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Prosegue con la...:
Seconda parte (8/10 ottobre)....
Che pallone
formidabile è la Stella! Uno sferico che all’equatore misura quindici metri e
fa invidia a molti del raduno di Milano. È imponente, uno spettacolo! Una gemma
del cielo.
Forma
perfetta, armoniosa, morbida. È di seta bianca.
Bianca per
non attirare i raggi solari e limitare il surriscaldamento del gas. La seta
appare sotto forma di grandi spicchi cuciti tra loro con un particolare punto
di rinforzo che Charbonnet ha curato personalmente dando poi istruzioni alle
operaie giù in Officina. Ed è ricoperta da uno strato di specialissima vernice
grassa, diluita con liquido volatile, di resina e olio di lino cotto.
Questo
formidabile trattamento, ripete spesso Charbonnet al signor Botto durante le
loro infinite discussioni nel deposito dell’officina, consente alla Stella,
anche senza guttaperca, di disperdere soltanto quattordici litri per metro
quadrato ogni ventiquattr’ore!
Il gas è altamente volatile, ma la seta della Stella riesce a trattenerlo a dovere. Qualità importantissima per coprire voli di lunga distanza, come al famoso raduno di Milano.
“In volo,
durante il raduno,”
spiega
Charbonnet ai conoscenti che lo interrogano sulle sue peripezie in cielo,
“in genere
non ci si perde in visioni poetiche, tanto meno in futili chiacchiere. Si sale
e si va, sperando nel vento. Non è uno scherzo, credetemi. Col variare della
temperatura, quando cala la notte o quando si entra o si esce dal cono d’ombra
delle nuvole, gli equilibri aerostatici immancabilmente si rompono e allora il
pallone varia il proprio assetto nell’aria. Se la Stella acquista quota, si
agisce sulla valvola tirando l’apposita fune che sale verticalmente dalla
navicella e si fa fuoriuscire del gas. Se invece la Stella scende, è necessario
gettare subito zavorra. Di notte, di giorno, senza sosta, con continue
correzioni per mantenere l’equilibrio. No, non è uno scherzo!”
Le notti in volo sono fredde, silenziose: solitudine all’estremo. Niente può rivelare dove ci si trova, se non le rare luci di qualche paese lontano, che appaiono come fari su isole perdute nel mare nero della campagna.
La Stella,
da sola, pesa pressappoco quanto un cavallino di piccola taglia – due quintali
–, ma può portare fino a sei persone in una volta. Cinquanta chili è il peso
della rete, ai quali bisogna aggiungere gli altri settanta della navicella con
funi e cerchio. E anche il peso dell’ancora e della guiderope, l’ingombrante
corda di ancoraggio. Dunque, un carro da trasporto è appena sufficiente a
spostare il pallone disarmato.
Poi però
c’è anche la sabbia asciutta necessaria al riempimento dei sacchetti di
zavorra. E se in loco non la si trova, bisogna farla arrivare da qualche
cantiere edile. Ma dev’essere un buon cantiere, perché non tutta la sabbia è
uguale. Quella per la Stella non può contenere pietrisco, tanto meno sassi,
molto rischiosi per chi si trova a terra.
In quell’appendice pendula abbandonata alla gravità e all’incognita dei venti – così da non sapere mai dove si atterrerà –, c’è per Charbonnet un misto di razionalità e di poesia che sfocia in un frenetico desiderio di ritornare sempre a volare. Il volo, per lui, significa soprattutto “travalicare le contingenze di ogni giorno”.
Lassù non
ci sono regole, c’è la libertà del vento; non esistono leggi, se non quelle
della termodinamica. E poi c’è anche la vera mistica del volo: il volo è
un’arte incorporea, evanescente, come la danza. “Sì, come la danza!” gli fa eco
Botto, che di piroette e coreografie se ne intende, dopo anni alla Scuola
Ginnica Ernesto Ricardi di Netro.
Lassù si
raggiungono punti di vista che permettono di abbattere le barriere
dell’immaginazione, e con un solo colpo d’occhio di afferrare l’insieme delle
cose: così pensa Charbonnet. In fondo, non avevano fatto così anche i padri
dell’Encyclopédie, un secolo prima, a Parigi?
Su uno scaffale, a portata di occhi e di mano, avevano immaginato di raccogliere l’intero universo, tutto lo scibile umano. Guardare la sfera terrestre da lassù non è molto diverso, secondo Charbonnet.
Appesi al
gas sopra duemila metri di aria.
Tutti i
sensi all’erta. Lanciarsi con lo sguardo dalla cesta di vimini e avere ogni
cosa sotto i propri occhi. Sopra tutte le miserie del mondo. E, sempre più
estraneo, come ripete Charbonnet, “alla prospettiva dell’angolino”.
Un vago
sorriso spunta sulla bocca di Annetta, a sentir ripetere quella parola,
“angolino”.
La lunga
manica flessibile del gas serpeggiava sulla spianata congiungendo la cisterna
all’appendice del pallone. Come una grossa proboscide, la manica di
collegamento risucchiava il gas illuminante e lo sputava nella pancia della
Stella. Era la vita che entrava nel pallone.
E il
pallone respirava. Più aspirava, più si gonfiava, e si tendeva, levitando e
disponendosi in assetto di volo.
Così,
lenta, proseguiva l’operazione.
Gli spettatori stringevano le labbra e socchiudevano gli occhi, fantasticando sulla potenza che stava dilatando i fianchi della Stella. Finché l’equatore, tutti i meridiani, i paralleli della rete entrarono in trazione e la seta bianca premette rigonfiandosi tra le maglie della rete.
Ora la
Stella cominciava a tirare sui cavi di imbrigliamento della navicella. Voleva
già salire. Tirava sulle funi di sospensione, su quelle più leggere di manovra,
sul cavo di ritegno del pallone. Mentre dall’equatore scendevano, tutt’intorno
allineate, le corde agganciate alle catenarie d’ormeggio.
Annetta
osservava paziente come la propulsione del gas determinasse la metamorfosi del
pallone. Da dietro il velo di trine calato sugli occhi vedeva la scena avvolta
da una luce morbida, buona.
Charbonnet
camminava in mezzo al piazzale con le mani intrecciate dietro la schiena e
sapeva che non mancava molto al momento del decollo.
Li farò impazzire, pensò, altro che applausi, grideranno fra un po’. Se solo sapessero che cosa li attende...
Ma la folla
ora si era fatta meno chiassosa. I “Viva gli sposi” erano cessati da un pezzo.
Si coglieva già una certa impazienza. I giornalisti facevano gruppo. Anche
Salvo della “Gazzetta di Torino” si trovava tra la calca, d’altronde lo aveva
promesso allo sposo che si sarebbe fatto vivo al momento giusto. Ostentava
un’aria indifferente, ma in segreto si compiaceva di essere stato lui a
intervistare Charbonnet in esclusiva. Indossava il solito completo principe di
Galles con la pochette, portava una bombetta e aveva una copia della “Gazzetta”
sotto il braccio.
L’attesa
cresceva. Era palpabile, amplificata da migliaia di sguardi impazienti.
Annetta, impassibile, sedeva in fondo sulle transenne di legno. La mano in quella della mamma. Il suo elegante sposo, accanto al signor Botto e a Costantino, stava terminando nella polvere le ultime operazioni. Si muovevano rapidi, governando il grande tubo che penetrava nel pallone, e organizzavano la zavorra e i cavi di ormeggio.
Costantino
correva da uno all’altro per prendere ordini.
Il signor
Botto dirigeva gli uomini di fatica addetti alle catenarie di ormeggio e
osservava con aria di approvazione.
Era passata
un’ora dall’ingresso del corteo nuziale nel Gazometro e lo sferico finalmente
si stagliava in tutta la sua energia esplosiva. Bianco e tirato, contro il
cielo di metà pomeriggio.
Adesso i cavi vibravano sotto sforzo. La seta era tesa, dilatata e gonfia, proprio come quella dell’abito bianco sul petto di Annetta.
Con gli
ultimi sbocchi di gas, il pallone emise un sibilo basso che si propagò per
tutto il Gazometro. Era pronto. Quello era il segnale.
Annetta fu
la prima a capire che il momento stava per arrivare. Si guardò intorno e
sorrise.
Quando vide
Charbonnet camminare lentamente verso le transenne ne ebbe la conferma. Sentì
che dalla folla si era alzato un brusio.
Le dame
dietro il primo recinto con le loro raffinate toilette, i bambini eccitati, i
signori incuriositi, e più lontano, dietro gli elegantoni, il chiassoso popolo
di seconda classe, tutti mossero qualche passo in avanti.
La folla premeva.
Charbonnet
stava arrivando da lei.
“Vai,
tesoro,” sussurrò la madre con un sorriso d’incoraggiamento.
“Sì, vado.”
Si alzò di
scatto. Poi lentamente guardò la folla.
“Quanti
sono!, tantissimi!” sussurrò tra sé.
“Su, vai.”
“Sì.”
Si sollevò
il velo di trine e sfiorò la guancia della madre con un bacio. Le due donne si
guardarono negli occhi.
“Vado,
allora.”
Charbonnet era arrivato da lei.
E alle
quattro e venti di domenica 8 ottobre 1893, Santa Reparata, con il marito,
l’ammiraglio dell’aria Giuseppe Charbonnet che le sorrideva porgendole il
braccio, Annetta si fece il segno della croce.
Deglutì.
Allungò la mano e con il suo sposo iniziò a camminare.
Attraversarono
sorridendo i trenta metri di terra battuta che li separavano dalla Stella. Lo
sbuffo dell’ampia gonna seguiva le forme perfette di Annetta. Il cuore le
batteva sempre più forte, la bocca era secca. Non riusciva più neppure a
deglutire.
“Viva gli
sposi! Viva gli sposi aeronauti!”
“Stai calma,” si disse.
Percorse
tutti i trenta metri camminando come su una passerella d’onore e arrivò
vicinissima al pallone.
Charbonnet
si tolse il cappello da ammiraglio. Fece un profondo inchino verso di lei. Poi
verso il pubblico.
Prese in
braccio Annetta. La sentì leggera. Le sfiorò con le labbra le guance profumate
e la posò dentro la cesta di vimini.
“Oplà,” gli
sussurrò lei nell’orecchio.
Il capitano
della Stella ringraziò con un altro inchino.
Poi si fece
serio. Dopo aver rivolto un cenno agli aiutanti, a uno a uno, infilò il piede
destro nell’apposito appoggio sul fianco della cesta. Con un lungo passo montò
in equilibrio sul bordo e, tenendosi alle corde, si fece scivolare all’interno.
“Sì. Tutto
a posto,” disse tra sé con un impercettibile movimento delle labbra. Si girò di
nuovo verso la folla. E gli spuntò un ghigno furbesco, da prestigiatore che si
esibisce nel trucco più riuscito.
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