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Interpretazione per ciò di cui (17)...
la Rima (in Memoria di Dante & Durante [capitolo completo]
Lo dio d’amor
con su’ arco mi trasse
Perch’ i’
guardava un fior che m’ abellia,
Lo quale
avea piantato Cortesia
Nel giardin
di Piacier; e que’ vi trasse
Sì tosto, c’
a me parve che volasse;
E disse : I’
sì ti tengo in mia balia.
Allo[r] gli
piaque, non per voglia mia,
Che di
cinque saette mi piaghasse.
La prima à
non Bieltà, per li ochi il core
Mi passò;
la seconda, Angielicanza,
Quella mi
mise sopra gran fredore;
La terza
Cortesia fu san dottanza;
La quarta,
Compagnia, che fé dolore;
La quinta
apella l’ uon Buona-Speranza.
Però a voi vado
a narrarvi
Non men di
tale magnificenza
Fedele
all’amor di Madonna Beatrice
Lo schifo
che mi colse nell’udire
Lungo ugual
via’
L’altrui
ardire
Schifato porgo
la Rima
Con una
chiave d’oro mi fermò il core
L’Amor,
quando cosi m’ ebe parlato,
Ma
primamente l’ à nette parato,
Si c’ ogni
altro pensier n’ à pinto fore.
E po’ mi
disse: I’ sì son tu’ signiore,
E tu sì se’
di me fedel giurato.
Or guarda
che ’1 tu’ cuor non si’ inpacciato,
Se non di
fino e di leal amore;
E pensa di
portar in pacienza
La pena che
per me avrà’ a sofrire,
Inanzi ch’
io ti doni mia sentenza.
Che molte
volte ti parrà morire;
Un’ ora
gioia avrai, altra doglienza.
Ma poi dono
argomento di guerire.
Parte s’ Amor su’ ale battendo,
E ’ n poca
d’or sì forte isvanoio,
Ched i’ noi
vidi poi, né noll’ udio,
Ellui e ’l
su’ soccorso ancor atendo.
Allor mi
venni forte ristrignendo
Verso del
fior chessì forte m’ ulio,
E per chu
feci homagio a questo Dio,
E dissi:
Chi mi tien ched i’ noi prendo?
Sì ch’ i’
verso del fior tesi la mano,
Credendolo
aver colto chitamente,
Ed i’ vidi
venir un gran villano,
Con una
maza, e disse: Or ti ste’ a mente
Ch’ i’ son
lo Schifo, e sì son ortolano
D’esto
giardin: i’ ti farò dolente.
Dogliendomi
in pensando del villano
Chessì
vilmente dal fior m’ à lungiato.
Ed i’ mi
riguardai dal dritto lato,
E sì vidi
Ragion, col viso piano.
Venir verso
di me, e per la mano
Mi prese, e
disse: Tusse’ sì smagrito:
I’ credo
chettu a’ troppo pensato
A que’
chetti farà gittar in vano,
Ciò è Amor,
a chui dat’ ài fidanza.
Masse m’
avessi avuto al tu’ consiglio,
Tu non
saresti gito collui a danza,
Che sie
ciertano, a chui da di piglio,
Egl’ il
tiene in tormento e malenanza,
Sì che su’
viso non n’ è mai vermiglio.
Tutto pien
d’umiltà verso ’l giardino
Torna’ mi,
com’ Amico avea parlato,
Ed i’
guardai, e sì ebi avisato
Lo Schifo,
con un gran baston di pino,
Ch’ andava
riturando ognie camino
Che dentro
a forza non vi foss’ entrato.
Sì ch’ io
mi trassi a lui, e salutato
Umilemente l’
ebi a capo chino;
E sì gli
dissi: Schifo, agie merzede
Di me, se ’nverso te feci alcun fallo,
Chèd i’ sì
son venuto a pura fede
A tua
merzede, e presto d’amendarlo.
Que’ mi
riguarda, e tuttor si provede
Çhed i’ non
dica ciò per inghanarlo.
Quand’ i’
vidi lo Schifo si adolzito,
Che solev’
esser più amar che fele,
Ed il trova’
vie più dolcie che mele,
Sapiate ch’
i’ mi tenni per guerito.
Nel giardin
me n’ andai molto gichito
Per dotta
di misfar a quel crudele,
E gli
giurai a le sante Guagniele
Che per me
non sarebe mai marrito.
Allor mi disse:
I’ vo’ ben chettu venghi
Dentr’ al
giardin, sì come ti piacie,
Ma che
lungi dal fior le tue man tenghi.
Le buone
donne fatt’ anno far pacie
Tra me e
te; or fa chella mantenghi.
Sì che
verso di me non sie fallacie.
Intorno dal
castello andai ciercando
Sed i’
potesse trovar quel’ entrata,
La qual
folle Largheza avea fondata,
Per
avacciar ciò che guia pensando.
Allor
guardai, e sì vidi onbreando
Disotto un
pin una donna pregiata,
Sì
nobilmente vestita e parata
Che tuttol
mondo già di lei parlando;
E sì avea
in se tanta beleza
Che tutto
intorno lei aluminava
Chol su’
visagio, tanto avea chiareza.
Ed un suo
amico colici si posava.
La donna sì
avea nome Richeza,
Mallui non
so com’ altri l’ apellava.
Col capo
inchino la donna salutai,
E siila cominciai
a domandare
Del camin c’
uomo apella Tropo-Dare.
Quella
rispose: Già per me noi sai,
E sei
sapessi già non v’ interrai;
Chèd i’
difendo a ciaschedun l’entrare,
Sed e’ non
à che spender e che dare.
Sì farai
gran saver sette ne vai,
C’
unquanche non volesti mi’ acontanza,
Nè mi
pregiasti mai a la tua vita,
Ma or ne
prenderò buona vengianza.
Che sie
ciertano, settu m’ài schernita,
I’ti darò
tormento e malenanza
Sì che me’
ti varia avermi servita.
La Baronia
sì fecie parlamento
Per devisar
in che maniera andranno,
la qual
porta prima assaliranno.
Si fur ben
tutti d’ un’ acordamento,
Fuor che
Richeza, che fé saramento
Ch’ ella
non prenderebe per me affanno,
Ned al
Castel non darebe già danno.
Per
pregheria nè per comandamento
Che nessuna
persona far potesse,
Per ciò ch’
i’ non volli anche su’ acontezza.
Sì era
dritto ch’ i’ mene pentesse.
Ben disse ch’
i’ le feci gran carezza
Sotto dal
pino, ma non c’ ancor vedesse
Che Povertà
no m’ avesse in distrezza.
Al die d’amor
ricordaro il fatto,
E disser
che trovavar d’ acordanza
Che
Falsenbiante e Costretta- Astinenza
Dessono a
Malabocca scacco matto,
Largheza e
Cortesia traesser patto
Con quella
chessà ben la vechia danza,
E Piotate e
Francheza dear miccianza
A quello
Schifo che sta sinor sato;
E po’ vada
Diletto e Ben-Cielare,
Ed a
Vergognia dean tal la strellata
Ched ella
non si possa rilevare;
Ardimento a
Paura dea ghigniata,
E Sicurtà
la degia sì pelare
Ched ella
non vi sia ma’ più trovata.
Amor sì
disse: Per cotal convento,
Falsosenbiante,
in mia corte enterai
Che tutti i
nostri amici avanzerai,
E metterai
i nemici in bassamente;
E sìtti do,
per buon cominciamento.
Che re de’
barattier tu sì sarai;
Ch’ è peza
che ’n capitolo il fermai,
Ch’ i’
conosciea ben tu ’tradimento.
Or sì vo’
checci dichi in audienza,
Pe’
ritrovarti, se n’avren mestiere,
I’ luogo
dove tuffai residenza;
Nè di che
servi, né di che mestiere,
Fa che n’agian
veracie conoscienza:
Ma noi
farai, sìsse’ mal barattiere.
I’ sì mi
sto con que’ religiosi.
Religiosi
no, se non in vista,
Cheffan la
ciera lor pensosa e trista,
Perparerer
a le gienti più pietosi.
E sì si
mostran molto sofrettosi,
E ’n
tapinando ciaschedun aquista,
Sì che
perciò mi piacie lor amista
C’ a
barattar son tutti curiosi.
Po’ vanno
procacciando l’acontanze
Di riche
gienti, e vanole seguendo;
E si
voglion mangiar le gran pietanze,
E preziosi
vin vanno bevendo,
E queste
son le lor grandi astinenze.
Po’ van la
povertà altrui abellendo.
Quando ’l
castello fu così inbrasciato,
E chelle
guardie fur fu gite via,
Alor sì v’
entro entrò Cortesia
Per la
figluola trar di quello stato.
E Franchez’
e Pietà da l’altro lato
Sì andaron
collei in conpagnia.
Cortesia sille
disse: Figlia mia,
Molt’ ò
avuto di te il cuor crucciato,
Che stata se’
gran tenpo inpregionata.
La Gielosia
agi’ or mala ventura,
Quando
tenuta t’ à tanto serrata.
Lo Schifo,
e Vergogna con Paura
Se son
fugiti, e la gol’ à tagliata
Ser
Malabocca, per sua disaventura.
Malgrado di
Richeza la spietata.
Ch’
unquanche di pietà non seppe usare,
Che del
camino c’ a nome Troppo-Dare
Le piaque
di vietarmene l’entrata;
Ancor, di
Gielosia ch’ èssi spietata,
Ched a gli
amanti vuole il fior guardare;
Ma pure ’l
mio non sep’ ella murare,
Ched i’ non
vi trovasse alcuna entrata.
Ond’ io le
tolsi il fior ch’ ella guardava,
E si ne
stava in sì gran sospezone,
Chella sua
giente tuttor inveghiava.
Bellacoglienza
ne tenne in pregione,
Perch’ ella
punto in lei non si fidava,
E sì n’ er’
ella dona di ragione.
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