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Il capitolo completo (circa l'editto...)
ovvero a tutte le Genti di montagna
& in ciò che fu e divenuto (3)
& con i racconti della Domenica (2)
Rammento un gruppo di tuguri aggrappati alla
falda del monte:
piccoli, tozzi, lerci, puntellati, cadenti, decrepiti, inverosimili. Tre case
in basso, tre case in alto e la strada nel mezzo. Il tetto delle case a valle
copre due terzi della strada ed è a sua volta mezzo coperto dal tetto delle
case a monte, sicché la strada non vede mai il cielo. La luce vi scende
obliquamente per il vano che corre fra l’altezza del primo tetto e quella del
secondo. Quando piove, l’acqua precipita da un tetto all’altro e da questo
sulla strada che serba tutto l’anno in riga le bucherelle delle grondaie.
Sì mi fecero visita stavo in piccolo misero tugurio…
Un giorno passò un essere non so se aveva
qualcosa di umano, confido più nelle bestie; fiere bestie vere maestre
dell’arte di sopravvivere ed insegnare il proprio mestiere!
Vide, così si narra, disegnarsi in cielo chiaro
del crepuscolo una specie di bernoccolo angoloso e scuro che rassomigliava ad
un tetto sormontato da un camino.
In una piega del monte, semi nascosto dalla neve
e coperto di ghiaccio!
La capanna non contiene che una camera sola, quella dov’eravamo, ma quella camera contiene il mondo intero!
Era una grande sala bassa il cui soffitto,
costituito da tralicci e cordame, sostenuto da pali sparsi qua e là, lascia
incunearsi e pendere in lunghi fasci il fieno ammassatovi. Alcuni assiti
formavano nella stanza compartimenti capricciosi.
Uno di questi, a sinistra della porta, comprende
un angolo della capanna, la finestra, il camino, enorme caverna di pietra tutta
affumicata, e il letto, cioè una specie di bara, con mille grinze di un
pagliericcio fuligginoso e una coperta bruciacchiata.
È la camera da letto!
Di fronte alla camera da letto un altro compartimento contiene una lupa se pur di guardia… addormentata… e alcuni polli si aggiravano d’attorno addormentati anch’essi in una specie di scatolone simile a piccole cascine anch’esse abbandonate…
È l’intero fienile ove s’aggirano d’attorno
contorte ed invisibile stradine di più alte fiere genti e cime per sempre
perdute nel loro strano modo di allevare ogni essere fedele al principio
di Madre Natura…
All’angolo opposto, in un terzo compartimento, si ammucchia una piramide informe di ceppi irsuti e di fascine spinose: provviste di legna per l’inverno, sembra una strana Selva ove si nasconde ogni poeta dall’Alba non ancora mattina sino al tramonto della specie e mai sia detta notte dell’umanità intera…
Il camino sepolto sotto un metro di neve!
Neppure più il fumo si scorge si ha timore di ferire anche il fiero guardiano dell’inverno…
Mai compresi come non l’abbia acceso!
Bivacco d’un rifugiato più pagano che cristiano
prega come un druido presso l’antica quercia?!
Alcune botti di vino vuote stanno accumulate
travasate vicino a bardature di mulo non lontano da altri otri. Parole antiche
e indecifrabili travasate e trasudate presso moderni altari…
È la cantina d’un sapere antico!
Un grande masso di roccia, che riempie l’angolo a destra della porta, forma un pendio di granito, oppure uno strano altare ove v’erano addossati dei fastelli di paglia gettati a terra, come lasciar intendere il luogo dove il Sogno per sempre celebrato cede il passo al preciso punto ‘cardinale’ oracolo della Terra…
La Terra parla v’è chi l’ode ed ascolta!
Due alti alari di ferro lavorato, arrugginiti dal
freddo ghiaccio e vento lo vigilano dall’alto, si specchiano nel ghiacciaio
dell’uscio. Si sarebbero detti dei draghi pronti ad urlare e mordere ove un
Tempo si coniava il danaro. Del resto non vi è nel tugurio altro utensile da
cucina, solo una ‘paideia’ con cui attraversare il difficile camino… nutrimento
del corpo…
Una giara d’olio per leggere il futuro, e una lampada poggiata vicino al letto consumare la fioca luce dell’altare, e presso la porta un’altra giara piena di latte di lupa (la capra di passaggio la teme e venera), sul cui orlo uncinata e scavata una ciotola di legno dalla forma più elegante e più pura: una scodella etrusca.
Un essere peloso gli fa compagnia, dal modo in
cui mi guarda appare chiaro che sia un lupo!
Udii e odo distintamente ululati sino ai piedi
della valle!
Non un tavolo, non una sedia, chi entra deve
rimanere in piedi o accomodarsi per terra.
Un lieve rumore s’ode!
Sì è vero!
Una specie di gorgheggio discreto e continuo, che per il vero anch’io sento da quando entrato e mi scuote in queste meditazioni, non riuscivo a comprendere donde provenisse.
Ed infine, essendosi abbassati i miei occhi verso
la Terra, distinguo nell’oscurità una specie di fremito metallico, una striscia
lievemente luminosa, e riconosco un Ruscello che attraversa la capanna da parte
a parte.
Questo ruscello - o Fiume - scorre rapido sopra un piano obliquo inclinato lungo una trave cava, e un grosso arbusto infossato a fior di Terra entra nella capanna per un foro del muro - là ove muro non c’èra -… per poi uscirne dalla parte opposta.
D’Inverno vigile e solitario s’erge muto una sentinelle vestita della sua sempre verde armatura, ne distingue ogni araldo stemma Fiore e frutto…
In Primavera ne legge le silenti Rime, se pur in
Inverno serio e muto ha meditato l’intero Viaggio compiuto e da compiersi
ancora per ogni èra…
Hora sembra voler narrare e rimembrare le segrete
strofe donde proviene il più elevato vigile compito cui incaricato, trovare -
cioè - le note giuste per descrivere l’eterna sua avventura, giacché mai sconfitto dal rogo di nessuna guerra…
Pur cenere della Terra!
Mi narra - mentre inizia a rimare la linfa tutta in Rima - della futura Primavera, mi racconta come dura la Vita per ogni Cima ben osservata vigilata & confusa dal torbido di quella corrotta ciminiera...
Mi racconta del Sogno ispirato e dettato dalla sua
saggezza a guardia del difficile compito che mi attende per ogni cosa da
narrare ancora.
La detterà strofa per strofa, rima per rima,
giacché il Genio infinito e ben ispirato
all’occhio vigile che tutto scorge e nulla vede nel cieco intendimento posto
all’ombra della Sapienza destinata al rogo della dottrina coglierne il solo
frutto.
Per ogni ‘getto’ dell’invisibile immateriale [suo]
Pensiero mi narra di un Dio dimenticato. Per ogni colore alla linfa che di
nuovo scorre, mi racconta di un Dio risorto all’Alba di codesta terrena
avventura.
Mi dice - nel gergo dell’antica lingua - che il suo Dio risorge all’alba d’ogni mattina scritta nella volontà dell’uomo che in Lui crede, scorgendo il profilo dell’Universo donde proviene da ogni Ramo dell’antico Sapere…
Mi dice ancora che per questo lo cinsero con una
corona di spine, lo spinsero sino al Golgota ove fu deriso calunniato e poi
crocefisso, reciso della Linfa ove il suo Dio, assieme all’eterna sua sposa -
Madre Natura - lo avevano creato per ogni pietra e legno della Terra…
Gli conficcarono rapaci demoniaci uncinati
artigli, poi legarono mani e piedi con
strani chiodi, solo dopo aver sconfitto ogni vigile e fedele sentinella
dell’Antica dimora, poi lo trafissero senza ritegno alcuno sino alla Cima,
mentre qualcun’altro prendea prigioniero l’intero Fiume dichiarando con
orgoglio il successo ottenuto…
Lo deposero entro un disegno sì imperfetto, che nulla potea più scorgere intendere e volere, sì secco e muto scritto nel silente Testamento…
Anche le Rime che per sempre lo avevano
accompagnato e contraddistinto, hora paiono morire allo scuro riparo
dell’Avvenire mi incaricano del dovuto lascito Testamentario…
Suggerì Via e Ragione negando il moderno Passo
sbarrando l’avversato progresso ivi incamminato, e a chi si depose all’ombra
dell’eterna chioma e Sognò del Genio promise generoso lascito testamentario
senza ricchezza alcuna…
Quanti fieri paladini al letto del severo suo cospetto!
Quanti eserciti scudi motti parole e glorie in
cotal Testamento!
Quanto oro può nascere ancora dall’Alba della
Primavera?
Seppure il freddo gelo nulla ha mai potuto sulla
lucida armatura poggiata in silente preghiera sul letto ingombrare il Passo
pellegrino d’un segreto Inverno dettare il proprio Testamento nell’attesa Primavera…
Più duri dell’acciaio sicuri ad ogni attacco difendere con la propria armatura il potere dalla ricchezza.
Solenni nel secolare compito comandato loro.
Quanta segreta invisibile religiosità e
universale dottrina ispira la Via da secolari paladini protetta, che la
maestosità d’ogni altare o ogni Tempio incaricato di fondare Ragione un nulla
dinnanzi al muto silente coraggio di codesti apostoli della Vita.
Quale difficile lotta e quale Dio potrà ancora
cantarne le gesta?
Per ogni anello della ferita conto un Fiore
dell’antica Sua moneta posta al rogo del progresso in nome e per conto della
celata umana pazzia.
Eppure solo noi che li veneriamo ancora e con loro discutiamo futuri piani di guerra possiamo riconoscerne la Vita e restituire il Genio per ogni frutto offerto ricambiando la cortesia.
Se l’Odi ancora non affaticare l’inutile Ragione
per comprendere l’invisibile Linfa, costruttore dell’inutile progresso.
Non t’affaticare al Golgota della falsa Preghiera
per ogni chiodo in nome del tuo progresso, tu che baratti e confondi Dio e
Verbo!
Capanna o tugurio singolare, ed in cui la montagna sembra sentirsi a casa sua, entra familiarmente: la roccia vi dimora, il ruscello l’attraversa…
(ispirato da V. Hugo)
Quei tuguri abitati l’estate i soli giorni che durano i lavori ed i raccolti nelle terre circostanti, servono l’inverno a deposito di fieno, foglie, legnami ed attrezzi agricoli. La loro estrema bassezza li fa parere inginocchiati e l’oscurità della via li impicciolisce ancora, sicché fanno pensare a gente rannicchiata che ci viva carponi. Sembrano balocchi di giganti o tane di pigmei, a nessuno viene in mente che siano destinati alla razza umana. Tale bassezza, già incredibile l’estate, è resa più mostruosa dall’inverno. Quando io vi giunsi, i tetti reggevano un metro di neve, e parevano schiacciati sotto il peso. Traverso la neve il giorno filtrava nella viuzza con una luce verdognola, fievolissima, una luce da cripta o da acquario. E nella viuzza dormente era un tepore di stalla, come vi soffiasse l’alito di un gregge invisibile. Uscito dalla lucentezza brunita e fredda della valle, quel luogo chiuso, ombroso e tepido mi parve animato.
Entravo colla fantasia negli stambugi e li vedevo occupati da un gigante silenzioso. Uomini da stare in boccetta, che mi guardavano dimenando la testa ed ammiccandosi, punto impauriti della mia corpulenza. Mi pareva di inoltrarmi circospetto per tema non me ne venisse qualcuno sotto i piedi. Erano in numero sterminato, bianchi bianchi come la neve, barbe lunghe e capelli lanosi. Erano i padroni del luogo, della valle, della stagione. La grave rovina invernale era opera loro. Essi si aggiravano turbinando per l’aria, piombavano sulle cime, e voltando la neve per forza di poppa l’approdavano sull’orlo delle scogliere, donde la facevano smottare in valanga….
(Prosegue con la narrazione completa circa l'editto…)
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