CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

domenica 3 ottobre 2021

IL RACCONTO DEL GIORNO DOPO (ovvero la Domenica) DELLA GLORIOSA RIVOLTA

 

























Precedenti capitoli:


Sempre di Domenica...(24/5)












La Rivolta prosegue...


Con la percezione della realtà (48/51)









Qualche numero: secondo dati Istat tra il 1990 e il 2005 la superficie agricola utilizzata (SAU) in Italia si è ridotta di 3 milioni e 663 mila ettari, un’area più vasta della somma di Lazio e Abruzzo: abbiamo così convertito, cementificato o degradato in quindici anni, senza alcuna pianificazione, il 17,06% del nostro suolo agricolo.

 

Questi dati sono stati spesso interpretati come equivalenti al consumo del suolo, cioè alla sua cementificazione, ma non è così semplice, come ha ben mostrato Massimo Quaini. In ogni caso, la contrazione dei terreni agrari e boschivi misurata dall’Istat ha pesanti conseguenze negative, non solo perché accresce (anche per abbandono) la superficie improduttiva del territorio nazionale, ma anche perché spesso favorisce il dissesto idrogeologico, e intanto crea una terra di nessuno disponibile ad affrettate urbanizzazioni.




Quanta parte di questi suoli un tempo agricoli è stata e viene ancora cementificata nel corso degli anni?

 

La risposta non è facile: non la danno in forma diretta i dati Istat, non la danno i programmi di lettura delle immagini satellitari, che non includono le superfici inferiori ai 25 ettari. Secondo Gilmo Vianello, nell’Atlante dei tipi geografici dell’Istituto Geografico Militare, dal 1950 al 2000 la SAU è calata di 5 milioni di ettari, di cui più di 2 milioni di ettari a causa dell’urbanizzazione e delle relative infrastrutture. Secondo Bernardino Romano, nel dossier Wwf sul consumo del suolo in Italia, ‘dal 1956 al 2001 la superficie urbanizzata del nostro Paese è aumentata del 500% … il consumo di suolo ha viaggiato al ritmo di 244 000 ettari l’anno … ogni giorno in Italia vengono cementificati 161 ettari di terreno … ovunque il suolo agricolo è considerato potenzialmente edificabile’.




Nel solo 2007, secondo dati dell’Agenzia del Territorio, pur con una flessione dell’1% circa rispetto al 2006, si sono registrate in Italia 732 157 nuove unità immobiliari, di cui 309 379 residenziali. Secondo il Cresme (Centro ricerche economiche sociali di mercato per l’edilizia e il territorio) nel 2008 si sono ultimati 59000 nuovi edifici residenziali, con una volumetria complessiva di quasi 126,2 milioni di metri cubi, per un totale di circa 320 000 abitazioni. Secondo Paolo Berdini, in base ai dati Istat il consumo di suolo dal 1995 al 2006 ha raggiunto la cifra record di 750 000 ettari, poco meno della superficie dell’Umbria.

 

Secondo il rapporto Istat, ‘l’espansione dell’urbanizzazione ha conosciuto negli ultimi decenni un’accelerazione senza precedenti, che si è prodotta in assenza di pianificazione urbanistica sovra-comunale in importanti aree del Paese (Mezzogiorno, Veneto e Lazio tra tutte)’.




‘Nel periodo 1995-2006 i Comuni italiani hanno rilasciato in media permessi di costruire per 3,1 miliardi di metri cubi, pari a oltre 261 milioni di metri cubi l’anno, di cui poco più dell’80% per la realizzazione di nuovi fabbricati e il rimanente per l’ampliamento di fabbricati esistenti’.

 

‘L’edilizia residenziale, con una media di 106 milioni di metri cubi l’anno, rappresenta il 40% di questo flusso’, ma ‘nell’ultimo triennio il flusso dei volumi autorizzati ha raggiunto i 284 milioni di metri cubi l’anno, e la quota dell’edilizia residenziale è salita al 45,2%’.

 

Si tratta, è bene sottolinearlo, di dati parziali, sottostimati perché non ‘vedono’ le costruzioni abusive; eppure bastano per tracciare un quadro assai preoccupante: basti ricordare che ogni anno si costruiscono mediamente 22,3 metri cubi per abitante, con punte fino a 35,2 metri cubi l’anno per abitante nelle regioni del Nord-Est.




 Negli undici anni dal 1991 al 2001 l’Istat registra un incremento delle superfici urbanizzate del 15%, ben 37,5 volte maggiore del modesto incremento demografico degli stessi anni (0,4%), mentre nei sette anni successivi ‘l’incremento delle superfici edificate è stato del 7,8%’; tuttavia le superfici cementificate continuano a crescere, in particolare nelle regioni più ‘costruite’ d’Italia, Lombardia e Veneto, ‘approssimando situazioni di saturazione territoriale’.

 

‘Il legame fra crescita demografica ed economica da una parte e crescita urbana dall’altra non è più lineare: l’urbanizzazione è …relativamente autonoma rispetto agli andamenti demografici ed economici e suggerisce, piuttosto, un’evoluzione in senso consumistico del rapporto della popolazione con il proprio territorio’.




È cambiata in modo irreversibile anche la tipologia degli insediamenti: cala costantemente il tasso di residenza in zone extraurbane, mentre l’insediamento nelle zone ad alto tasso di urbanizzazione si addensa sempre di più, specialmente in alcune aree: ‘l’area pedemontana lombardoveneta, che costituisce una delle più vaste conurbazioni europee’, ma anche numerose zone litoranee (soprattutto in Liguria ma anche in Toscana, Lazio, Puglia, Calabria, Sicilia).

 

Da nessuna parte il minimo segno di resipiscenza: in Lombardia, dove la superficie agricola si è ridotta del 18,23% nel quindicennio 1990-2005, le sole autostrade in costruzione o in progetto stanno distruggendo altri 2670 ettari di suolo. Eppure, nel periodo 1999-2004 il territorio urbanizzato è cresciuto al ritmo di 13 ettari al giorno: in un anno, le dimensioni di una città come Brescia.




Lo spazio in cui viviamo non è mai ‘neutro’. Fu spazio di Natura, con le sue continuità e i suoi sconvolgimenti, fino a quando l’uomo prese a imprimervi i propri segni, trasformandolo profondamente a propria somiglianza. Lo spazio dell’uomo – lo capirono molto tempo fa i grandi geografi del passato come Carl Ritter – è riflesso e memoria della storia e della società, anzi delle storie e delle società che lo hanno plasmato nel tempo, che lo plasmano oggi per gli uomini e le donne di domani.

 

La modificazione dello spazio naturale ad opera dell’uomo è stata sempre più intensa nel tempo e cresce ancora, seguendo l’inarrestabile aumento della popolazione, un processo sempre più preoccupante per le risorse che consuma, le disuguaglianze che perpetua, i problemi che suscita, a cominciare dal più elementare: l’alimentazione. Le radissime presenze umane delle età più antiche si sono infittite con ritmo sempre più incalzante, in particolare da quando nacque la forma urbana, e le città presero a insediarsi nello spazio naturale invertendone la valenza, trasformandolo in uno spazio artificiale segnato dalle architetture (e dai simboli) del vivere, della religione e del potere.




La produzione dello spazio sociale limita e trasforma lo spazio naturale, senza tuttavia distruggerlo. Ne abbiamo bisogno, quanto meno per il nostro sostentamento.

 

‘Lo spazio sociale si scrive sulla Natura, talora come scarabocchio … La Natura ci ossessiona, come l’infanzia e la spontaneità, attraverso il filtro della memoria.

 

Chi non sente il bisogno di proteggerla, di salvarla?

 

O di ritrovarne l’autenticità?

 

Chi vuole distruggerla?

 

Nessuno!

 

Ma nonostante questo, tutto cospira contro di lei’




 Ogni società produce il proprio spazio, teatro necessario della produzione economica, delle gerarchie sociali, del potere, del sapere e dei riti: perciò lo spazio di una civiltà industriale è così radicalmente diverso da quello di una cultura contadina. Lo spazio sociale avvolge e determina il corpo dell’individuo, vi genera percezioni e rappresentazioni, un ordine di valori, gli strati della memoria, vi radica le esperienze dell’oggi e le speranze del domani: per converso, percezioni e aspettative individuali si riflettono sullo spazio fisico e sociale, contribuiscono a modellarlo.

 

Non c’è vissuto individuale senza uno spazio circostante, che è insieme naturale e sociale: eppure l’individuo, anche se tutto della sua vita dipende dalla sanità dello spazio che lo circonda, ben di rado riesce a controllarlo; più spesso, ne è sopraffatto. Sanità dello spazio, in senso prima di tutto letterale: il cittadino di Černobyl´ o di Seveso, quali che siano le logiche industriali che hanno creato intorno a lui disastri e morte, lotta contro di esse in nome della propria vita.




Sanità dello spazio, anche, in senso culturale: lo sviluppo delle società moderne e di alcuni valori fondamentali (libertà, democrazia, uguaglianza) si è accompagnato alla creazione collettiva di una sorta di codice dello spazio, ‘contemporaneamente architettonico, urbanistico e politico, un linguaggio comune agli abitanti delle campagne e delle città, alle autorità, agli artisti’.

 

Il nuovo paesaggio italiano che stiamo creando appartiene, si potrebbe dire parafrasando Walter Benjamin, al dominio della statistica, non a quello dell’estetica.

 

In questa drastica svolta, la nuova configurazione dello spazio, fino all’‘urban sprawl’, riflette uno sviluppo storico molto importante: l’industrializzazione dell’edilizia divora l’ambiente, consuma il suolo, genera bisogni, impone pratiche e desideri, trascina nel suo vortice (come ogni consumismo) non solo i produttori, ma i consumatori, cioè tutti.




Perciò suonano oggi profetiche le parole di Lefebvre sul silenzio degli utenti:

 

‘Perché subiscono senza ribellarsi troppo le manipolazioni degli spazi e della loro vita quotidiana?

 

Perché le proteste restano limitate a ‘gruppi illuminati’, dunque a élites che spesso sono risparmiate dalle manipolazioni stesse?

 

Questi ambienti privilegiati, marginali rispetto alla politica, fanno rumore – e chiacchiere – senza grandi risultati.

 

Perché le proteste non arrivano ai partiti politici cosiddetti ‘di sinistra come di destra’?’




Il corpo e la vita dell’individuo sono travolti da questo processo via via che l’ambiente che lo circonda diventa meno sano, meno gradevole e vivibile: ma mentre perdiamo salute e qualità della vita, troppo spesso sembriamo incapaci di reagire.

 

In questo drammatico alternarsi di alti momenti creativi e di cieco accanirsi sulla nostra stessa vita, leggiamo una storia dello spazio, del suo modificarsi nel mutare della società, degli intenti e delle forze, dei rapporti di produzione.

 

‘Leggiamo il tempo nello spazio’, secondo la formula di Karl Schlöge; leggiamo i paesaggi come un mosaico di compresenze sincroniche, e insieme come uno stratificato palinsesto diacronico.




Perciò la storia dello spazio è la storia del costituirsi di codici di produzione e di lettura dello spazio, e dei modi in cui lo spazio sociale (creazione dell’uomo) a sua volta investe e plasma l’identità individuale, legittima o condanna valori, costumi, abitudini: è quello che meglio d’ogni altro comprese Walter Benjamin descrivendo le folle urbane che si aggirano nei Passages, il formarsi di identità collettive, l’ethos delle metropoli.

 

Ma è anche (oggi più che mai) la storia del consumarsi e svanire di ogni codice, dello svuotarsi di ogni valore sotto pressioni estranee. Il consumo di territorio spinge al limite estremo il distacco dalla natura, ingoiando implacabile coste e montagne, boschi e dune, allontanando la coscienza della terra che produce cibo e ci nutre.




Non solo: esso devasta anche gli orizzonti socioculturali prodotti nel lungo corso dei secoli, e talora li irride salvandone con malcelato disprezzo frammenti ‘simbolici’, che sopravvivono senza dignità e senza respiro, soffocati fra le brutture. L’autostrada taglia in due il parco di una villa palladiana, l’acquedotto romano è assediato dai condominî, neograttacieli che imitano (invano) New York e Chicago, o piuttosto Singapore e Dubai, guardano dall’alto in basso chiese e palazzi barocchi. Un neospazio dominato dal denaro e dal mercato uccide la storia di tutti, violenta la vita di ognuno.

 

La storia dello spazio ha, come ogni altra storia, tre dimensioni egualmente necessarie: è memoria delle sedimentazioni storiche di cui il tempo ha lasciato traccia; è il frutto, qui e oggi, di processi in atto, che vanno dalla conservazione inerziale (forse solo per povertà di risorse) all’annientamento programmato (in tempi d’abbondanza); infine, comporta comunque un progetto per il futuro (l’assenza di ogni progetto è essa stessa un progetto, perché implica il disprezzo delle generazioni a venire).




Non possiamo intendere il presente senza conoscere il passato su cui s’innesta; ma solo un fedele ritratto del presente ci consente d’intendere e preparare le verità del futuro.

 

Il futuro dovrebbe premerci: ma è sul presente che dobbiamo far perno se vogliamo intendere perché la brutale devastazione del paesaggio, che danneggia tutti per il vantaggio di pochi, avviene fra inermi proteste ma senza efficace opposizione.

 

Così non sarebbe se l’apatia di molti cittadini non fosse alimentata dalla segmentazione dei poteri, dai conflitti di competenza, dalla confusione (voluta) dei linguaggi e delle norme.

 

Di questi processi, quel che sfugge al cittadino (anche al più diligente) è in ogni caso troppo. Abbiamo il diritto di non avere tutte le competenze necessarie a intendere i distinguo dei giuristi e i conflitti fra le istituzioni, o a inseguire l’altalena delle pressioni politiche, dei patteggiamenti preelettorali, dei voti di scambio. Perciò abbiamo delegato e deleghiamo la gestione dello spazio (del paesaggio, del territorio, dell’ambiente) a chi ci governa, dal Comune allo Stato. Ma di fronte a tanto disastro e a tanta discordia sul da farsi, abbiamo il diritto di chiederne ragione.

 

Devono, le istituzioni pubbliche, dare regole?

 

Farle rispettare?


(Prosegue...)










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