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Dimora della
solitudine (21/2)
Intellettualmente, l’XI e il XII secolo furono un’epoca di
attenta dialettica, un’elaborazione di
relazioni che alla fine divenne così raffinata da poter essere
espressa nella matematica
delle cattedrali. Non
solo Dio era luce, ma anche il rapporto tra Dio e l’uomo era luce.
Le
cattedrali, proprio per il modo in cui catturavano l’energia del sole, erano un’espressione di
Dio e anche della connessione umana
con Dio. L’estetica di questa
epoca, scrive Duby, era ‘basata
su luce, logica,
lucidità e desiderio di un Dio in forma umana’. Sia
i monaci scolastici nelle loro
disquisizioni esegetiche che gli
analfabeti che hanno costruito queste
chiese che slanciavano verso il cielo, entrambi, scrive Duby, erano ‘persone che cercavano di elevarsi al di sopra dei loro povertà attraverso sogni di luce’.
Era un’epoca di mistici. Quando Heinrich Suso, un frate domenicano, pregava di notte in chiesa, ‘spesso sembrava che stesse fluttuando nell’aria o navigando tra il tempo e l’eternità, sulla marea profonda delle insondabili meraviglie di Dio’.
Ed
era un’epoca di visionari che parlavano della
Nuova Gerusalemme dell’Apocalisse, dove non ci sarebbero
state tenebre.
L’erezione
di questi monumenti alla consapevolezza
spirituale segnalò una rinascita delle città, senza la quale
questi edifici non avrebbero potuto sopravvivere (il
denaro per costruirle
proveniva in gran
parte da una
classe emergente di
mercanti e commercianti,
non dai reali),
il loro slancio
originario sembra perduto. Al visitatore moderno, familiare
con un’architettura più
facile e intelligente verso la luce,
le cattedrali ora
sembrano oscure. La
loro pietra è
stata consumata dagli
acidi e dai corrosivi dell’aria
industriale.
L’età dei mistici che le ha generate ha ceduto il posto piuttosto rapidamente a un’età di intelletti razionali, di vasta astrazione teologica barocca.
Un’ultima
ironica osservazione: la matematica che ha
reso possibile la costruzione delle cattedrali è stata scrupolosamente tramandata da arabi e mori,
dai cosiddetti infedeli.
Nel tredicesimo secolo l’Europa
cominciava a sentire la
vastità dell’Asia, l’autorità di altre culture. ‘La diffusione della conoscenza’,
scrive Duby, ‘e i passi avanti compiuti in ambito culturale avevano aperto
gli occhi [europei] e li avevano
costretti a confrontarsi con i fatti: il mondo era infinitamente più grande,
più vario e meno docile di quanto era sembrato ai loro antenati; era pieno di
uomini che non avevano ricevuto la parola di Dio, che si rifiutavano di
ascoltarla e che non sarebbero stati facilmente conquistati dalle armi. In
Europa i giorni della guerra santa erano finiti. Erano iniziati i giorni degli
esploratori, dei commercianti e dei missionari. Del resto, perché ostinarsi a
lottare contro tutti quegli infedeli,
quegli esperti guerrieri, quando
era più vantaggioso negoziare e
tentare di insinuarsi in quei regni invincibili
con affari e predicazioni pacifiche?’.
La saggezza convenzionale della nostra epoca è che l’uomo europeo ha fatto passi da gigante dall’èra delle cattedrali. È atterrato sulla luna. Ha curato il vaiolo. Ha sfruttato il potere nell’atomo. Un altro argomento, tuttavia, potrebbe essere avanzato nella direzione opposta, secondo cui tutto ciò che l’uomo europeo ha compiuto in 900 anni è una manipolazione più complicata dei materiali, una sempre più sbalorditiva dimostrazione della comprensione dei principi fisici della materia. Che siamo abbagliati da semplici stili di espressione. Che la nostra non è un’epoca di mistici ma di singolari adepti, di esecutori. Che l’erezione delle cattedrali fu l’ultimo passo selvaggio compiuto dall’uomo europeo prima di ricadere nei confini del suo intelletto.
Delle scienze di oggi, solo la fisica quantistica sembra aver ritrovato la strada per un rapporto equo con le metafore, quegli strumenti fondamentali dell’immaginazione. Le altre scienze sono a volte così vincolate dall’analisi razionale, o così diffidenti nei confronti della metafora, che riconoscono e denunciano l’antropomorfismo come una specie di cancro intellettuale, invece di impiegandolo come strumento di indagine comparativa, che è forse l’unico modo in cui funziona la mente, quel parallelismo che alla fine chiamiamo narrativa.
C’è una
parola del tempo
delle cattedrali: agape,
espressione di un’intensa affinità spirituale con il mistero che è
“essere e condividere la
vita con altra vita”. Agape
è amore e può significare “amore per un
altro nel nome di Dio”. Più in generale ed essenzialmente, è
un abbraccio umile
e appassionato di
qualcosa al di
fuori di sé, al di fuori del nostro ‘io’, in nome di ciò che chiamiamo Dio, ma che
include anche l’‘io’ ed è Dio. Siamo chiaramente debitori come specie al gioco
della nostra intelligenza; le affidiamo
il nostro futuro; ma non sappiamo se l’intelligenza sia la ragione o se l’intelligenza
sia questo desiderio di abbracciare ed essere abbracciati nel modello che sia i
teologi che i fisici chiamano Dio. Se l’intelligenza, in altre parole, sia
amore.
E volgiamo lo sguardo, la Visione, là ove partiti, la decisione di aggiungere a Gli iceberg l’albero maestro spezzato attesta senza dubbio l’intuito commerciale di Church ma anche qualcosa di più complesso: e questo giudizio è nel contempo troppo cinico e troppo semplicistico.
Per
quanto ci sforziamo, in ultima analisi possiamo ricavare ben poco senso dalla
natura senza far ricorso a sistemi del genere. Sia che si tratti di spoglie
affermazioni della presenza umana come l’albero cruciforme di Church, oppure
degli strumenti intangibili e metaforici della mente, noi portiamo i nostri
mondi nei paesaggi che ci sono estranei (oppure i quali non comprendiamo talché
diventano orridi incomprensibili alieni pazzeschi…), allo scopo di chiarirli ai
nostri stessi occhi.
È
difficile che potremmo fare diversamente, corriamo il rischio di trovare la
nostra autorità finale nelle ‘metafore’, anziché nella Terra. Indagare le
complessità di un paesaggio lontano, dunque significa provocare pensieri circa
il proprio paesaggio interiore ed i paesaggi familiari della memoria: la Terra
ci sprona (assieme alla Natura che la compone) a comprendere noi stessi.
[….] Nell’età moderna, uno dei problemi politici più irritanti e ironici del Nord America è la promulgazione di leggi e regolamenti da Washington e Ottawa che sembrano grossolanamente ignoranti dei paesaggi a cui si applicano. Tutti noi, tuttavia, percepiamo la terra in modo imperfetto, anche quando ci prendiamo la briga di vagare in essa. Le nostre percezioni sono colorate dal preconcetto e dal desiderio. Il paesaggio fisico è una dimora non strutturata di spazio e tempo e non è del tutto comprensibile; ma questo non ci pone necessariamente in una posizione di svantaggio nel cercare di conoscerlo.
Diviene
più facile avvicinare i paesaggi se li si crede fondamentalmente misteriosi
nella forme e colori, nelle varietà di vita insite in essi, nelle qualità
tattili dei loro suoli, nel suono della
violenta pioggia che cade su di loro,
nell’odore dei loro boccioli - credendo
che i paesaggi siano misteriose
aggregazioni, diventa più facile avvicinarsi ad essi. Si accorda loro semplicemente
lo status che
si concede agli
altri misteri, distinti dagli enigmi della
vita.
Ricordo in questo contesto due riflessioni. Un uomo ad Anaktuvuk Pass, in risposta a una domanda su cosa ha fatto quando ha visitato un posto nuovo, mi ha detto:
“Ascolto”.
È
tutto.
“Ascolto”,
voleva dire, ‘quello che dice la terra’.
Mi
aggiro e tendo i sensi per comprenderla, prima di osare pronunciare una parola.
Era convinto che la Terra ammirata e udita in modo così rispettoso, gli si sarebbe schiusa.
VICINO A TE SIGNORE!
Il
significato è sempre lo stesso, ma le parole cambiano leggermente. Che cosa
suonava l’orchestra? Secondo la versione accettata come vera, l’orchestra si
inabissò suonando:
‘Vicino
a te, o Signore’.
Quando
il fuochista George Kemish vide Stead, gli sembrò intenzionato a restare
dov’era, qualunque cosa fosse accaduta. La reminiscenza di Kemish, tuttavia,
risale a più di quarant’anni dopo ed è improbabile che all’epoca il fuochista
potesse riconoscere Stead. La passeggera di seconda classe Imanita Shelley
scrisse che mentre si stava imbarcando sulla scialuppa numero 10, che partì
attorno all’1.50, vide Stead da solo e senza cintura salvagente accanto al
parapetto di poppa sul ponte lance. Taceva e sembrava fosse immerso nella
preghiera, o in una profonda meditazione. Dopo che le ultime scialuppe si
furono allontanate, sulla nave calò una grande calma. L’orchestra continuava a
suonare sommessamente anche se la maggior parte dei passeggeri si erano
ritirati verso poppa.
Norris
Williams parve un po’ strano continuare a correre in ogni angolo quando
sembrava non esserci più alcuna via di fuga. Lui e suo padre si erano
affacciati sul pozzo delle scale e avevano visto l’acqua verdastra salire a
poco a poco. Dal ponte lance videro le luci delle scialuppe e Norris notò che
molte sembravano molto lontane. La superficie liscia dell’oceano emanava un chiarore
fosforescente che gli ricordò la luce vista attraverso un prisma. Sulla scialuppa
numero 3, Henry Harper notò che a ogni colpo di remi l’acqua aveva bagliori
giallo-verdastri e dalle pale sembravano gocciolare piccole sfere di fuoco.
Altri ebbero la sensazione di non avere mai visto tante stelle in cielo.
Il
diciassettenne Jack Thayer osservò il braccio di una gru stagliarsi contro il cielo
stellato mentre si trovava accanto al parapetto di destra insieme a Milton
Long, l’amico che aveva conosciuto nella Sala delle Palme dopo cena.
Il
padre di Jack, nel frattempo, si trovava dalla parte opposta del ponte lance dopo
essersi spostato verso poppa con George Widener, Arthur Ryerson e diversi degli
altri uomini che erano stati con lui nella sala da fumo, fra i quali
probabilmente c’erano anche Archie Butt, Frank Millet e Clarence Moore. Da
quelle parti si trovavano anche Archibald Gracie e James Clinch Smith. Quando
Gracie si era reso conto che tutte le scialuppe se n’erano andate provò una
sensazione nient’affatto gradevole. Si sentì senza fiato e privo di voce. Ma
sapeva che se voleva sopravvivere non doveva cedere alla paura. Anche se dentro
di sé disse addio ai suoi cari, continuò a sperare e a pregare di sfuggire alla
morte.
Archie
Butt e Frank Millet stavano senza dubbio sperimentando emozioni simili.
Archie doveva essersi reso conto che le premonizioni di sventura che aveva avuto per settimane potevano avverarsi. Forse era questa la causa della sua espressione impassibile. Solo pochi mesi prima Frank Millet aveva scritto a un amico che avrebbe preferito affondare su una nave da guerra piuttosto che su una barchetta da pesca. E aveva ripetuto spesso che se avesse potuto scegliere come morire, sarebbe morto in battaglia dopo avere vissuto pienamente la sua vita. Ma morire nel naufragio di un transatlantico sembrava una fine improbabile, quindi è possibile che Millet, come Gracie, pensasse che ci fosse ancora una possibilità di salvezza.
Il
signor Harper era sofferente, e tutto quel clamore lo aveva spaventato.
‘Stia tranquillo, sono sicuro che non
è successo niente di grave’ lo confortò il medico.
‘Si spogli e torni a letto’.
‘Al diavolo, caro mio!’
protestò
Harper.
‘Non abbiamo forse urtato un iceberg?
Come fa a dire che non è successo
niente di grave?’
‘D’accordo’
concesse
infine O’Loughlin.
‘Salirò ad accertarmene e vi farò sapere. Intanto,
non muovetevi di qui’.
Ma
non passò che qualche minuto, che il medico era già di ritorno con un’espressione
grave in viso:
‘Dicono che i bauli stanno
galleggiando nella stiva. Forse è meglio salire in coperta’.
Una
volta in cima al ponte, però, una nuova sorpresa convinse anche i più dubbiosi
che in effetti non c’era niente di cui preoccuparsi. L’orchestra della nave
aveva ricominciato a suonare i suoi ritmi allegri e sincopati. Avuta notizia
dell’incidente, Hartley aveva radunato i suoi uomini.
‘Cerchiamo di trasmettere un senso di
tranquillità e di normalità’,
…aveva
suggerito agli orchestrali.
La speranza era che, ascoltando la musica, i passeggeri non si facessero prendere dal panico e obbedissero così più docilmente agli ordini dell’equipaggio, facilitando le operazioni di sbarco per tutti quanti.
Si
erano così piazzati nel salone della prima classe, dove in tanti si erano radunati
per attendere al caldo il proprio turno, e avevano attaccato con Great Big Beautiful Doll.
L’effetto
fu forse anche più sorprendente del previsto.
Tra
chi ascoltava quelle allegre melodie e vedeva tutte le luci accese sul ponte,
infatti, molti finirono per pensare che tutta quella faccenda delle scialuppe
in fondo fosse solo una gran seccatura, oltre che un rischio inutile. Se
qualcosa doveva proprio andare a fondo, fu il ragionamento di molti, era più
probabile che fossero quelle barchette di legno calate nell’oceano, piuttosto
che il Titanic. Fu così che alcuni decisero di restarsene tranquillamente al caldo
nel salone a fumare e a bere brandy finché le cose non si fossero calmate. Poi
se ne sarebbero potuti finalmente tornare in cabina a dormire.
L’orchestra si era messa a suonare una melodia lenta e commovente, forse il valzer Sogno d’autunno o forse un cantico religioso. A Rhoda non interessava, aveva cercato invano di salire su qualcuna delle scialuppe coi suoi ragazzi, ma la calca glielo aveva impedito. E ora era rimasto un solo gonfiabile, il canotto pieghevole C, Rhoda vide Emily Brown, Frank Goldsmith, May Howard e Amy Kristine Stanley che vi salivano. L’ufficiale prese anche lei per un braccio e la trascinò dentro, ma non fece avanzare i ragazzi.
‘Solo donne e bambini, signora’.
La
disperazione e il gelo resero Rhoda insensibile e in quel momento disperato
volle solamente lasciarsi andare a fondo anche lei. Di colpo non aveva più
nessun senso vivere. Invece, una mano forte la afferrò per il braccio e la
trascinò all’asciutto in cima a un canotto capovolto, quel pieghevole A che
aveva visto finire in mare per ultimo. C’erano già una ventina di persone a
bordo e, prima di perdere i sensi, Rhoda vide il grande transatlantico ormai
piegato in avanti come un’anatra che si immerge per bere. Le file degli oblò
scintillavano sott’acqua e l’orchestra ancora suonava. Senza rendersene conto,
le sembrò di riconoscere quel motivo, forse era un altro inno religioso,
Nearer, My God, to Thee, cioè “Più vicini a te, mio Dio”.
Che
ironia!
E con quel tragico pensiero, Rhoda Abbott, nata Hunt, sprofondò nell’incoscienza.
Un’ultima
occhiata in cima alla scala e, vedendo l’acqua che ormai traboccava, Lightoller
ebbe la certezza che il bastimento non avrebbe avuto che pochi minuti di vita. In
quel momento vide salire da sottocoperta un gruppetto di macchinisti. Avevano
lavorato fino all’ultimo istante utile pur di mantenere le macchine accese e le
pompe in funzione, così da garantire luce alla nave e qualche momento ancora di
galleggiamento.
La
loro dedizione era stata eroica, ma ora che l’acqua aveva invaso anche i loro
locali erano usciti in cerca di salvezza. Probabilmente erano rimasti
all’oscuro delle reali condizioni della nave, ma quando furono sul ponte e
osservarono sconsolati i tiranti vuoti che pendevano dalle gru e l’inclinazione
ormai fatale della nave, si resero conto che non c’era più nessuna speranza per
loro. Erano in trentacinque e quasi certamente nessuno si sarebbe salvato.
Il silenzio della notte era squarciato dalle grida angosciate di coloro che si accalcavano a poppa della nave. Chi era caduto in acqua non gridava più, o cercava di restare a galla, aggrappandosi alle sovrastrutture del ponte, agli argani, ai ventilatori, oppure era già morto per ipotermia. L’orchestra aveva smesso di suonare ma, incredibilmente, le luci brillavano ancora diffondendo uno scintillio rossastro.
La
prua era ormai inabissata, mentre la poppa si levava sempre più in alto fuori
dall’acqua. Dalle scialuppe si vedevano file di passeggeri che correvano sui
ponti come formiche impazzite; si affastellavano a mucchi come sciami d’api
soltanto per ricadere a gruppi, a coppie o da soli. Chi non era riuscito ad
aggrapparsi a qualcosa scivolava verso il basso, andando a sbattere
violentemente contro i verricelli, le bitte o gli argani e finendo in mare già
privo di sensi se non addirittura morto.
Tutto
ciò che non era fissato al ponte rotolava, decine di sedie a sdraio, tavolini,
le valigie che i passeggeri della terza classe si erano portati fino a lì scivolavano
dritti in mare. Un pianoforte verticale slittò sul ponte finché precipitò oltre
il parapetto con un tonfo. L’enorme scafo ormai si stagliava nero contro il
cielo stellato. D’improvviso si udì una serie di strani rumori, una successione
di tonfi sordi, vetri che si spaccavano, piccole esplosioni, lo stridio delle
lamiere.
Le possenti caldaie si andavano a schiantare contro le paratie esplodendo nelle viscere della nave. Le luci si spensero di colpo. Poi si riaccesero, poi si spensero ancora. Definitivamente. Solo una piccola lampada a petrolio scintillava ancora alta sull’albero. Nel buio parzialmente rischiarato dal bagliore delle stelle, il Titanic si levò sempre più in verticale fino a raggiungere una posizione di novanta gradi. L’acqua fluiva verso il basso dal timone e dalle gigantesche eliche, ormai completamente scoperte, mentre centinaia di persone precipitavano urlando, schiantandosi contro ponti, pareti e fumaioli. Con un ultimo, terribile boato, la nave sembrò spezzarsi in due.
La
poppa galleggiò in verticale ancora per qualche istante, poi roteò su se stessa,
quasi a volere nascondere l’orrendo spettacolo, e sprofondò definitivamente
negli abissi del mare, portandosi appresso tutto quanto. Aggrappato al canotto
capovolto, Lightoller ripensò automaticamente all’elenco del carico che aveva
compilato prima di partire:
800
casse di noci, 15.000 bottiglie di birra, 30 sacchi di bastoni da golf e
racchette da tennis, 5 pianoforti, 30.000 uova fresche, decine di palme
tagliate, le sedie di vimini del Café Parisien… E poi l’automobile Renault del
signor William Carter, i 16 bauli della signora Ryerson, il corredo di Eleanor
Widener, 29 caldaie, migliaia di tonnellate di carbone….
Nel frattempo Norris Williams e suo padre erano sul ponte di comando e stavano parlando con il comandante Smith quando la nave ebbe un improvviso, violento beccheggio. Norris guardò giù verso la prua ma vide solo l’albero di trinchetto che spuntava dall’acqua come un albero da una pianura allagata.
D’un
tratto fu travolto da un torrente di acqua gelida che spazzò la nave come una
gigantesca ondata.
Mentre
cercava di allontanarsi a nuoto dal ponte di comando allagato, dirigendosi
verso il parapetto di destra, Norris perse di vista suo padre. Spazzando la
coperta, l’ondata inzuppò gli uomini che stavano cercando di liberare la barca
pieghevole A dalle funi della gru. Sul lato sinistro, la barca pieghevole B
precipitò finendo capovolta sul ponte lance.
Charles Lightoller si arrampicò sul tetto della timoneria e si buttò in mare. L’acqua gelida gli diede l’impressione di essere trafitto da migliaia di coltelli. Mentre tornava a galla vide che la gabbia dell’albero di trinchetto era proprio davanti a lui. Il suo primo istinto fu quello di raggiungerla a nuoto, ma subito dopo si rese conto che aggrapparsi a qualsiasi parte della nave sarebbe stata una follia.
Mentre
cominciava a nuotare verso poppa venne improvvisamente scagliato contro un
condotto di ventilazione da un fiotto d’acqua che si riversava dentro. Sapeva
che il condotto di ventilazione finiva dritto in una sala caldaie e che la sottile
rete metallica che lo chiudeva era l’unica cosa che lo separava da un salto di
trenta metri. Eppure ogni volta che cercava di allontanarsi veniva trascinato
indietro. Cominciò a sentirsi annegare e si rese conto che gli restavano solo
pochi minuti di vita. Un’improvvisa raffica di aria calda uscì dal condotto e
lo liberò. Risalì in superficie e si riempì i polmoni d’aria, ma fu di nuovo
trascinato sott’acqua.
Quando
riuscì finalmente ad allontanarsi si ritrovò accanto alla barca pieghevole B,
capovolta. Diversi uomini stavano aggrappati al fondo dell’imbarcazione, ma
Lightoller, esausto, riuscì solo ad afferrare un pezzo di corda e a lasciarsi
galleggiare accanto alla barca. Intorno a lui molti altri si dibattevano
nell’acqua. Alcuni nuotavano, altri stavano annegando.
Era
uno spettacolo infernale.
Apocalisse, Scuola umbra, anno 1490 circa:
Ormai non è lui il più giovane, ansima, tira fuori una gran tela, borbotta, mercanteggia a lungo e tenace con il committente, un avaro carmelitano degli Abruzzi, priore o superiore generale. Si fa presto inverno, le nocche schioccano, la fascina schiocca nel camino. Lui ansima, mestica, lascia asciugare la tela, mestica una volta ancora, scarabocchia impaziente su piccoli cartoncini le sue figure spettrali, che rileva con bianco zinco.
Indugia,
strofina qualche colore, spreca parecchie settimane.
Poi
un bel giorno, siamo tra l’altro già al Mercoledì delle Ceneri o alla
Presentazione di Maria Vergine, ecco che immerge, di buonora, pennelli nelle
tinte bruciate e dipinge: sarà un quadro cupo.
Come
si fa a dipingere la fine del mondo?
Gli
incendi, le isole sfollate, i lampi, i crolli straordinariamente lenti di mura,
pinnacoli e torri: questioni tecniche, problemi di composizione.
Distruggere
il mondo intero è una faticaccia.
Particolarmente
difficili da dipingere sono i rumori, il lacerarsi della cortina nel tempio, il
mugghio delle bestie, il tuono. Tutto infatti deve squarciarsi, essere
squarciato, esclusa la tela.
E
la scadenza è fissa: ad ogni costo Ognissanti.
Per
quel giorno bisogna che, sullo sfondo, il mare rabbioso sia verniciato, mille
volte, di verdi luci spumeggianti, trafitto da alberi maestri, da navi che
verticali si fiondano verso i fondali, e da relitti; mentre fuori, in pieno
luglio...
Non
c'è un cane sulla polverosa piazza.
Il
pittore è rimasto solo in città, disertato da donne, scolari, servitù.
Sembra
stanco, chi l’avrebbe mai detto, stanco da morire.
Tutto
è color ocra, senz’ombra, tutto sosta immoto, fisso in una sorta di malvagia
eternità; eccetto il quadro. Il quadro cresce, si oscura lentamente, si riempie
di ombre blu acciaio, grigio terra, viola cupo, caput mortuum; si riempie di diavoli, cavalieri, carneficine;
finché la fine del mondo è felicemente conclusa e il pittore, rianimato per un
breve istante, follemente allegro come un bambino, quasi gli avessero condonato
la vita, offre, la sera stessa, a donne, bimbi, amici e nemici, tartufi
freschi, beccaccine e vino, mentre fuori la prima pioggia d’autunno scroscia.
(Barry Lopez accompagnato al pianoforte da H.
Brewster; primo violino M. Polidoro; secondo violino, Hans Magnus Enzensberger)
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