Precedenti capitoli:
scritti nell'intento di voler Curare il futuro... (7/9)
Prosegue con...
(l'ecologia) del-La libertà... (11)
& il Capitolo [quasi] completo (12)
Nel 1977 Gorz dà alle
stampe Écologie et liberté, senza dubbio l’opera fondamentale della sua
fase ecologico-politica, un saggio di ampio respiro che gli permette di
focalizzare alcuni nodi teorici al di là dei limiti strutturali dell’articolo
giornalistico e che si presenta dunque come uno sforzo di sistematizzazione,
come una sorta di bilancio concettuale che consentirà all’autore di cesellare
una prospettiva autonoma e originale attorno alla quale costruire nuove
indagini critiche su questioni cruciali quali il lavoro – il suo senso, la sua
funzione, i suoi limiti – ed il nesso tra reddito di esistenza e autonomia
individuale e collettiva – la loro necessaria compresenza, la questione del
tempo liberato come modo della loro articolazione. Con la ristampa accresciuta
di Écologie et politique nel 1978 – comprensiva anche di Écologie et liberté –
possiamo dunque ritenere conclusa la fase ecologicopolitica del percorso
gorziano, benché sia sufficiente richiamare il titolo della postfazione a
Adieux au prolétariat (1980), ‘Crescita distruttiva e riduzione produttiva’,
per rendersi conto una volta di più di quanto una particolare sensibilità verso
le problematiche ambientali sia alla base anche delle fasi successive della
ricerca di questo autore.
Leggendolo si ha la strana sensazione di trovarsi di fronte ad un testo al contempo straordinariamente anticipatore e drammaticamente antiquato. Antiquato perché, sebbene con estrema parsimonia, anch’esso non si sottrae alla moda ambientalista della chiaroveggenza. Un esempio: “Sappiamo che il nostro attuale modo di vita non ha futuro; che i figli che metteremo al mondo non useranno più, in età matura, né alluminio né petrolio”. Dalla prospettiva del Febbraio 2018 – momento in cui scriviamo e in cui un’ipotetica figlia avrebbe quasi quarant’anni – segnata dal crollo del prezzo del petrolio dovuto all’effetto combinato della crisi globale (riduzione della domanda), degli investimenti in nuove tecnologie di estrazione (la cosiddetta fratturazione idraulica [fracking]), dell’esplorazione di nuovi giacimenti (sabbie bituminose [tar sands] e gas da argille [shale gas]) e da inedite tensioni geopolitiche (basti citare il caso della Libia); da questa prospettiva, si diceva, tali predizioni potrebbero far sorridere.
...qual comune sentimento e traguardo di quanto ‘divinamente’ rimosso dalla Coscienza - come un Tempo certamente non smarrito - testimonia ancora; giacché non siamo soliti celebrare - Poeti Filosofi Pensatori e umili Viandanti - del nostro comune passato privati delle varie Divinità nel Beneficio della Selva andando ad impersonare, o peggio, leggerne interpretarne e talvolta mistificarne, l’intero senso dell’altrui Rima paradossalmente privata del Principio da cui medesima Natura [e Beatrice] attinge Intelletto e Parola e non più Poesia; per poi in segreto pubblico luogo finalizzare e celebrare meriti e miti dell’immateriale Selva ispirata nell’esclusiva celebrazione del Capitale attinto [dalla medesima Divinità] tratto da ogni respiro mutilato per ogni secolare Foglia Ramo e frutto dall’Albero estirpato, e certo non più Poesia neppur Poeta alla Sua ombra rimembrato; semmai ancor più esiliato da coloro che il Poeta avversava smarrendo di nuovo la retta Via del Secolare cammino con più
...onesti e taciuti viandanti condiviso e apostrofato; la recita o il teatro, o peggio ancora, il meccanizzato teatrino [e mai sia detta Commedia] affine al ‘pupo’ non nominando il ‘puparo’, i quali di ‘divino’ presentano solo l’antico alito appestato d’alcolica pretesa unito alla certezza di mutilarne l’esistenza, e non solo della Rima, ma oltremodo con Lei dell’intera Selva; ‘divini’ maestri non facenti parte della nostra Coscienza in quanto Fedeli all’amore dell’intera Storia così come l’oscura Selva; seppur muti come silenti Faggi o Abeti avversi alla taciuta costante intimidazione restituiamo - così come la Natura insegna - un più nobile ed elevato sentimento congiunto all’Anima d’ogni Poeta degno della propria poesia accompagnata dal ricordo ‘congiunto’, anch’esso mutilato dall’eterna inquisizione, celebrata al rogo del secolare focolare adornato degli araldi di prelibata cogitante pascolata cacciagione, con la fortuna d’entrambi - corna a forma di ramo - di non essere sepolti da...
...un’unanime valanga di fango, da cui la più nota mannaia accompagnata dall’intrepido scavatore, o meglio che dico, paladino trovator dalla Provenza votato; il peggio deve ancor rimare la frana da cui l’orrore d’ogni Poeta ivi transitato e con lui l’intera Selva persa nell’impresa della Ditta incaricata dalla Compagnia; il mantenere sicura la Via per una più profonda e certa Visione circa la vera Dottrina un’impresa altrettanto fallace - come il contraccambiarne di rimando - la vera Rima! Procederemo in tal senso rendendo duplice la Libertà - e non solo filosoficamente trattata [da cui scaturisce orrore ripulsione e calunnia vicino e lontano da ogni selva conquistata] - nel corretto senso interpretativo qual beneficio e merito circa il vero frutto della Salvezza della Natura intera, compresa ovviamente l’umana derivata…, e trattata nel duplice senso della propria Libertà vilipesa, non smarrendo di certo codesta Via intrapresa da cui un più elevato compito circa la Cura di cui la Natura abbisogna…[il curatore del blog])
È questo il realismo ecologico
Ad esso
normalmente si obietta che l’arresto o l’inversione della crescita economica
non solo perpetuerebbe, ma potrebbe pure aggravare le diseguaglianze sociali,
provocando quindi un deterioramento delle condizioni materiali dei più poveri.
Ma da che cosa mai si è desunto che la crescita cancella
le diseguaglianze?
Le statistiche mostrano piuttosto il contrario.
Si dirà
forse che queste statistiche riguardano soltanto i paesi capitalisti, che un regime
socialista saprebbe mettere all’opera una maggiore ‘giustizia sociale’?
Ma in
questo caso, perché esso sarebbe necessitato a produrre sempre di più?
Perché non si potrebbe ottenere un
miglioramento delle condizioni e del livello di vita utilizzando meglio le
risorse disponibili; producendo altre cose, in altro modo; eliminando gli
sprechi; evitando di produrre socialmente oggetti tanto dispendiosi da non
poter essere accessibili a tutti, così come oggetti talmente ingombranti o
inquinanti che le loro nocività avrebbero il sopravvento sui loro vantaggi
qualora la maggioranza della popolazione se ne servisse?
Tutti coloro che, a sinistra, rifiutano di affrontare sotto questo aspetto il problema di un’equità senza crescita, dimostrano che il socialismo, per loro, non è che la continuazione con altri mezzi dei rapporti sociali e della cultura capitalistica, del modo di vita e dei modelli di consumo borghesi (dai quali, d’altronde, la borghesia intellettuale è la prima a smarcarsi sotto l’influenza delle sue figlie e dei suoi figli).
L’utopia
oggi non consiste affatto nel preconizzare il benessere attraverso la decrescita
ed il sovvertimento dell’attuale modo di vita; l’utopia consiste nel credere che la crescita
della produzione sociale possa ancora condurre ad un miglioramento del
benessere, e che essa sia materialmente possibile.
L’economia politica come disciplina
specifica non si applica né alla famiglia né alle comunità sufficientemente
piccole da poter regolare di comune accordo la cooperazione tra gli individui
ed i loro scambi di beni e servizi.
L’economia politica infatti comincia laddove cessano cooperazione e reciprocità: essa prende avvio dalla produzione sociale la quale, fondata sulla divisione sociale del lavoro, viene regolata attraverso dinamiche esterne alla volontà e alla coscienza degli individui, cioè attraverso meccanismi di mercato oppure per mezzo della pianificazione statale (o ancora con una combinazione tra i due).
L’homo economicus, vale a dire l’individuo
astratto che fa da supporto ai ragionamenti economici, possiede questa
caratteristica di non consumare ciò che produce e di non produrre ciò che
consuma. Di conseguenza, esso non si
pone mai problemi di qualità, utilità, piacere, bellezza, felicità, libertà e
morale, ma solo
questioni di valore di scambio, di flussi, di volumi quantitativi e di equilibrio
globale.
L’economista non si occupa dunque di quel che gli individui pensano, sentono e desiderano, ma solo dei processi materiali, indipendenti dalla loro volontà e che le loro attività producono in un ambiente (sociale) limitato dal punto di vista delle risorse.
L’ecologista si trova di fronte all’attività economica
nella stessa posizione dell’economista di fronte alle attività individuali o
comunitarie.
L’ecologia come disciplina specifica non si applica
né alle comunità né alle popolazioni il cui modo di produzione non implica
effetti duraturi o irrimediabili sull’ambiente circostante: le risorse naturali
appaiono qui come infinite, l’impatto dell’attività umana come trascurabile.
Nel migliore dei casi la cura nei confronti della natura si pone sullo stesso
piano del vivere in maniera salubre (‘l’igiene’), parte integrante della
cultura popolare.
L’ecologia emerge come disciplina specifica solo nel momento in cui l’attività economica distrugge o perturba irreversibilmente l’ambiente circostante e, in questo modo, compromette la prosecuzione della sua stessa dinamica, oppure ne muta sensibilmente le condizioni.
L’ecologia si occupa appunto delle condizioni
che l’attività economica deve soddisfare e dei limiti esterni ch’essa deve
rispettare per non provocare effetti controproducenti o addirittura
incompatibili con la propria prosecuzione.
Nello stesso modo in cui l’economia si
occupa delle costrizioni esterne che le attività individuali generano non
appena producono risultati collettivi involontari, così l’ecologia ha a che
fare con i limiti esterni generati dall’attività economica quando essa produce,
nell’ambiente circostante, delle alterazioni che sconvolgono i suoi calcoli.
L’ecologia possiede una razionalità
diversa:
essa ci fa
scoprire i limiti dell’efficacia dell’attività economica, nonché le sue stesse
condizioni extraeconomiche.
Essa ci mostra, in particolare, come gli
sforzi economici volti al superamento di una scarsità relativa finiscano col
generare, oltrepassata una certa soglia, una scarsità assoluta e
insormontabile: i rendimenti si fanno negativi, la produzione distrugge più di
quanto non produca.
Questa inversione si manifesta nel momento in cui
l’attività economica lede alcuni cicli elementari e/o distrugge risorse la cui
rigenerazione si situa al di fuori della sua stessa portata.
A questo genere di situazione il sistema economico ha sempre risposto – almeno fino ad ora – con sforzi supplementari di produzione: esso cerca di combattere attraverso l’accrescimento della produzione quella scarsità creata precisamente da un previo aumento della produzione.
Esso non si avvede (e torneremo su questo
punto) che, così facendo, la condizione di scarsità non può che aggravarsi:
che, attraversata una certa soglia, le misure a favore della mobilità privata
automobilistica non fanno che moltiplicare gli intasamenti; che la crescita dei
medicinali consumati crea malattie più che rimuoverle; che l’aumento dei
consumi energetici ha un effetto inquinante che, a meno di non combatterlo alla
fonte, costringe ad un’ulteriore intensificazione nell’uso di un’energia a sua
volta inquinante, e così via.
Per comprendere e attaccare queste
‘controproduttività’
occorre distaccarsi dalla razionalità
economica.
È per l’appunto ciò che fa l’ecologia: essa ci mostra che la risposta alla scarsità, alla nocività, all’intasamento e alle impasses della cultura industriale deve essere cercata non in un accrescimento ma in una limitazione o una riduzione della produzione materiale.
Essa rivela che può risultare più
efficace e ‘produttivo’ gestire i giacimenti naturali piuttosto che sfruttarli,
sostenere i cicli naturali invece che intervenire su di essi. Tuttavia, è
impossibile dedurre una morale dall’ecologia. Ivan Illich è stato tra i primi a comprenderlo. L’alternativa che
egli vede è, schematicamente, questa:
…o ci si unisce per imporre alla produzione
istituzionale e alle tecnologie dei limiti che permettano la gestione delle
risorse naturali, preservino gli equilibri favorevoli alla vita, sostengano le
dinamiche comunitarie e la sovranità degli individui (opzione conviviale); oppure
i limiti necessari alla preservazione della vita calcolati e pianificati in modo
centralizzato dagli ecoingegneri, e la
produzione programmata di un ambiente di vita ottimale sarà affidata ad
istituzioni centralizzate e a tecnologie oppressive (opzione tecno-fascista
sulla cui strada siamo già più che per metà avviati).
(A. Gortz; Ecologia e Libertà)
Tecnologia & Produzione
Nel prendere in esame la tecnologia e la
produzione ci imbattiamo in un curioso paradosso: siamo profondamente
combattuti tra una grande aspettativa nei confronti delle innovazioni tecniche,
da un lato, e una totale disillusione nei confronti dei loro risultati,
dall’altro. Un duplice atteggiamento che non solo riflette un conflitto comune
alle più diffuse ideologie, ma che evidenzia altresì forti dubbi sulla natura
dello stesso immaginario tecnologico moderno.
Siamo sconcertati dalla facilità con
cui quegli stessi strumenti concepiti dalla nostra mente e creati dalle nostre
mani ci si possono rivolgere contro, con conseguenze disastrose per il nostro benessere
se non addirittura per la sopravvivenza stessa della nostra specie. Per i
giovani d’oggi è difficile rendersi conto di quanto sarebbe stato anomalo, solo
alcuni decenni fa, un tale conflitto sull’orientamento e sull’immaginario
tecnologico.
Le nuove macchine, al pari delle opere
d’arte, erano oggetti da esposizione che incantavano non solo l’esperto di
futurismo, l’industriale o lo specialista ma anche la gente comune di ogni ceto
sociale.
Le più
famose utopie americane si sono sviluppate attorno a una serie di immagini fortemente tecnocratiche che
incarnavano il potere, un esaltante senso di signoria sulla natura, il gigantismo
fisico e un’impressionante mobilità territoriale. L’ipertecnicizzato Mondo
nuovo di domani, celebrato nell’ultima vera grande esposizione mondiale,
ovvero quella di New York del 1939, ha affascinato milioni di visitatori con il
suo messaggio di affermazione e speranze umane. In effetti, la tecnica era
divenuta un prodotto tanto culturale quanto meccanico.
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