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Sempre di Domenica...(24/5)
Con la percezione della realtà (48/51)
Qualche
numero: secondo dati Istat tra il 1990 e il 2005 la superficie agricola
utilizzata (SAU) in Italia si è ridotta di 3 milioni e 663 mila ettari, un’area
più vasta della somma di Lazio e Abruzzo: abbiamo così convertito,
cementificato o degradato in quindici anni, senza alcuna pianificazione, il
17,06% del nostro suolo agricolo.
Questi dati
sono stati spesso interpretati come equivalenti al consumo del suolo, cioè alla
sua cementificazione, ma non è così semplice, come ha ben mostrato Massimo
Quaini. In ogni caso, la contrazione dei terreni agrari e boschivi misurata
dall’Istat ha pesanti conseguenze negative, non solo perché accresce (anche per
abbandono) la superficie improduttiva del territorio nazionale, ma anche perché
spesso favorisce il dissesto idrogeologico, e intanto crea una terra di nessuno
disponibile ad affrettate urbanizzazioni.
Quanta parte di questi suoli un tempo agricoli è stata e viene ancora cementificata nel corso degli anni?
La risposta
non è facile: non la danno in forma diretta i dati Istat, non la danno i
programmi di lettura delle immagini satellitari, che non includono le superfici
inferiori ai 25 ettari. Secondo Gilmo Vianello, nell’Atlante dei tipi
geografici dell’Istituto Geografico Militare, dal 1950 al 2000 la SAU è calata di 5 milioni di ettari, di cui più
di 2 milioni di ettari a causa dell’urbanizzazione e delle relative
infrastrutture. Secondo Bernardino Romano, nel dossier Wwf sul consumo del
suolo in Italia, ‘dal 1956 al 2001
la superficie urbanizzata del nostro Paese è aumentata del 500% … il consumo di
suolo ha viaggiato al ritmo di 244 000 ettari l’anno … ogni giorno in Italia
vengono cementificati 161 ettari di terreno … ovunque il suolo agricolo è
considerato potenzialmente edificabile’.
Nel solo 2007, secondo dati dell’Agenzia del Territorio, pur con una flessione dell’1% circa rispetto al 2006, si sono registrate in Italia 732 157 nuove unità immobiliari, di cui 309 379 residenziali. Secondo il Cresme (Centro ricerche economiche sociali di mercato per l’edilizia e il territorio) nel 2008 si sono ultimati 59000 nuovi edifici residenziali, con una volumetria complessiva di quasi 126,2 milioni di metri cubi, per un totale di circa 320 000 abitazioni. Secondo Paolo Berdini, in base ai dati Istat il consumo di suolo dal 1995 al 2006 ha raggiunto la cifra record di 750 000 ettari, poco meno della superficie dell’Umbria.
Secondo il
rapporto Istat, ‘l’espansione dell’urbanizzazione ha conosciuto negli ultimi
decenni un’accelerazione senza precedenti, che si è prodotta in assenza di
pianificazione urbanistica sovra-comunale in importanti aree del Paese
(Mezzogiorno, Veneto e Lazio tra tutte)’.
‘Nel periodo 1995-2006 i Comuni italiani hanno rilasciato in media permessi di costruire per 3,1 miliardi di metri cubi, pari a oltre 261 milioni di metri cubi l’anno, di cui poco più dell’80% per la realizzazione di nuovi fabbricati e il rimanente per l’ampliamento di fabbricati esistenti’.
‘L’edilizia
residenziale, con una media di 106 milioni di metri cubi l’anno, rappresenta il
40% di questo flusso’, ma ‘nell’ultimo triennio il flusso dei volumi
autorizzati ha raggiunto i 284 milioni di metri cubi l’anno, e la quota
dell’edilizia residenziale è salita al 45,2%’.
Si tratta,
è bene sottolinearlo, di dati parziali, sottostimati perché non ‘vedono’ le
costruzioni abusive; eppure bastano per tracciare un quadro assai preoccupante:
basti ricordare che ogni anno si costruiscono mediamente 22,3 metri cubi per
abitante, con punte fino a 35,2 metri cubi l’anno per abitante nelle regioni
del Nord-Est.
‘Il legame
fra crescita demografica ed economica da una parte e crescita urbana dall’altra
non è più lineare: l’urbanizzazione è …relativamente autonoma rispetto agli
andamenti demografici ed economici e suggerisce, piuttosto, un’evoluzione in
senso consumistico del rapporto della popolazione con il proprio territorio’.
È cambiata in modo irreversibile anche la tipologia degli insediamenti: cala costantemente il tasso di residenza in zone extraurbane, mentre l’insediamento nelle zone ad alto tasso di urbanizzazione si addensa sempre di più, specialmente in alcune aree: ‘l’area pedemontana lombardoveneta, che costituisce una delle più vaste conurbazioni europee’, ma anche numerose zone litoranee (soprattutto in Liguria ma anche in Toscana, Lazio, Puglia, Calabria, Sicilia).
Da nessuna
parte il minimo segno di resipiscenza: in Lombardia,
dove la superficie agricola si è ridotta del 18,23% nel quindicennio 1990-2005,
le sole autostrade in costruzione o in progetto stanno distruggendo altri 2670 ettari
di suolo. Eppure, nel periodo 1999-2004 il territorio urbanizzato è cresciuto
al ritmo di 13 ettari al giorno: in un anno, le dimensioni di una città come
Brescia.
Lo spazio in cui viviamo non è mai ‘neutro’. Fu spazio di Natura, con le sue continuità e i suoi sconvolgimenti, fino a quando l’uomo prese a imprimervi i propri segni, trasformandolo profondamente a propria somiglianza. Lo spazio dell’uomo – lo capirono molto tempo fa i grandi geografi del passato come Carl Ritter – è riflesso e memoria della storia e della società, anzi delle storie e delle società che lo hanno plasmato nel tempo, che lo plasmano oggi per gli uomini e le donne di domani.
La
modificazione dello spazio naturale ad opera dell’uomo è stata sempre più
intensa nel tempo e cresce ancora, seguendo l’inarrestabile aumento della
popolazione, un processo sempre più preoccupante per le risorse che consuma, le
disuguaglianze che perpetua, i problemi che suscita, a cominciare dal più
elementare: l’alimentazione. Le radissime presenze umane delle età più antiche
si sono infittite con ritmo sempre più incalzante, in particolare da quando
nacque la forma urbana, e le città presero a insediarsi nello spazio naturale
invertendone la valenza, trasformandolo in uno spazio artificiale segnato dalle
architetture (e dai simboli) del vivere, della religione e del potere.
La produzione dello spazio sociale limita e trasforma lo spazio naturale, senza tuttavia distruggerlo. Ne abbiamo bisogno, quanto meno per il nostro sostentamento.
‘Lo spazio
sociale si scrive sulla Natura, talora come scarabocchio … La Natura ci
ossessiona, come l’infanzia e la spontaneità, attraverso il filtro della
memoria.
Chi non
sente il bisogno di proteggerla, di salvarla?
O di
ritrovarne l’autenticità?
Chi vuole
distruggerla?
Nessuno!
Ma
nonostante questo, tutto cospira contro di lei’
Non c’è
vissuto individuale senza uno spazio circostante, che è insieme naturale e
sociale: eppure l’individuo, anche se tutto della sua vita dipende dalla sanità
dello spazio che lo circonda, ben di rado riesce a controllarlo; più spesso, ne
è sopraffatto. Sanità dello spazio, in senso prima di tutto letterale: il
cittadino di Černobyl´ o di Seveso, quali che siano le logiche industriali che
hanno creato intorno a lui disastri e morte, lotta contro di esse in nome della
propria vita.
Sanità dello spazio, anche, in senso culturale: lo sviluppo delle società moderne e di alcuni valori fondamentali (libertà, democrazia, uguaglianza) si è accompagnato alla creazione collettiva di una sorta di codice dello spazio, ‘contemporaneamente architettonico, urbanistico e politico, un linguaggio comune agli abitanti delle campagne e delle città, alle autorità, agli artisti’.
Il nuovo paesaggio
italiano che stiamo creando appartiene, si potrebbe dire parafrasando Walter
Benjamin, al dominio della statistica, non a quello dell’estetica.
In questa
drastica svolta, la nuova configurazione dello spazio, fino all’‘urban sprawl’,
riflette uno sviluppo storico molto importante: l’industrializzazione
dell’edilizia divora l’ambiente, consuma il suolo, genera bisogni, impone
pratiche e desideri, trascina nel suo vortice (come ogni consumismo) non solo i
produttori, ma i consumatori, cioè tutti.
Perciò suonano oggi profetiche le parole di Lefebvre sul silenzio degli utenti:
‘Perché
subiscono senza ribellarsi troppo le manipolazioni degli spazi e della loro
vita quotidiana?
Perché le
proteste restano limitate a ‘gruppi illuminati’, dunque a élites che spesso
sono risparmiate dalle manipolazioni stesse?
Questi
ambienti privilegiati, marginali rispetto alla politica, fanno rumore – e
chiacchiere – senza grandi risultati.
Perché le
proteste non arrivano ai partiti politici cosiddetti ‘di sinistra come di
destra’?’
Il corpo e la vita dell’individuo sono travolti da questo processo via via che l’ambiente che lo circonda diventa meno sano, meno gradevole e vivibile: ma mentre perdiamo salute e qualità della vita, troppo spesso sembriamo incapaci di reagire.
In questo
drammatico alternarsi di alti momenti creativi e di cieco accanirsi sulla
nostra stessa vita, leggiamo una storia dello spazio, del suo modificarsi nel
mutare della società, degli intenti e delle forze, dei rapporti di produzione.
‘Leggiamo
il tempo nello spazio’, secondo la formula di Karl Schlöge; leggiamo i paesaggi
come un mosaico di compresenze sincroniche, e insieme come uno stratificato
palinsesto diacronico.
Perciò la storia dello spazio è la storia del costituirsi di codici di produzione e di lettura dello spazio, e dei modi in cui lo spazio sociale (creazione dell’uomo) a sua volta investe e plasma l’identità individuale, legittima o condanna valori, costumi, abitudini: è quello che meglio d’ogni altro comprese Walter Benjamin descrivendo le folle urbane che si aggirano nei Passages, il formarsi di identità collettive, l’ethos delle metropoli.
Ma è anche
(oggi più che mai) la storia del consumarsi e svanire di ogni codice, dello
svuotarsi di ogni valore sotto pressioni estranee. Il consumo di territorio
spinge al limite estremo il distacco dalla natura, ingoiando implacabile coste
e montagne, boschi e dune, allontanando la coscienza della terra che produce
cibo e ci nutre.
Non solo: esso devasta anche gli orizzonti socioculturali prodotti nel lungo corso dei secoli, e talora li irride salvandone con malcelato disprezzo frammenti ‘simbolici’, che sopravvivono senza dignità e senza respiro, soffocati fra le brutture. L’autostrada taglia in due il parco di una villa palladiana, l’acquedotto romano è assediato dai condominî, neograttacieli che imitano (invano) New York e Chicago, o piuttosto Singapore e Dubai, guardano dall’alto in basso chiese e palazzi barocchi. Un neospazio dominato dal denaro e dal mercato uccide la storia di tutti, violenta la vita di ognuno.
La storia
dello spazio ha, come ogni altra storia, tre dimensioni egualmente necessarie:
è memoria delle sedimentazioni storiche di cui il tempo ha lasciato traccia; è
il frutto, qui e oggi, di processi in atto, che vanno dalla conservazione
inerziale (forse solo per povertà di risorse) all’annientamento programmato (in
tempi d’abbondanza); infine, comporta comunque un progetto per il futuro
(l’assenza di ogni progetto è essa stessa un progetto, perché implica il
disprezzo delle generazioni a venire).
Non possiamo intendere il presente senza conoscere il passato su cui s’innesta; ma solo un fedele ritratto del presente ci consente d’intendere e preparare le verità del futuro.
Il futuro
dovrebbe premerci: ma è sul presente che dobbiamo far perno se vogliamo
intendere perché la brutale devastazione del paesaggio, che danneggia tutti per
il vantaggio di pochi, avviene fra inermi proteste ma senza efficace
opposizione.
Così non
sarebbe se l’apatia di molti cittadini non fosse alimentata dalla segmentazione
dei poteri, dai conflitti di competenza, dalla confusione (voluta) dei
linguaggi e delle norme.
Di questi
processi, quel che sfugge al cittadino (anche al più diligente) è in ogni caso
troppo. Abbiamo il diritto di non avere tutte le competenze necessarie a
intendere i distinguo dei giuristi e i conflitti fra le istituzioni, o a
inseguire l’altalena delle pressioni politiche, dei patteggiamenti
preelettorali, dei voti di scambio. Perciò abbiamo delegato e deleghiamo la
gestione dello spazio (del paesaggio, del territorio, dell’ambiente) a chi ci
governa, dal Comune allo Stato. Ma di fronte a tanto disastro e a tanta
discordia sul da farsi, abbiamo il diritto di chiederne ragione.
Devono, le
istituzioni pubbliche, dare regole?
Farle
rispettare?
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