CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
30 MAGGIO 1924

martedì 7 marzo 2023

LA CATASTROFE (20)













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Dimora della 


solitudine (21/2)






 

Intellettualmente, l’XI e il XII secolo furono  un’epoca di attenta dialettica, un’elaborazione di  relazioni che alla fine divenne così raffinata da poter  essere  espressa  nella  matematica  delle  cattedrali.  Non  solo Dio era luce, ma anche il rapporto tra Dio e  l’uomo era luce.

 

Le cattedrali, proprio per il modo in cui catturavano l’energia del sole, erano un’espressione di Dio e anche  della connessione umana con  Dio. L’estetica di  questa  epoca, scrive Duby,  era ‘basata  su  luce,  logica,  lucidità  e  desiderio di un Dio in forma umana’. Sia i monaci scolastici  nelle  loro  disquisizioni  esegetiche che gli analfabeti che hanno costruito queste  chiese che slanciavano verso il cielo, entrambi, scrive  Duby, erano ‘persone che cercavano di elevarsi al di sopra dei loro povertà  attraverso sogni di luce’.




Era un’epoca di mistici. Quando Heinrich Suso, un  frate domenicano, pregava di notte in chiesa, ‘spesso  sembrava che stesse fluttuando nell’aria o navigando tra il tempo  e  l’eternità, sulla marea profonda delle insondabili meraviglie  di  Dio’. 

 

Ed era un’epoca di visionari che parlavano della  Nuova Gerusalemme dell’Apocalisse, dove non ci  sarebbero  state  tenebre.

 

L’erezione di questi monumenti alla consapevolezza  spirituale segnalò una rinascita delle città, senza la  quale  questi edifici non avrebbero potuto sopravvivere  (il  denaro  per  costruirle  proveniva  in  gran  parte  da  una  classe  emergente  di  mercanti  e  commercianti,  non  dai  reali),  il  loro  slancio  originario  sembra  perduto. Al visitatore moderno, familiare con  un’architettura  più  facile e intelligente verso la luce,  le  cattedrali  ora  sembrano  oscure.  La  loro  pietra  è  stata  consumata  dagli  acidi e dai corrosivi dell’aria  industriale. 




L’età dei mistici che le ha generate ha ceduto il posto  piuttosto  rapidamente a un’età di intelletti razionali, di  vasta astrazione teologica barocca.

 

Un’ultima ironica osservazione: la matematica che ha  reso possibile la costruzione delle cattedrali è stata  scrupolosamente tramandata da arabi e mori, dai  cosiddetti  infedeli.

 

Nel tredicesimo secolo l’Europa cominciava a  sentire  la  vastità dell’Asia, l’autorità di altre culture. ‘La  diffusione  della  conoscenza’, scrive Duby, ‘e i passi avanti  compiuti in ambito culturale avevano aperto gli occhi  [europei] e li avevano costretti a confrontarsi con i fatti: il mondo era infinitamente più grande, più vario e meno docile di quanto era sembrato ai loro antenati; era pieno di uomini che non avevano ricevuto la parola di Dio, che si rifiutavano di ascoltarla e che non sarebbero stati facilmente conquistati dalle armi. In Europa i giorni della guerra santa erano finiti. Erano iniziati i giorni degli esploratori, dei commercianti e dei missionari. Del resto, perché ostinarsi a lottare contro  tutti quegli infedeli, quegli esperti  guerrieri,  quando  era  più vantaggioso negoziare e tentare di insinuarsi in quei  regni invincibili con affari  e predicazioni pacifiche?’.




La saggezza convenzionale della nostra epoca è che  l’uomo europeo ha fatto passi da gigante dall’èra delle  cattedrali.  È atterrato sulla luna. Ha curato il vaiolo.  Ha  sfruttato il potere nell’atomo. Un altro argomento,  tuttavia, potrebbe essere avanzato nella direzione  opposta,  secondo  cui  tutto  ciò  che  l’uomo  europeo  ha  compiuto  in  900  anni  è  una  manipolazione  più  complicata dei materiali, una sempre più sbalorditiva  dimostrazione della comprensione dei principi fisici  della  materia. Che siamo abbagliati da semplici stili di  espressione.  Che la nostra non è un’epoca di mistici ma  di singolari adepti, di esecutori. Che l’erezione delle  cattedrali fu l’ultimo passo selvaggio compiuto  dall’uomo europeo prima di ricadere nei confini del suo  intelletto.




Delle scienze di oggi, solo la fisica quantistica sembra  aver ritrovato la strada per un rapporto equo con le  metafore, quegli strumenti fondamentali  dell’immaginazione.  Le altre scienze sono a volte così  vincolate dall’analisi razionale, o così diffidenti nei  confronti della metafora, che riconoscono e  denunciano  l’antropomorfismo come una specie di cancro  intellettuale,  invece  di impiegandolo come strumento  di indagine comparativa, che è forse l’unico modo in  cui  funziona la mente, quel parallelismo che alla fine  chiamiamo  narrativa.

 

C’è  una  parola  del  tempo  delle  cattedrali: agape,  espressione di un’intensa affinità spirituale con il  mistero che è  “essere e  condividere  la  vita  con  altra  vita”. Agape è amore e può significare “amore per un  altro nel nome di Dio”. Più in generale ed  essenzialmente,  è  un  abbraccio  umile  e  appassionato  di  qualcosa  al  di  fuori  di  sé, al di fuori del nostro ‘io’,  in nome di ciò che chiamiamo Dio, ma che include anche l’‘io’ ed è Dio. Siamo chiaramente debitori come specie al gioco della  nostra intelligenza; le affidiamo il nostro futuro; ma non sappiamo se l’intelligenza sia la ragione o se l’intelligenza sia questo desiderio di abbracciare ed  essere abbracciati nel modello che sia i teologi che i fisici chiamano Dio. Se l’intelligenza, in altre parole, sia amore.




E volgiamo lo sguardo, la Visione, là ove partiti, la decisione di aggiungere a Gli iceberg l’albero maestro spezzato attesta senza dubbio l’intuito commerciale di Church ma anche qualcosa di più complesso: e questo giudizio è nel contempo troppo cinico e troppo semplicistico.

 

Per quanto ci sforziamo, in ultima analisi possiamo ricavare ben poco senso dalla natura senza far ricorso a sistemi del genere. Sia che si tratti di spoglie affermazioni della presenza umana come l’albero cruciforme di Church, oppure degli strumenti intangibili e metaforici della mente, noi portiamo i nostri mondi nei paesaggi che ci sono estranei (oppure i quali non comprendiamo talché diventano orridi incomprensibili alieni pazzeschi…), allo scopo di chiarirli ai nostri stessi occhi.

 

È difficile che potremmo fare diversamente, corriamo il rischio di trovare la nostra autorità finale nelle ‘metafore’, anziché nella Terra. Indagare le complessità di un paesaggio lontano, dunque significa provocare pensieri circa il proprio paesaggio interiore ed i paesaggi familiari della memoria: la Terra ci sprona (assieme alla Natura che la compone) a comprendere noi stessi.




 [….] Nell’età  moderna, uno dei problemi politici più  irritanti e ironici del Nord America  è  la  promulgazione  di  leggi e regolamenti  da  Washington e Ottawa che  sembrano grossolanamente ignoranti dei paesaggi a cui  si  applicano. Tutti  noi, tuttavia, percepiamo la terra in  modo imperfetto, anche quando  ci  prendiamo la briga  di vagare in essa. Le nostre percezioni sono colorate dal  preconcetto e dal desiderio. Il paesaggio fisico è una  dimora non strutturata di spazio e  tempo e non è del  tutto comprensibile; ma questo non ci pone  necessariamente in una posizione di svantaggio nel  cercare  di  conoscerlo. 

 

Diviene più facile avvicinare i paesaggi se li si crede fondamentalmente misteriosi nella forme e  colori, nelle  varietà di vita insite in essi, nelle qualità tattili dei loro  suoli, nel suono della violenta pioggia che cade su di  loro, nell’odore dei loro boccioli  - credendo che i  paesaggi siano misteriose aggregazioni, diventa più facile avvicinarsi ad essi. Si accorda loro semplicemente lo  status  che  si  concede  agli  altri  misteri,  distinti dagli  enigmi della  vita. 




Ricordo in questo contesto due  riflessioni. Un  uomo  ad Anaktuvuk Pass, in risposta a una domanda su cosa  ha fatto quando ha visitato un posto nuovo, mi ha  detto: 

 

“Ascolto”. 

 

È tutto. 

 

“Ascolto”, voleva dire, ‘quello che dice la terra’. 

 

Mi aggiro e tendo i sensi per comprenderla, prima di osare pronunciare una  parola. 

 

Era convinto che la Terra ammirata e udita in modo  così rispettoso, gli si sarebbe schiusa. 







 VICINO A TE SIGNORE!


 

Il significato è sempre lo stesso, ma le parole cambiano leggermente. Che cosa suonava l’orchestra? Secondo la versione accettata come vera, l’orchestra si inabissò suonando:

 

‘Vicino a te, o Signore’. 


Quando il fuochista George Kemish vide Stead, gli sembrò intenzionato a restare dov’era, qualunque cosa fosse accaduta. La reminiscenza di Kemish, tuttavia, risale a più di quarant’anni dopo ed è improbabile che all’epoca il fuochista potesse riconoscere Stead. La passeggera di seconda classe Imanita Shelley scrisse che mentre si stava imbarcando sulla scialuppa numero 10, che partì attorno all’1.50, vide Stead da solo e senza cintura salvagente accanto al parapetto di poppa sul ponte lance. Taceva e sembrava fosse immerso nella preghiera, o in una profonda meditazione. Dopo che le ultime scialuppe si furono allontanate, sulla nave calò una grande calma. L’orchestra continuava a suonare sommessamente anche se la maggior parte dei passeggeri si erano ritirati verso poppa.

 

Norris Williams parve un po’ strano continuare a correre in ogni angolo quando sembrava non esserci più alcuna via di fuga. Lui e suo padre si erano affacciati sul pozzo delle scale e avevano visto l’acqua verdastra salire a poco a poco. Dal ponte lance videro le luci delle scialuppe e Norris notò che molte sembravano molto lontane. La superficie liscia dell’oceano emanava un chiarore fosforescente che gli ricordò la luce vista attraverso un prisma. Sulla scialuppa numero 3, Henry Harper notò che a ogni colpo di remi l’acqua aveva bagliori giallo-verdastri e dalle pale sembravano gocciolare piccole sfere di fuoco.




 Altri ebbero la sensazione di non avere mai visto tante stelle in cielo.

 

Il diciassettenne Jack Thayer osservò il braccio di una gru stagliarsi contro il cielo stellato mentre si trovava accanto al parapetto di destra insieme a Milton Long, l’amico che aveva conosciuto nella Sala delle Palme dopo cena.

 

Il padre di Jack, nel frattempo, si trovava dalla parte opposta del ponte lance dopo essersi spostato verso poppa con George Widener, Arthur Ryerson e diversi degli altri uomini che erano stati con lui nella sala da fumo, fra i quali probabilmente c’erano anche Archie Butt, Frank Millet e Clarence Moore. Da quelle parti si trovavano anche Archibald Gracie e James Clinch Smith. Quando Gracie si era reso conto che tutte le scialuppe se n’erano andate provò una sensazione nient’affatto gradevole. Si sentì senza fiato e privo di voce. Ma sapeva che se voleva sopravvivere non doveva cedere alla paura. Anche se dentro di sé disse addio ai suoi cari, continuò a sperare e a pregare di sfuggire alla morte.

 

Archie Butt e Frank Millet stavano senza dubbio sperimentando emozioni simili.




Archie doveva essersi reso conto che le premonizioni di sventura che aveva avuto per settimane potevano avverarsi. Forse era questa la causa della sua espressione impassibile. Solo pochi mesi prima Frank Millet aveva scritto a un amico che avrebbe preferito affondare su una nave da guerra piuttosto che su una barchetta da pesca. E aveva ripetuto spesso che se avesse potuto scegliere come morire, sarebbe morto in battaglia dopo avere vissuto pienamente la sua vita. Ma morire nel naufragio di un transatlantico sembrava una fine improbabile, quindi è possibile che Millet, come Gracie, pensasse che ci fosse ancora una possibilità di salvezza.

 

Il signor Harper era sofferente, e tutto quel clamore lo aveva spaventato.

 

‘Stia tranquillo, sono sicuro che non è successo niente di grave’ lo confortò il medico.

 

‘Si spogli e torni a letto’.

 

‘Al diavolo, caro mio!’

 

protestò Harper.




 ‘Non abbiamo forse urtato un iceberg?

 

Come fa a dire che non è successo niente di grave?’

 

‘D’accordo’

 

concesse infine O’Loughlin.

 

 ‘Salirò ad accertarmene e vi farò sapere. Intanto, non muovetevi di qui’.

 

Ma non passò che qualche minuto, che il medico era già di ritorno con un’espressione grave in viso:

 

‘Dicono che i bauli stanno galleggiando nella stiva. Forse è meglio salire in coperta’.

 

Una volta in cima al ponte, però, una nuova sorpresa convinse anche i più dubbiosi che in effetti non c’era niente di cui preoccuparsi. L’orchestra della nave aveva ricominciato a suonare i suoi ritmi allegri e sincopati. Avuta notizia dell’incidente, Hartley aveva radunato i suoi uomini.

 

‘Cerchiamo di trasmettere un senso di tranquillità e di normalità’,

 

…aveva suggerito agli orchestrali.




La speranza era che, ascoltando la musica, i passeggeri non si facessero prendere dal panico e obbedissero così più docilmente agli ordini dell’equipaggio, facilitando le operazioni di sbarco per tutti quanti.

 

Si erano così piazzati nel salone della prima classe, dove in tanti si erano radunati per attendere al caldo il proprio turno, e avevano attaccato con Great Big Beautiful Doll.

 

L’effetto fu forse anche più sorprendente del previsto.

 

Tra chi ascoltava quelle allegre melodie e vedeva tutte le luci accese sul ponte, infatti, molti finirono per pensare che tutta quella faccenda delle scialuppe in fondo fosse solo una gran seccatura, oltre che un rischio inutile. Se qualcosa doveva proprio andare a fondo, fu il ragionamento di molti, era più probabile che fossero quelle barchette di legno calate nell’oceano, piuttosto che il Titanic. Fu così che alcuni decisero di restarsene tranquillamente al caldo nel salone a fumare e a bere brandy finché le cose non si fossero calmate. Poi se ne sarebbero potuti finalmente tornare in cabina a dormire.




L’orchestra si era messa a suonare una melodia lenta e commovente, forse il valzer Sogno d’autunno o forse un cantico religioso. A Rhoda non interessava, aveva cercato invano di salire su qualcuna delle scialuppe coi suoi ragazzi, ma la calca glielo aveva impedito. E ora era rimasto un solo gonfiabile, il canotto pieghevole C, Rhoda vide Emily Brown, Frank Goldsmith, May Howard e Amy Kristine Stanley che vi salivano. L’ufficiale prese anche lei per un braccio e la trascinò dentro, ma non fece avanzare i ragazzi.

 

‘Solo donne e bambini, signora’.

 

La disperazione e il gelo resero Rhoda insensibile e in quel momento disperato volle solamente lasciarsi andare a fondo anche lei. Di colpo non aveva più nessun senso vivere. Invece, una mano forte la afferrò per il braccio e la trascinò all’asciutto in cima a un canotto capovolto, quel pieghevole A che aveva visto finire in mare per ultimo. C’erano già una ventina di persone a bordo e, prima di perdere i sensi, Rhoda vide il grande transatlantico ormai piegato in avanti come un’anatra che si immerge per bere. Le file degli oblò scintillavano sott’acqua e l’orchestra ancora suonava. Senza rendersene conto, le sembrò di riconoscere quel motivo, forse era un altro inno religioso, Nearer, My God, to Thee, cioè “Più vicini a te, mio Dio”.

 

Che ironia!




E con quel tragico pensiero, Rhoda Abbott, nata Hunt, sprofondò nell’incoscienza.

 

Un’ultima occhiata in cima alla scala e, vedendo l’acqua che ormai traboccava, Lightoller ebbe la certezza che il bastimento non avrebbe avuto che pochi minuti di vita. In quel momento vide salire da sottocoperta un gruppetto di macchinisti. Avevano lavorato fino all’ultimo istante utile pur di mantenere le macchine accese e le pompe in funzione, così da garantire luce alla nave e qualche momento ancora di galleggiamento.

 

La loro dedizione era stata eroica, ma ora che l’acqua aveva invaso anche i loro locali erano usciti in cerca di salvezza. Probabilmente erano rimasti all’oscuro delle reali condizioni della nave, ma quando furono sul ponte e osservarono sconsolati i tiranti vuoti che pendevano dalle gru e l’inclinazione ormai fatale della nave, si resero conto che non c’era più nessuna speranza per loro. Erano in trentacinque e quasi certamente nessuno si sarebbe salvato.




Il silenzio della notte era squarciato dalle grida angosciate di coloro che si accalcavano a poppa della nave. Chi era caduto in acqua non gridava più, o cercava di restare a galla, aggrappandosi alle sovrastrutture del ponte, agli argani, ai ventilatori, oppure era già morto per ipotermia. L’orchestra aveva smesso di suonare ma, incredibilmente, le luci brillavano ancora diffondendo uno scintillio rossastro.

 

La prua era ormai inabissata, mentre la poppa si levava sempre più in alto fuori dall’acqua. Dalle scialuppe si vedevano file di passeggeri che correvano sui ponti come formiche impazzite; si affastellavano a mucchi come sciami d’api soltanto per ricadere a gruppi, a coppie o da soli. Chi non era riuscito ad aggrapparsi a qualcosa scivolava verso il basso, andando a sbattere violentemente contro i verricelli, le bitte o gli argani e finendo in mare già privo di sensi se non addirittura morto.

 

Tutto ciò che non era fissato al ponte rotolava, decine di sedie a sdraio, tavolini, le valigie che i passeggeri della terza classe si erano portati fino a lì scivolavano dritti in mare. Un pianoforte verticale slittò sul ponte finché precipitò oltre il parapetto con un tonfo. L’enorme scafo ormai si stagliava nero contro il cielo stellato. D’improvviso si udì una serie di strani rumori, una successione di tonfi sordi, vetri che si spaccavano, piccole esplosioni, lo stridio delle lamiere.




 Le possenti caldaie si andavano a schiantare contro le paratie esplodendo nelle viscere della nave. Le luci si spensero di colpo. Poi si riaccesero, poi si spensero ancora. Definitivamente. Solo una piccola lampada a petrolio scintillava ancora alta sull’albero. Nel buio parzialmente rischiarato dal bagliore delle stelle, il Titanic si levò sempre più in verticale fino a raggiungere una posizione di novanta gradi. L’acqua fluiva verso il basso dal timone e dalle gigantesche eliche, ormai completamente scoperte, mentre centinaia di persone precipitavano urlando, schiantandosi contro ponti, pareti e fumaioli. Con un ultimo, terribile boato, la nave sembrò spezzarsi in due.

 

La poppa galleggiò in verticale ancora per qualche istante, poi roteò su se stessa, quasi a volere nascondere l’orrendo spettacolo, e sprofondò definitivamente negli abissi del mare, portandosi appresso tutto quanto. Aggrappato al canotto capovolto, Lightoller ripensò automaticamente all’elenco del carico che aveva compilato prima di partire:

 

800 casse di noci, 15.000 bottiglie di birra, 30 sacchi di bastoni da golf e racchette da tennis, 5 pianoforti, 30.000 uova fresche, decine di palme tagliate, le sedie di vimini del Café Parisien… E poi l’automobile Renault del signor William Carter, i 16 bauli della signora Ryerson, il corredo di Eleanor Widener, 29 caldaie, migliaia di tonnellate di carbone….




Nel frattempo Norris Williams e suo padre erano sul ponte di comando e stavano parlando con il comandante Smith quando la nave ebbe un improvviso, violento beccheggio. Norris guardò giù verso la prua ma vide solo l’albero di trinchetto che spuntava dall’acqua come un albero da una pianura allagata.

 

D’un tratto fu travolto da un torrente di acqua gelida che spazzò la nave come una gigantesca ondata.

 

Mentre cercava di allontanarsi a nuoto dal ponte di comando allagato, dirigendosi verso il parapetto di destra, Norris perse di vista suo padre. Spazzando la coperta, l’ondata inzuppò gli uomini che stavano cercando di liberare la barca pieghevole A dalle funi della gru. Sul lato sinistro, la barca pieghevole B precipitò finendo capovolta sul ponte lance.




Charles Lightoller si arrampicò sul tetto della timoneria e si buttò in mare. L’acqua gelida gli diede l’impressione di essere trafitto da migliaia di coltelli. Mentre tornava a galla vide che la gabbia dell’albero di trinchetto era proprio davanti a lui. Il suo primo istinto fu quello di raggiungerla a nuoto, ma subito dopo si rese conto che aggrapparsi a qualsiasi parte della nave sarebbe stata una follia.

 

Mentre cominciava a nuotare verso poppa venne improvvisamente scagliato contro un condotto di ventilazione da un fiotto d’acqua che si riversava dentro. Sapeva che il condotto di ventilazione finiva dritto in una sala caldaie e che la sottile rete metallica che lo chiudeva era l’unica cosa che lo separava da un salto di trenta metri. Eppure ogni volta che cercava di allontanarsi veniva trascinato indietro. Cominciò a sentirsi annegare e si rese conto che gli restavano solo pochi minuti di vita. Un’improvvisa raffica di aria calda uscì dal condotto e lo liberò. Risalì in superficie e si riempì i polmoni d’aria, ma fu di nuovo trascinato sott’acqua.

 

Quando riuscì finalmente ad allontanarsi si ritrovò accanto alla barca pieghevole B, capovolta. Diversi uomini stavano aggrappati al fondo dell’imbarcazione, ma Lightoller, esausto, riuscì solo ad afferrare un pezzo di corda e a lasciarsi galleggiare accanto alla barca. Intorno a lui molti altri si dibattevano nell’acqua. Alcuni nuotavano, altri stavano annegando.

 

Era uno spettacolo infernale.





Apocalisse, Scuola umbra, anno 1490 circa: 


 

Ormai non è lui il più giovane, ansima, tira fuori una gran tela, borbotta, mercanteggia a lungo e tenace con il committente, un avaro carmelitano degli Abruzzi, priore o superiore generale. Si fa presto inverno, le nocche schioccano, la fascina schiocca nel camino. Lui ansima, mestica, lascia asciugare la tela, mestica una volta ancora, scarabocchia impaziente su piccoli cartoncini le sue figure spettrali, che rileva con bianco zinco.

 

Indugia, strofina qualche colore, spreca parecchie settimane.

 

Poi un bel giorno, siamo tra l’altro già al Mercoledì delle Ceneri o alla Presentazione di Maria Vergine, ecco che immerge, di buonora, pennelli nelle tinte bruciate e dipinge: sarà un quadro cupo.

 

Come si fa a dipingere la fine del mondo?

 

Gli incendi, le isole sfollate, i lampi, i crolli straordinariamente lenti di mura, pinnacoli e torri: questioni tecniche, problemi di composizione.


Distruggere il mondo intero è una faticaccia.

 

Particolarmente difficili da dipingere sono i rumori, il lacerarsi della cortina nel tempio, il mugghio delle bestie, il tuono. Tutto infatti deve squarciarsi, essere squarciato, esclusa la tela.

 

E la scadenza è fissa: ad ogni costo Ognissanti.

 

Per quel giorno bisogna che, sullo sfondo, il mare rabbioso sia verniciato, mille volte, di verdi luci spumeggianti, trafitto da alberi maestri, da navi che verticali si fiondano verso i fondali, e da relitti; mentre fuori, in pieno luglio...

 

Non c'è un cane sulla polverosa piazza.

 

Il pittore è rimasto solo in città, disertato da donne, scolari, servitù.

 

Sembra stanco, chi l’avrebbe mai detto, stanco da morire.


Tutto è color ocra, senz’ombra, tutto sosta immoto, fisso in una sorta di malvagia eternità; eccetto il quadro. Il quadro cresce, si oscura lentamente, si riempie di ombre blu acciaio, grigio terra, viola cupo, caput mortuum; si riempie di diavoli, cavalieri, carneficine; finché la fine del mondo è felicemente conclusa e il pittore, rianimato per un breve istante, follemente allegro come un bambino, quasi gli avessero condonato la vita, offre, la sera stessa, a donne, bimbi, amici e nemici, tartufi freschi, beccaccine e vino, mentre fuori la prima pioggia d’autunno scroscia.

 

(Barry Lopez accompagnato al pianoforte da H. Brewster; primo violino M. Polidoro; secondo violino, Hans Magnus Enzensberger)








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