CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

domenica 28 marzo 2021

L'ECOLOGIA... (10)

 










Precedenti capitoli:


scritti nell'intento di voler Curare il futuro... (7/9)


Prosegue con...


(l'ecologia) del-La libertà... (11)
















& il Capitolo [quasi] completo (12)








Nel 1977 Gorz dà alle stampe Écologie et liberté, senza dubbio l’opera fondamentale della sua fase ecologico-politica, un saggio di ampio respiro che gli permette di focalizzare alcuni nodi teorici al di là dei limiti strutturali dell’articolo giornalistico e che si presenta dunque come uno sforzo di sistematizzazione, come una sorta di bilancio concettuale che consentirà all’autore di cesellare una prospettiva autonoma e originale attorno alla quale costruire nuove indagini critiche su questioni cruciali quali il lavoro – il suo senso, la sua funzione, i suoi limiti – ed il nesso tra reddito di esistenza e autonomia individuale e collettiva – la loro necessaria compresenza, la questione del tempo liberato come modo della loro articolazione. Con la ristampa accresciuta di Écologie et politique nel 1978 – comprensiva anche di Écologie et liberté – possiamo dunque ritenere conclusa la fase ecologicopolitica del percorso gorziano, benché sia sufficiente richiamare il titolo della postfazione a Adieux au prolétariat (1980), ‘Crescita distruttiva e riduzione produttiva’, per rendersi conto una volta di più di quanto una particolare sensibilità verso le problematiche ambientali sia alla base anche delle fasi successive della ricerca di questo autore.




Leggendolo si ha la strana sensazione di trovarsi di fronte ad un testo al contempo straordinariamente anticipatore e drammaticamente antiquato. Antiquato perché, sebbene con estrema parsimonia, anch’esso non si sottrae alla moda ambientalista della chiaroveggenza. Un esempio: “Sappiamo che il nostro attuale modo di vita non ha futuro; che i figli che metteremo al mondo non useranno più, in età matura, né alluminio né petrolio”. Dalla prospettiva del Febbraio 2018 – momento in cui scriviamo e in cui un’ipotetica figlia avrebbe quasi quarant’anni – segnata dal crollo del prezzo del petrolio dovuto all’effetto combinato della crisi globale (riduzione della domanda), degli investimenti in nuove tecnologie di estrazione (la cosiddetta fratturazione idraulica [fracking]), dell’esplorazione di nuovi giacimenti (sabbie bituminose [tar sands] e gas da argille [shale gas]) e da inedite tensioni geopolitiche (basti citare il caso della Libia); da questa prospettiva, si diceva, tali predizioni potrebbero far sorridere.




 Sarebbe tuttavia sbagliato dedurne un’erroneità senza appello, in primo luogo perché è opinione corrente che il picco del petrolio sia già stato raggiunto e che, quindi, un ipotetico scenario post-crisi riproporrebbe lo stesso problema in forma aggravata. In secondo luogo perché la crisi ambientale ci si presenta oggi in forme talmente evidenti che eventuali imprecisioni al ribasso delle ipotesi passate sono più che compensate dall’emergere continuo di nuove criticità. In terzo luogo perché in Gorz l’analisi di una situazione ecologicamente drammatica è spesso necessaria ma mai sufficiente a definire la strategia politica che si propone di affrontarla. Ecco dunque la dimensione anticipatrice di questo libro: la crisi della natura non è esterna all’economia, alla società, alla politica; ne è semmai il volto estremo, il sintomo inaggirabile, l’ingiunzione cui non ci si può sottrarre procrastinando.




 Gorz è dunque tra i primi a chiederci di pensare la questione ambientale nella sua non-autosufficienza, nella sua impossibilità a spiegarsi da sé: essa dischiude infatti una crisi del produttivismo occidentale e del capitalismo industriale che possiede un’origine storica e che richiede una soluzione politica. Tale soluzione, peraltro, non fornisce alcuna garanzia sulla desiderabilità o meno del suo esito: il testo torna a più riprese sul rischio concreto di una deriva tecnofascista, cioè di una risposta autoritaria alle sfide ecologiche. Il degrado degli equilibri biosferici schiude infatti uno scenario fortemente polarizzato: alla tentazione dispotica deve far fronte un progetto sociale complessivo capace di coniugare la sostenibilità ambientale e l’autonomia individuale e collettiva: “Rigettare il tecnofascismo non può dipendere da una scienza degli equilibri naturali; al contrario, deve derivare da una scelta politica e culturale”.30 Il nesso tra ecologia e libertà, dunque, non si dà in natura – non sta nelle cose: bisogna produrlo, curarlo, difenderlo.




 (* in riferimento a questo aspetto circa la Divinità sottratta al proprio arbitrio, oggi più che mai urge la necessaria costante affermazione e presenza data da una libera cultura purtroppo vigilata, da troppi impropriamente tradotta e rapportata ad una determinata costante materiale dottrina e specificità - in superiore loco - posta dimenticando il Giano come l’oracolo della congiunta Fisica d’un’onda o particella superare - e non certo ostacolata - dalla barriera posta; per poi essere comandata e specificata, qual motto comune e araldo della falsa moneta coniata, in più elevata frequenza dai media del potere congiunto qual luce dell’intera selva; ovvero il ‘potere’ dato dalla somma di banche e imprese, in ogni ‘grado’ ove in perenne esercizio interessi non facenti parte del corretto svolgimento dell’Ideale degradato illuminare siffatta medesima Terra e tempio pregato; quindi spacciato sempre per Eretico [e non solo nell’avvento solstiziale trascorso dall’uscio della grotta dell’umano Natale sino alla definitiva uscita per la porta deificata d‘una Pasqua] dall’ortodossia dal presunto dotto sapere; per poi essere perseguitato e abdicato al mercato comune dell’irreale pazzia, ove la Libertà e con essa l’Ecologia - immateriale Spirito alla deriva della Coscienza d’ognuno - curata dalla demoniaca materia nella globale incoscienza coltivata nella presunzione della ricchezza, o ancor peggio, benessere raggiunto [dato dalla somma della cenere del Tempio di Zeus sino al Golgota del più noto calvario]; 




...qual comune sentimento e traguardo di quanto ‘divinamente’ rimosso dalla Coscienza - come un Tempo certamente non smarrito - testimonia ancora; giacché non siamo soliti celebrare - Poeti Filosofi Pensatori e umili Viandanti - del nostro comune passato privati delle varie Divinità nel Beneficio della Selva andando ad impersonare, o peggio, leggerne interpretarne e talvolta mistificarne, l’intero senso dell’altrui Rima paradossalmente privata del Principio da cui medesima Natura [e Beatrice] attinge Intelletto e Parola e non più Poesia; per poi in segreto pubblico luogo finalizzare e celebrare meriti e miti dell’immateriale Selva ispirata nell’esclusiva celebrazione del Capitale attinto [dalla medesima Divinità] tratto da ogni respiro mutilato per ogni secolare Foglia Ramo e frutto dall’Albero estirpato, e certo non più Poesia neppur Poeta alla Sua ombra rimembrato; semmai ancor più esiliato da coloro che il Poeta avversava smarrendo di nuovo la retta Via del Secolare cammino con più 




...onesti e taciuti viandanti condiviso e apostrofato; la recita o il teatro, o peggio ancora, il meccanizzato teatrino [e mai sia detta Commedia] affine al ‘pupo’ non nominando il ‘puparo’, i quali di ‘divino’ presentano solo l’antico alito appestato d’alcolica pretesa unito alla certezza di mutilarne l’esistenza, e non solo della Rima, ma oltremodo con Lei dell’intera Selva; ‘divini’ maestri non facenti parte della nostra Coscienza in quanto Fedeli all’amore dell’intera Storia così come l’oscura Selva; seppur muti come silenti Faggi o Abeti avversi alla taciuta costante intimidazione restituiamo - così come la Natura insegna - un più nobile ed elevato sentimento congiunto all’Anima d’ogni Poeta degno della propria poesia accompagnata dal ricordo ‘congiunto’, anch’esso mutilato dall’eterna inquisizione, celebrata al rogo del secolare focolare adornato degli araldi di prelibata cogitante pascolata cacciagione, con la fortuna d’entrambi - corna a forma di ramo - di non essere sepolti da...




...un’unanime valanga di fango, da cui la più nota mannaia accompagnata dall’intrepido scavatore, o meglio che dico, paladino trovator dalla Provenza votato; il peggio deve ancor rimare la frana da cui l’orrore d’ogni Poeta ivi transitato e con lui l’intera Selva persa nell’impresa della Ditta incaricata dalla Compagnia; il mantenere sicura la Via per una più profonda e certa Visione circa la vera Dottrina un’impresa altrettanto fallace - come il contraccambiarne di rimando - la vera Rima! Procederemo in tal senso rendendo duplice la Libertà - e non solo filosoficamente trattata [da cui scaturisce orrore ripulsione e calunnia vicino e lontano da ogni selva conquistata] - nel corretto senso interpretativo qual beneficio e merito circa il vero frutto della Salvezza della Natura intera, compresa ovviamente l’umana derivata…, e trattata nel duplice senso della propria Libertà vilipesa, non smarrendo di certo codesta Via intrapresa da cui un più elevato compito circa la Cura di cui la Natura abbisogna…[il curatore del blog])




 

È questo il realismo ecologico

 

 

Ad esso normalmente si obietta che l’arresto o l’inversione della crescita economica non solo perpetuerebbe, ma potrebbe pure aggravare le diseguaglianze sociali, provocando quindi un deterioramento delle condizioni materiali dei più poveri.

 

Ma da che cosa mai si è desunto che la crescita cancella le diseguaglianze?

 

Le statistiche mostrano piuttosto il contrario.

 

Si dirà forse che queste statistiche riguardano soltanto i paesi capitalisti, che un regime socialista saprebbe mettere all’opera una maggiore ‘giustizia sociale’?

 

Ma in questo caso, perché esso sarebbe necessitato a produrre sempre di più?

 

Perché non si potrebbe ottenere un miglioramento delle condizioni e del livello di vita utilizzando meglio le risorse disponibili; producendo altre cose, in altro modo; eliminando gli sprechi; evitando di produrre socialmente oggetti tanto dispendiosi da non poter essere accessibili a tutti, così come oggetti talmente ingombranti o inquinanti che le loro nocività avrebbero il sopravvento sui loro vantaggi qualora la maggioranza della popolazione se ne servisse?




Tutti coloro che, a sinistra, rifiutano di affrontare sotto questo aspetto il problema di un’equità senza crescita, dimostrano che il socialismo, per loro, non è che la continuazione con altri mezzi dei rapporti sociali e della cultura capitalistica, del modo di vita e dei modelli di consumo borghesi (dai quali, d’altronde, la borghesia intellettuale è la prima a smarcarsi sotto l’influenza delle sue figlie e dei suoi figli).

 

L’utopia oggi non consiste affatto nel preconizzare il benessere attraverso la decrescita ed il sovvertimento dell’attuale modo di vita; l’utopia consiste nel credere che la crescita della produzione sociale possa ancora condurre ad un miglioramento del benessere, e che essa sia materialmente possibile.

 

L’economia politica come disciplina specifica non si applica né alla famiglia né alle comunità sufficientemente piccole da poter regolare di comune accordo la cooperazione tra gli individui ed i loro scambi di beni e servizi.




L’economia politica infatti comincia laddove cessano cooperazione e reciprocità: essa prende avvio dalla produzione sociale la quale, fondata sulla divisione sociale del lavoro, viene regolata attraverso dinamiche esterne alla volontà e alla coscienza degli individui, cioè attraverso meccanismi di mercato oppure per mezzo della pianificazione statale (o ancora con una combinazione tra i due).

 

L’homo economicus, vale a dire l’individuo astratto che fa da supporto ai ragionamenti economici, possiede questa caratteristica di non consumare ciò che produce e di non produrre ciò che consuma. Di conseguenza, esso non si pone mai problemi di qualità, utilità, piacere, bellezza, felicità, libertà e morale, ma solo questioni di valore di scambio, di flussi, di volumi quantitativi e di equilibrio globale.




L’economista non si occupa dunque di quel che gli individui pensano, sentono e desiderano, ma solo dei processi materiali, indipendenti dalla loro volontà e che le loro attività producono in un ambiente (sociale) limitato dal punto di vista delle risorse.

 

L’ecologista si trova di fronte all’attività economica nella stessa posizione dell’economista di fronte alle attività individuali o comunitarie.

 

L’ecologia come disciplina specifica non si applica né alle comunità né alle popolazioni il cui modo di produzione non implica effetti duraturi o irrimediabili sull’ambiente circostante: le risorse naturali appaiono qui come infinite, l’impatto dell’attività umana come trascurabile. Nel migliore dei casi la cura nei confronti della natura si pone sullo stesso piano del vivere in maniera salubre (‘l’igiene’), parte integrante della cultura popolare.




L’ecologia emerge come disciplina specifica solo nel momento in cui l’attività economica distrugge o perturba irreversibilmente l’ambiente circostante e, in questo modo, compromette la prosecuzione della sua stessa dinamica, oppure ne muta sensibilmente le condizioni.

 

L’ecologia si occupa appunto delle condizioni che l’attività economica deve soddisfare e dei limiti esterni ch’essa deve rispettare per non provocare effetti controproducenti o addirittura incompatibili con la propria prosecuzione.

 

Nello stesso modo in cui l’economia si occupa delle costrizioni esterne che le attività individuali generano non appena producono risultati collettivi involontari, così l’ecologia ha a che fare con i limiti esterni generati dall’attività economica quando essa produce, nell’ambiente circostante, delle alterazioni che sconvolgono i suoi calcoli.




 Come l’economia si pone oltre la sfera della reciprocità e della cooperazione volontaria, così l’ecologia affonda le proprie radici al di là dell’attività e del calcolo economico, tuttavia senza inglobarlo: che l’ecologia sia una forma di razionalità superiore capace di sussumere quella economica non è affatto vero.

 

L’ecologia possiede una razionalità diversa:

 

essa ci fa scoprire i limiti dell’efficacia dell’attività economica, nonché le sue stesse condizioni extraeconomiche.

 

Essa ci mostra, in particolare, come gli sforzi economici volti al superamento di una scarsità relativa finiscano col generare, oltrepassata una certa soglia, una scarsità assoluta e insormontabile: i rendimenti si fanno negativi, la produzione distrugge più di quanto non produca.

 

Questa inversione si manifesta nel momento in cui l’attività economica lede alcuni cicli elementari e/o distrugge risorse la cui rigenerazione si situa al di fuori della sua stessa portata.




A questo genere di situazione il sistema economico ha sempre risposto – almeno fino ad ora – con sforzi supplementari di produzione: esso cerca di combattere attraverso l’accrescimento della produzione quella scarsità creata precisamente da un previo aumento della produzione.

 

Esso non si avvede (e torneremo su questo punto) che, così facendo, la condizione di scarsità non può che aggravarsi: che, attraversata una certa soglia, le misure a favore della mobilità privata automobilistica non fanno che moltiplicare gli intasamenti; che la crescita dei medicinali consumati crea malattie più che rimuoverle; che l’aumento dei consumi energetici ha un effetto inquinante che, a meno di non combatterlo alla fonte, costringe ad un’ulteriore intensificazione nell’uso di un’energia a sua volta inquinante, e così via.

 

Per comprendere e attaccare queste ‘controproduttività’ occorre distaccarsi dalla razionalità economica.




È per l’appunto ciò che fa l’ecologia: essa ci mostra che la risposta alla scarsità, alla nocività, all’intasamento e alle impasses della cultura industriale deve essere cercata non in un accrescimento ma in una limitazione o una riduzione della produzione materiale.

 

Essa rivela che può risultare più efficace e ‘produttivo’ gestire i giacimenti naturali piuttosto che sfruttarli, sostenere i cicli naturali invece che intervenire su di essi. Tuttavia, è impossibile dedurre una morale dall’ecologia. Ivan Illich è stato tra i primi a comprenderlo. L’alternativa che egli vede è, schematicamente, questa:

 

…o ci si unisce per imporre alla produzione istituzionale e alle tecnologie dei limiti che permettano la gestione delle risorse naturali, preservino gli equilibri favorevoli alla vita, sostengano le dinamiche comunitarie e la sovranità degli individui (opzione conviviale); oppure i limiti necessari alla preservazione della vita calcolati e pianificati in modo centralizzato dagli ecoingegneri, e la produzione programmata di un ambiente di vita ottimale sarà affidata ad istituzioni centralizzate e a tecnologie oppressive (opzione tecno-fascista sulla cui strada siamo già più che per metà avviati). 

(A. Gortz; Ecologia e Libertà)




 

 

Tecnologia & Produzione

 

 

Nel prendere in esame la tecnologia e la produzione ci imbattiamo in un curioso paradosso: siamo profondamente combattuti tra una grande aspettativa nei confronti delle innovazioni tecniche, da un lato, e una totale disillusione nei confronti dei loro risultati, dall’altro. Un duplice atteggiamento che non solo riflette un conflitto comune alle più diffuse ideologie, ma che evidenzia altresì forti dubbi sulla natura dello stesso immaginario tecnologico moderno.

 

Siamo sconcertati dalla facilità con cui quegli stessi strumenti concepiti dalla nostra mente e creati dalle nostre mani ci si possono rivolgere contro, con conseguenze disastrose per il nostro benessere se non addirittura per la sopravvivenza stessa della nostra specie. Per i giovani d’oggi è difficile rendersi conto di quanto sarebbe stato anomalo, solo alcuni decenni fa, un tale conflitto sull’orientamento e sull’immaginario tecnologico.




 Perfino un eroe controculturale e ribelle come Woody Guthrie ha celebrato quelle dighe imponenti e quegli impianti giganteschi che sono poi assurti a simbolo di obbrobrio. La gente alla quale Guthrie e i suoi compagni radicali si rivolgevano negli anni Trenta nutriva una profonda reverenza per la tecnologia, specialmente per quelle competenze e quei congegni che cataloghiamo nella categoria tecnica.

 

Le nuove macchine, al pari delle opere d’arte, erano oggetti da esposizione che incantavano non solo l’esperto di futurismo, l’industriale o lo specialista ma anche la gente comune di ogni ceto sociale.

 

Le più famose utopie americane si sono sviluppate attorno a una serie di immagini fortemente tecnocratiche che incarnavano il potere, un esaltante senso di signoria sulla natura, il gigantismo fisico e un’impressionante mobilità territoriale. L’ipertecnicizzato Mondo nuovo di domani, celebrato nell’ultima vera grande esposizione mondiale, ovvero quella di New York del 1939, ha affascinato milioni di visitatori con il suo messaggio di affermazione e speranze umane. In effetti, la tecnica era divenuta un prodotto tanto culturale quanto meccanico.

(Prosegue...)







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