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Seconda parte (dei racconti della domenica)
In
prossimità dell’Anno Santo, un certo Antonio Huber, dottore laico in teologia,
aveva largheggiato nel peccare.
“Antonio,
caro Antonio”
…si era
detto
“indulgenze
come questa volta non ti capiteranno tutti i giorni. Orsù, approfitta. Poi
quelli laggiù, a Roma, provvederanno”.
Così non aveva più represso la solita propensione per il male. Donnine allegre, innanzi tutto. Ma questo non fu il peggio: malignità, invidie, vanità stolte, amore sfrenato di se stesso, gusto per le sventure altrui.
Tanto, a
Roma lo avrebbero purgato.
Ben presto
però si sentì sazio, e giù nella profondità della coscienza – ne aveva ancora!
– una voce mormorava mormorava. Forse ne aveva fatte troppe. Era tempo di
andare, prima che si facesse tardi. Inoltre, era venuta primavera, la stagione
più propizia, quando il paradiso non sembra poi così lontano.
Antonio partì in auto, pellegrino.
Giunse
vicino a Roma ch’era da poco passato mezzogiorno. Si sentiva stanco, aveva
voglia di dormire. Dormiva infatti tutta la terra intorno. A vista d’occhio non
un’anima viva. Vuota la strada, coi tremuli miraggi sull’asfalto.
C’era la
campagna, classica, le praterie solitarie, il sole, la pace meridiana, qua e là
i morti ruderi, richiami di cicale, quella grandezza misteriosa. Antonio fermò
la macchina, accese una sigaretta; scendendo il sonno su di lui, le dita si
dischiusero, la sigaretta cadde. Si riscosse per una specie di turbinio nero
sopra il capo.
Alzò gli occhi. Erano corvi, una decina.
Ce
l’avevano con lui.
Coi becchi,
lo afferrarono, sfilandolo di peso dal sedile, lo trascinarono via, in volo, sghignazzando.
Sperò che fosse un sogno ma ben presto si trovò in cima a un antico muraglione
diroccato. Intorno, appollaiati, due trecento corvi.
Che scherzo
era mai quello?
Tentò di protestare ma come udì la propria voce, un brivido gli passò su per la schiena. Non era più la voce sua, parole e frasi umane.
“Craa craa”
gli usciva
invece dalla bocca, suono di bestia.
Dalla
bocca?
Dal becco,
piuttosto.
E si guardò le mani; ma le mani egli non aveva più: due ali al loro posto. Si guardò i piedi: zampe. Un corvo, ecco cos’era. Allora Antonio Huber si ricordò di certe vecchie pergamene trovate nei conventi, gli tornarono in mente certe storie che raccontano di sera i contadini. Capì insomma che i corvi erano diavoli, messaggeri del Maligno appostati intorno a Roma per caccia di anime.
Infatti tra
i mille e mille pellegrini c’è il povero peccatore di ogni giorno che cade e si
rialza, c’è l’uomo buono e pio, c’è anche la creatura santa sopra il cui capo
in circostanze favorevoli palpita una fosforescente aureola. Ma c’è pure – di
quando in quando – il sepolcro imbiancato, l’ipocrita, il malvagio, carico di
colpe nere e abbiette, il quale conta sul perdono così come l’artritico
accartocciato dai reumi va a fare i fanghi chiedendo con prepotenza la salute.
‘Eh eh’
gracchiò
beffardo il maggiore di quei corvi, probabilmente il capo,
‘eccolo il
nostro bravo pellegrino!’
Al che ci
fu una risata generale.
‘Roma è laggiù. Lo vedi il cupolone? Lo vedi bene?”
ghignò un
altro.
E ancora:
‘Va’ che
stai bene con l’abito nero. Tinte scure si adattano a chi va a fare penitenza.
E tu che te ne andavi scamiciato!’.
A quelle sacrileghe facezie, il dottor Huber
singhiozzava, o meglio mandava a becco chiuso dei lamenti come fanno i corvi
disperati.
‘Povero me’
…diceva
‘trasformato
in uccello immondo. Maledetta la mia stolta presunzione. Eccomi rovinato!’.
‘Sì, vola,
vola!’
lo
dileggiarono i corvi.
‘Vola vola
mio bel cherubino! Corri a messa che sei già in ritardo!’
E lui volò.
Dapprima goffo e incerto, quindi via via più disinvolto. I diavoli, di sotto, facevano un chiasso sconcio, urlandogli motti innominabili. Però non gli impedirono di andarsene.
Era corvo, oramai;
niente lo poteva più salvare.
La
soddisfazione, nuova per lui, di sostenersi in aria, gli fu di conforto. Su su,
a lenti colpi d’ala. Già la congrega dei diavoli, a picco sotto di lui, non era
più che una macchiolina nera.
Libero!
Ma libero
di che?
Stava così
meditando quando l’occhio gli cadde sul campanile di una chiesa e la chiesa gli
suggerì un’idea. Ma come, lui dottore in teologia, non ci aveva ancora pensato?
L’acqua
santa!
L’acqua benedetta!
Era la cosa più semplice del mondo. Bastava un tuffo, un breve bagno, uno spruzzetto. E laggiù a Roma quanta ce n’era disponibile. Con tutte quelle chiese. La capitale dell’acqua santa, Roma; un lago, un oceano suddiviso in tante minuscole piscine, vasche, coppe, vasi di ogni genere.
Si consolò.
Ora volava
placido sopra la città, gli uccelletti dei giardini, chissà perché, scappavano
vedendolo arrivare. Non restava che un’operazione semplicissima: entrare in
chiesa, tuffarsi in un bacile di acqua santa, di colpo sarebbe tornato uomo.
Strano,
però: entrare nelle chiese risultò molto più complicato del previsto. I
finestroni, in alto, quelli che davano sui tetti, li avevano sprangati tutti,
benché fosse già piuttosto caldo.
Il diavolo!
Il diavolo!
Gridavano,
quasi non avessero mai visto un corvo.
Insomma si
sarebbe detto che a Roma quella storia dei corvi fosse nota. Non una parola
sulla stampa, naturalmente, per non spaventare i pellegrini. I romani tuttavia
sapevano; e tenevano gli occhi bene aperti. Se un corvo compariva in cielo,
erano scongiuri, urla, petardi, frastuoni di bidoni.
Ma al
giornalista americano, incuriosito, che domandava spiegazioni:
‘Niente’
rispondevano
‘vecchie
usanze popolari’.
E quello registrava. Di chiesa in chiesa Antonio girò tutta quanta Roma, spingendosi sempre più nel centro. E alla sera ripiegava alla campagna, ivi trascorrendo le notti sulle erme rovine o, se pioveva, sotto le arcate degli imperatori.
Così
passavano uno sull’altro i giorni.
Giunse
l’autunno e Antonio finalmente si portò alla enorme cupola di San Pietro,
speranza estrema. Stridevano le rondini al suo passaggio:
‘Corvaccio!
Brutto corvo!’.
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