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Conversazione dei cani (Seconda Parte)
SCIPIONE.
Amico Berganza, lasciamo questa notte l’ospedale in guardia della Fiducia e
ritiriamoci in questo luogo solitario, su queste storie, dove, senza che
nessuno ci veda, potremo godere di quest’insolito favore che il cielo ci ha
fatto a tutte e due nel medesimo tempo.
BERGANZA.
Fratello Scipione, io sento che tu parli e so che io parlo a te, né posso
persuadermene, perché mi pare che il parlar noi passi i limiti del naturale.
SCIPIONE. È
vero, Berganza, e tanto maggiore viene ad essere questo prodigio in quanto che
parliamo non solo ma parliamo e ragioniamo, come se fossimo capaci di ragione;
mentre tanto ne siamo privi che la differenza tra il bruto e l’uomo consiste
nell’essere l’uomo animale ragionevole e il bruto no.
BERGANZA.
Quanto tu dici, o Scipione, io lo capisco; e il dirlo tu e il capirlo io mi è
causa di nuova maraviglia. Ben è vero che nel corso della mia vita spessissimo e
in diverse occasioni ho sentito ricordare i grandi pregi che noi abbiamo, tanto
che pare ci siano stati alcuni i quali hanno volentieri creduto che noi abbiamo
in molte cose un istinto particolare così vivo e così fino da offrire indizio e
argomento che poco manca a dimostrare che abbiamo un non so che d’intelligenza,
capace di ragionamento.
SCIPIONE. Quel ch’io ho sentito lodare ed esaltare è l’aver noi molta memoria, la gratitudine e la fedeltà nostra, tanto che si è soliti dipingerci come simbolo dell’amicizia. E così avrai visto (se ci hai badato) che sulle tombe di alabastro su cui di solito sono ritratti quelli che lì giacciono sotterrati, mettono, quando sono marito e moglie, fra l’uno e l’altro, giù da piedi, una figura di cane per significare che si serbarono in vita amicizia e fedeltà invidiabile.
BERGANZA.
So bene che ci sono stati cani così riconoscenti che si sono buttati dentro la
stessa sepoltura con i morti corpi dei loro padroni; altri che si sono
accucciati sui sepolcri dove erano sotterrati i loro proprietari, senza più
discostarsene, senza più mangiare fino a lasciarsi morire; so pure che dopo
l’elefante, il primo a sembrare di avere intelligenza è il cane, poi il cavallo
e in ultimo la scimmia.
SCIPIONE. Così
è, però ben vorrai confessare di non avere mai visto né sentito dire che
qualche elefante, o cane, o cavallo o bertuccia abbia parlato; perciò son per credere
che questo nostro parlare così a un tratto rientra nel numero di quelle cose
che son chiamate prodigi, al mostrarsi e all’apparire dei quali l’esperienza ha
dimostrato che qualche grande calamità minaccia il mondo.
BERGANZA. E allora dunque, non esiterò gran che a ritenere come segnale di prodigio quello che tempo addietro, passando da Alcalá de Henares, ho sentito dire da uno studente.
SCIPIONE.
Cosa gli sentisti dire?
BERGANZA.
Che di cinquemila scolari che quell’anno frequentavano l’Università, duemila
studiavano medicina.
SCIPIONE. E
cosa vuoi dedurne?
BERGANZA.
Ne deduco che, o questi duemila medici avranno malati da curare (il che sarebbe
un flagello, una disgrazia) o essi dovranno morire di fame.
SCIPIONE. Ma sia ciò che vuol essere, noi altri, prodigio o no, parliamo; e quel che il cielo ha disposto che avvenga, non c’è attenzione né sapienza umana che valga a prevenirlo. Perciò non c’è da metterci a discutere noi altri come e perché parliamo. Sarà meglio che questo giorno fortunato, o meglio notte fortunata, lo mettiamo nel guadagno di casa; e siccome l’abbiamo così comoda su queste storie e non sappiamo quanto durerà questa buona fortuna, sappiamone godere e parliamo tutta stanotte senza dar luogo al sonno che c’impedisca questo piacere da me da lungo tempo desiderato.
BERGANZA.
Anche da me che da quando ebbi forza di rodere un osso, ebbi desiderio di
parlare per dire cose che riponevo nella memoria, dove, con l’invecchiarvi e accumularvisi,
o muffivano o le dimenticavo. Ora pertanto che proprio all’impensata mi vedo
ricco di questo dono divino della favella, intendo goderne e trarne il maggior
vantaggio possibile affrettandomi a dire tutto ciò che ricordo, quantunque
disordinatamente e in confuso, non sapendo quando mi venga ridomandata la
restituzione di questo bene che ritengo dato in prestito.
SCIPIONE.
Sia la maniera questa dunque, amico Berganza, di raccontarmi stanotte la tua
vita e le peripezie attraverso le quali sei pervenuto al punto in cui ora ti trovi.
Che se domani notte avremo ancora la favella, io ti racconterò la mia, poiché
sarà meglio spendere il tempo nel raccontarci le nostre che in cercar di sapere
quelle degli altri.
BERGANZA. Sempre, o Scipione, ti ho ritenuto giudizioso ed amico, più che mai ora che da amico vuoi dirmi i tuoi casi e sapere i miei, e giudiziosamente ripartito hai il tempo in cui possiamo esporli. Ma bada prima se qualcuno ci sente.
SCIPIONE.
Nessuno, secondo me; sebbene qui vicino ci stia un soldato a prendere i bagni
di sudore; ma a quest’ora sarà più in via di dormire che per mettersi ad ascoltare
qualcuno.
BERGANZA.
Se posso quindi parlare con questa sicurezza, ascolta, e se quel che ti verrò
dicendo ti annoia, avvertimene e comandami di tacere.
SCIPIONE.
Parla pure fino a giorno o finché non ci sentano, ché io t’ascolterò molto
volentieri senza interromperti, se non quando lo veda necessario.
BERGANZA. Mi pare che la prima volta ch’io vidi la luce fu a Siviglia, nell’ammazzatoio, che è fuori di Porta della Carne; dal che avrei immaginato (se non fosse per quello che poi ti dirò) che i miei genitori dovessero essere di quei mastini allevati da quei promotori di quel bailamme che sono i beccai. Il primo che conobbi per mio padrone fu un tal Niccola detto ‘Naso di cane’ vigoroso garzone, imbroglione, collerico, come tutti quelli che esercitano il mestiere di beccaio: il quale Niccola ammaestrava me ed altri cuccioli a dare, in branco con mastini adulti, l’assalto ai tori ed afferrarli per le orecchie, nel che io riuscii bravissimo molto facilmente.
SCIPIONE.
Nessuna maraviglia, o Berganza; perché, siccome dipende da naturale
disposizione il mal fare, così l’impariamo facilmente.
BERGANZA.
Che dirti, fratello Scipione, di quel che vidi in quell’ammazzatoio e delle
enormità che vi accadono? Devi premettere innanzi tutto che quanti lavorano lì,
dal minore al maggiore, è gente senza scrupoli, disumana, senza paura del re né
dei suoi ministri, donnaioli la più parte, uccelli rapaci sanguinari che
mantengono sé e le loro drude con quel che rubano. Tutti i giorni di grasso,
prima che levi il sole, c’è nell’ammazzatoio una gran folla di donnicciole e di
ragazzi, tutti con dei sacchi che, vuoti a venire, sono, al ritorno, pieni di
tòcchi di carne; e le serve ci hanno granelli e lombi quasi interi. Non c’è
capo di bestiame che si macelli e codesta gente non ne riporti le decime e le
primizie delle parti piú saporite e prelibate. E poiché a Siviglia non c’è l’appalto
della carne, ognuno può portar via quella che gli piace. La prima che si
macella o è la più scelta o la più a buon mercato; cosicché, con questa regola,
ce n’è sempre in grande abbondanza, e i padroni si raccomandano a questa buona
gente che ho detto non perché non li derubi (che è impossibile) ma perché
abbiano un po’ di discrezione nelle fette e nelle furberie che usano sui quarti
della carne macellata, ché li scapezzano e li potano come se fossero salci o
viti da pergola. Ma nulla mi faceva tanto maravigliare né mi pareva peggiore
quanto il vedere che questi beccai ammazzano con la medesima facilità un uomo
come una vacca; per un fil di paglia, senza tanti complimenti cacciano una
coltella dal manico giallo nel buzzo a uno come accoppare un toro. Miracolo se
passa un giorno senza liti e ferimenti e talvolta senza morti! Tutti si vantano
di essere dei bravacci e hanno pure un ramo di furfanteria. Non c’è nessuno che
non abbia il suo angelo custode nella piazza di San Francesco cattivato a furia
di lombi e di lingue di vaccina. In breve, ho sentito dire da un uomo di
giudizio che tre cose aveva il re in Siviglia pei suoi provventi: Via della
Caccia, la Scesina e l’Ammazzatoio.
SCIPIONE. Se per dire le diverse condizioni dei padroni che hai avuto e le marachelle nei loro mestieri, devi, amico Berganza, star tanto come ora, bisognerà domandare al cielo che ci permetta la favella almeno per un anno, e temo pure che di questo passo tu non arrivi neanche alla metà della tua storia. Ti voglio poi avvisare di una cosa, che vedrai in pratica quando ti racconterò io i casi della mia vita, ed è che i racconti, alcuni hanno in se stessi di che piacere, altri l’hanno nel modo di raccontarli: voglio dire che ce n’è di quelli che anche a narrarli senza preamboli ed abbellimenti di parole, piacciono; ce n’è altri che bisogna abbigliarli di parole e che con espressioni del viso e con gesti e con mutamenti di voce, da una cosa da nulla divengono qualcosa, da rozzi ed insipidi divengono delicati e saporosi. Non ti dimenticare ora quest’avvertimento per potertene giovare in ciò che ti resta a dire.
BERGANZA. Così
farò se mi riesce e se me ne darà modo la gran voglia che ho di parlare,
sebbene mi paia che molto difficilmente saprò rattenermi.
SCIPIONE.
Fai attenzione alla lingua, perché dalla lingua dipendono i maggiori guai della
vita umana.
BERGANZA. Dico che tutti i pensieri che ho detto, e più ancora, mi fecero vedere come il modo di vivere e di praticare di quei miei pastori e di tutti gli altri di quelle piagge fosse differente da quello che avevo sentito leggere dei pastori dei libri. Infatti se i miei cantavano, non erano già canti armoniosi e ben composti, ma La bella Gigogin oppure Marianna la va in campagna e altre cosucce di simil genere; e neanche al suono di ciaramelle, di ribeche, o di cornamuse, ma al suono che produceva il battere un vincastro con l’altro o delle castagnole messe fra le dita; e neanche cantati da voci gentili, sonore e maravigliose, ma da voci rauche che, sole o in coro, sembravano non cantare ma urlare e grugnire. Il più della giornata se la passavano a spulciarsi o a rammendare le loro cioce; né fra loro c’era chi si chiamasse Amarilli, Filida, Galatea e Diana, né c’erano Lisardi, Lausi, Giacinti o Riselli; si chiamavan tutti Antoni, Domenichi, Paoli e Lorenzi. Dal che venni a comprendere quello che penso debba essere comunemente creduto che tutti quei libri son sogni, bene scritti per passatempo degli sfaccendati, e nulla affatto verità; perché se fosse stato così, sarebbe rimasta fra i miei pastori qualche traccia di quel vivere felicissimo, di quell’amenità di prati, di quell’estensione di selve, di sacri monti, dilettosi giardini, chiari ruscelli e fonti cristalline; di quelle tanto oneste quanto bene espresse dichiarazioni amorose, di quel sentirsi mancare qui il pastore, lì la pastora, risuonare colà la zampogna dell’uno, qua il piffero dell’altro.
SCIPIONE.
Basta, Berganza, rimettiti in carreggiata, e va avanti.
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