CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
30 MAGGIO 1924

giovedì 4 marzo 2021

UN FIORE PORGO ALLA VOSTRA VIGILE ATTENZIONE (16)

 




















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Al di sopra del Cielo stellato (15/1)


Prosegue con una possibile...:









Interpretazione per ciò di cui (17)... 


la Rima  (in Memoria di Dante & Durante  [capitolo completo]













Lo dio d’amor con su’ arco mi trasse

Perch’ i’ guardava un fior che m’ abellia,

Lo quale avea piantato Cortesia

Nel giardin di Piacier; e que’ vi trasse

 

Sì tosto, c’ a me parve che volasse;

E disse : I’ sì ti tengo in mia balia.

Allo[r] gli piaque, non per voglia mia,

Che di cinque saette mi piaghasse.

 

La prima à non Bieltà, per li ochi il core

Mi passò; la seconda, Angielicanza,

Quella mi mise sopra gran fredore;

 

La terza Cortesia fu san dottanza;

La quarta, Compagnia, che fé dolore;

La quinta apella l’ uon Buona-Speranza.

 

Però a voi vado a narrarvi

Non men di tale magnificenza

Fedele all’amor di Madonna Beatrice

 

Lo schifo che mi colse nell’udire

Lungo ugual via’

L’altrui ardire

 

Schifato porgo la Rima

 

Con una chiave d’oro mi fermò il core

L’Amor, quando cosi m’ ebe parlato,

Ma primamente l’ à nette parato,

Si c’ ogni altro pensier n’ à pinto fore.


E po’ mi disse: I’ sì son tu’ signiore,

E tu sì se’ di me fedel giurato.

Or guarda che  ’1 tu’ cuor non si’ inpacciato,

Se non di fino e di leal amore;

 

E pensa di portar in pacienza

La pena che per me avrà’ a sofrire,

Inanzi ch’ io ti doni mia sentenza.

 

Che molte volte ti parrà morire;

Un’ ora gioia avrai, altra doglienza.

Ma poi dono argomento di guerire.

 

Parte s’ Amor su’ ale battendo,

E ’ n poca d’or sì forte isvanoio,

Ched i’ noi vidi poi, né noll’ udio,

Ellui e ’l su’ soccorso ancor atendo.

 

Allor mi venni forte ristrignendo

Verso del fior chessì forte m’ ulio,

E per chu feci homagio a questo Dio,

E dissi: Chi mi tien ched i’ noi prendo?

 

Sì ch’ i’ verso del fior tesi la mano,

Credendolo aver colto chitamente,

Ed i’ vidi venir un gran villano,

 

Con una maza, e disse: Or ti ste’ a mente

Ch’ i’ son lo Schifo, e sì son ortolano

D’esto giardin: i’ ti farò dolente.  

 

Dogliendomi in pensando del villano

Chessì vilmente dal fior m’ à lungiato.

Ed i’ mi riguardai dal dritto lato,

E sì vidi Ragion, col viso piano.

 

Venir verso di me, e per la mano

Mi prese, e disse: Tusse’ sì smagrito:

I’ credo chettu a’ troppo pensato

A que’ chetti farà gittar in vano,

 

Ciò è Amor, a chui dat’ ài fidanza.

Masse m’ avessi avuto al tu’ consiglio,

Tu non saresti gito collui a danza,

 

Che sie ciertano, a chui da di piglio,

Egl’ il tiene in tormento e malenanza,

Sì che su’ viso non n’ è mai vermiglio.

 

Tutto pien d’umiltà verso ’l giardino

Torna’ mi, com’ Amico avea parlato,

Ed i’ guardai, e sì ebi avisato

Lo Schifo, con un gran baston di pino,

 

Ch’ andava riturando ognie camino

Che dentro a forza non vi foss’ entrato.

Sì ch’ io mi trassi a lui, e salutato

Umilemente l’ ebi a capo chino;

 

E sì gli dissi: Schifo, agie merzede

Di me, se  ’nverso te feci alcun fallo,

Chèd i’ sì son venuto a pura fede

 

A tua merzede, e presto d’amendarlo.

Que’ mi riguarda, e tuttor si provede

Çhed i’ non dica ciò per inghanarlo.

 

Quand’ i’ vidi lo Schifo si adolzito,

Che solev’ esser più amar che fele,

Ed il trova’ vie più dolcie che mele,

Sapiate ch’ i’ mi tenni per guerito.

 

Nel giardin me n’ andai molto gichito

Per dotta di misfar a quel crudele,

E gli giurai a le sante Guagniele

Che per me non sarebe mai marrito.

 

Allor mi disse: I’ vo’ ben chettu venghi

Dentr’ al giardin, sì come ti piacie,

Ma che lungi dal fior le tue man tenghi.

 

Le buone donne fatt’ anno far pacie

Tra me e te; or fa chella mantenghi.

Sì che verso di me non sie fallacie.

 

Intorno dal castello andai ciercando

Sed i’ potesse trovar quel’ entrata,

La qual folle Largheza avea fondata,

Per avacciar ciò che guia pensando.

 

Allor guardai, e sì vidi onbreando

Disotto un pin una donna pregiata,

Sì nobilmente vestita e parata

Che tuttol mondo già di lei parlando;

 

E sì avea in se tanta beleza

Che tutto intorno lei aluminava

Chol su’ visagio, tanto avea chiareza.

 

Ed un suo amico colici si posava.

La donna sì avea nome Richeza,

Mallui non so com’ altri l’ apellava.

 

Col capo inchino la donna salutai,

E siila cominciai a domandare

Del camin c’ uomo apella Tropo-Dare.

Quella rispose: Già per me noi sai,

 

E sei sapessi già non v’ interrai;

Chèd i’ difendo a ciaschedun l’entrare,

Sed e’ non à che spender e che dare.

Sì farai gran saver sette ne vai,

 

C’ unquanche non volesti mi’ acontanza,

Nè mi pregiasti mai a la tua vita,

Ma or ne prenderò buona vengianza.

 

Che sie ciertano, settu m’ài schernita,

I’ti darò tormento e malenanza

Sì che me’ ti varia avermi servita.

 

La Baronia sì fecie parlamento

Per devisar in che maniera andranno,

la qual porta prima assaliranno.

Si fur ben tutti d’ un’ acordamento,

 

Fuor che Richeza, che fé saramento

Ch’ ella non prenderebe per me affanno,

Ned al Castel non darebe già danno.

Per pregheria nè per comandamento

 

Che nessuna persona far potesse,

Per ciò ch’ i’ non volli anche su’ acontezza.

Sì era dritto ch’ i’ mene pentesse.

 

Ben disse ch’ i’ le feci gran carezza

Sotto dal pino, ma non c’ ancor vedesse

Che Povertà no m’ avesse in distrezza.

 

Al die d’amor ricordaro il fatto,

E disser che trovavar d’ acordanza

Che Falsenbiante e Costretta- Astinenza

Dessono a Malabocca scacco matto,

 

Largheza e Cortesia traesser patto

Con quella chessà ben la vechia danza,

E Piotate e Francheza dear miccianza

A quello Schifo che sta sinor sato;

 

E po’ vada Diletto e Ben-Cielare,

Ed a Vergognia dean tal la strellata

Ched ella non si possa rilevare;

 

Ardimento a Paura dea ghigniata,

E Sicurtà la degia sì pelare

Ched ella non vi sia ma’ più trovata.

 

Amor sì disse: Per cotal convento,

Falsosenbiante, in mia corte enterai

Che tutti i nostri amici avanzerai,

E metterai i nemici in bassamente;

 

E sìtti do, per buon cominciamento.

Che re de’ barattier tu sì sarai;

Ch’ è peza che ’n capitolo il fermai,

Ch’ i’ conosciea ben tu ’tradimento.

 

Or sì vo’ checci dichi in audienza,

Pe’ ritrovarti, se n’avren mestiere,

I’ luogo dove tuffai residenza;

 

Nè di che servi, né di che mestiere,

Fa che n’agian veracie conoscienza:

Ma noi farai, sìsse’ mal barattiere.

 

I’ sì mi sto con que’ religiosi.

Religiosi no, se non in vista,

Cheffan la ciera lor pensosa e trista,

Perparerer a le gienti più pietosi.

 

E sì si mostran molto sofrettosi,

E ’n tapinando ciaschedun aquista,

Sì che perciò mi piacie lor amista

C’ a barattar son tutti curiosi.

 

Po’ vanno procacciando l’acontanze

Di riche gienti, e vanole seguendo;

E si voglion mangiar le gran pietanze,

 

E preziosi vin vanno bevendo,

E queste son le lor grandi astinenze.

Po’ van la povertà altrui abellendo.

 

Quando ’l castello fu così inbrasciato,

E chelle guardie fur fu gite via,

Alor sì v’ entro entrò Cortesia

Per la figluola trar di quello stato.

 

E Franchez’ e Pietà da l’altro lato

Sì andaron collei in conpagnia.

Cortesia sille disse: Figlia mia,

Molt’ ò avuto di te il cuor crucciato,

 

Che stata se’ gran tenpo inpregionata.

La Gielosia agi’ or mala ventura,

Quando tenuta t’ à tanto serrata.

 

Lo Schifo, e Vergogna con Paura

Se son fugiti, e la gol’ à tagliata

Ser Malabocca, per sua disaventura.

 

Malgrado di Richeza la spietata.

Ch’ unquanche di pietà non seppe usare,

Che del camino c’ a nome Troppo-Dare

Le piaque di vietarmene l’entrata;

 

Ancor, di Gielosia ch’ èssi spietata,

Ched a gli amanti vuole il fior guardare;

Ma pure ’l mio non sep’ ella murare,

Ched i’ non vi trovasse alcuna entrata.

 

Ond’ io le tolsi il fior ch’ ella guardava,

E si ne stava in sì gran sospezone,

Chella sua giente tuttor inveghiava.

 

Bellacoglienza ne tenne in pregione,

Perch’ ella punto in lei non si fidava,

E sì n’ er’ ella dona di ragione.


(Prosegue verso... Venere...)







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