel Ventesimo secolo lo è perché al servizio del commercio.

 

Il Rinascimento che fece tante meraviglie in Italia aprì gli occhi di Holbein e ampliò il suo punto di vista, ma dopo i primi anni si allontanò dall'influenza italiana e guardò la vita intorno a lui con occhi che erano stati aiutati piuttosto che accecati dal luce brillante che rifulse su Milano, Firenze e Venezia. 




Era un realista con uno squisito senso delle proporzioni, e una precisa certezza di intenzione ed espressione, che gli impediva di giocare brutti scherzi con la sua arte. Quando gli si presentarono grandi opportunità, ne approfittò così completamente che oggi possiamo rivolgerci al suo lavoro e leggere in esso la storia dei suoi tempi affascinanti. Ci ha lasciato una galleria dei popoli che governarono una parte considerevole dell’Europa centrale e occidentale nella prima metà del Cinquecento, quando il vicino Oriente era ancora incontaminato dalla civiltà cristiana, e pochi artisti cercavano al di là dell’Adriatico personaggi o mecenatismo.

 

Una piccola porzione di tempo dovutamente ritratto ed in posa, nella giusta prospettiva dei Tudor, rivive nell’arte e per mano di Holbein. Come li vide, così li ritrasse, e la storia non gli addebita alcuna accusa di adulazione, tranne nel caso di Anna di Cleves, di cui dipinse il ritratto per il re Enrico VIII, prima che il monarca l’avesse incontrata. Di per sé il ritratto non meno dell’opera incaricata all’artista ci svelano la sua ed altrui funzione, non meno del contesto in cui adoperata, ovvero la cornice del Secolo ivi rappresentato.


[Prosegue, orsù miei amici...]








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