CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

domenica 21 marzo 2021

RACCONTI DELLA DOMENICA ovvero UN NAUFRAGIO PSICOLOGICO (5)

 























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d'un Sogno (4/1)


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Domani!








Nell’estate del 1874 mi trovavo a Liverpool, dove mi ero recato a sbrigare degli affari per la compagnia mercantile Bronson & Jarrett di New York.

 

Io sono William Jarrett e il mio socio era Zenas Bronson. La ditta è fallita l’anno scorso e, incapace di sopportare la caduta dalla ricchezza alla povertà, Bronson è morto. Avendo portato a termine gli affari e avvertendo la stanchezza e la spossatezza derivate dal loro adempimento, pensai che un lungo viaggio per mare sarebbe stato sia piacevole che benefico: quindi, invece di imbarcarmi per il ritorno su uno dei molti bei piroscafi, prenotai un posto sul veliero Domani diretto a New York, sul quale avevo imbarcato una grossa e preziosa quantità di merce che avevo appena comprato.




Il Domani era una nave inglese, dotata di poche comodità per i passeggeri, che eravamo solo io, una giovane e la sua cameriera, una negra di mezza età. Trovai singolare che una giovane viaggiatrice inglese fosse scortata da tale seguito, ma poi la ragazza mi spiegò che la donna era stata lasciata alla sua famiglia da una coppia di sposi della Carolina del Sud, morti entrambi lo stesso giorno in casa del padre della giovane signora, nel Devonshire – circostanza già abbastanza strana di per sé da rimanermi impressa in modo indelebile nella memoria, anche se in seguito, discorrendo con la giovane, non fosse trapelato che l’uomo si chiamava William Jarrett, proprio come me.

 

Sapevo che un ramo della mia famiglia si era stabilito nella Carolina del Sud, ma non sapevo nulla di loro e delle loro vicende.




Il Domani salpò dalla foce del Mersey il 15 giugno, e per parecchie settimane avemmo vento favorevole e cielo sereno. Il capitano, un eccellente uomo di mare ma nulla più, ci onorò molto poco della sua compagnia tranne che a tavola; io e la signorina Janette Harford approfondimmo la nostra conoscenza. In realtà eravamo quasi sempre insieme e, avendo un’indole introspettiva, cercavo spesso di analizzare e chiarire il nuovo sentimento che ella mi ispirava: una segreta e sottile ma potente attrazione, che mi costringeva a cercarla in continuazione; ma era un tentativo senza speranza.

 

L’unica cosa di cui ero sicuro, perlomeno, era che non si trattava di amore.




Con questa certezza e non dubitando della sua cordialità nei miei confronti, una sera (ricordo che era il 3 luglio), mentre eravamo seduti sul ponte, ebbi l’ardire di chiederle, ridendo, se potesse aiutarmi a risolvere il mio dubbio psicologico.

 

Per un attimo rimase in silenzio, distogliendo lo sguardo, e io iniziai a temere di essermi comportato in modo estremamente sgarbato e sconveniente; poi mi fissò seriamente negli occhi. In un istante la mia mente venne soggiogata dalla fantasia più strana che si fosse mai insinuata in una coscienza umana. Sembrava che mi stesse guardando, non con, ma attraverso quegli occhi – da un punto a distanza incommensurabile dietro di essi – e che molte altre persone, uomini, donne e bambini sui cui volti colsi delle espressioni fugaci stranamente famigliari, si raccogliessero intorno a lei e si sforzassero con gentile impazienza di guardarmi attraverso quegli stessi occhi.




La nave, l’oceano e il cielo: tutto era scomparso.

 

Ero consapevole solo delle sagome che prendevano parte a quella straordinaria scena fantastica. Poi, tutto a un tratto, venni sommerso dalle tenebre, ma ben presto, come uno che si abitua gradualmente a una luce più fioca, vidi riaffiorare lentamente tutto ciò che prima mi circondava: il ponte, l’albero e il sartiame.

 

La signorina Harford aveva chiuso gli occhi e si era appoggiata allo schienale, apparentemente addormentata, con il libro che stava leggendo aperto in grembo. Spinto da non so quale impulso, gettai un’occhiata in cima alla pagina; era una copia di quella rara e bizzarra opera, Le meditazioni di Denneker, e l’indice della giovane era posato su questo paragrafo:




A molti è concesso di staccarsi e di separarsi temporaneamente dal corpo; poiché, come nei ruscelli il cui corso s’incrocia il più debole viene trascinato dal più forte, così in certi soggetti affini, le cui strade si incontrano, le anime si fanno compagnia, mentre i corpi, ignari, seguono strade decise in precedenza.

 

La signorina Harford si alzò rabbrividendo; il sole era sceso dietro l’orizzonte, ma non faceva freddo. Non c’era un alito di vento e nemmeno una nuvola in cielo, però non si vedeva neanche una stella. Sul ponte si udì un rumore di passi precipitosi; il capitano, richiamato da sottocoperta, raggiunse il primo ufficiale, intento a guardare il barometro.




Buon dio!

 

lo udii esclamare.

 

Un’ora dopo, Janette Harford, invisibile nelle tenebre e tra gli spruzzi, venne strappata dalla mia presa dal vortice crudele della nave che affondava, e io svenni tra il sartiame dell’albero galleggiante al quale mi ero avvinghiato.

 

Mi svegliai alla luce di una lampada.


(Prosegue...)







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