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Il sogno è
un luogo oscillante fra terra e cielo, tra le affezioni corporee e sensibili,
che ne obnubilano la visione, e le aspirazioni dell’anima dischiusa a conoscere
e migrare, a vedere chiaramente l’intelligibile. Tra queste umane estremità si
svolge il viaggio di Polifilo e la
sua battaglia per trasmutare dai lacci carnali a novelle qualitate d’amore, fino al purus amor: è il pellegrinaggio dell’anima oltre il corpo, owero I’Hypnerotomachia Poliphili.
Il percorso
è arduo e mirifico perché la psiche è duplice nella debolezza e nella forza dei
suoi desideri: tentata dalle illusioni ferine e mortali di questo basso mondo,
attratta dalla virtù e dall’intelligenza delle cose immortali. Come il Lucio
apuleiano transita dalla sua lasciva asinità alla compassionevole Madre Iside e
ai soterici misteri, così Polifilo, il
personaggio narrante e agente dell’Hypnerotomachia,
passa dal doloroso groviglio della cieca libidine ai lumi iniziatici e sublimi
di Venere Madre, la cosmica, buona erotocrate.
Dinanzi a essa si unirà infine alla guida e meta della sua volontà d’amore, ossia a Polia, figura sapientiae e nuova Beatrice. Il sogno è uno specchio dove l’anima si guarda, perciò le immagini oniriche più che viste vanno osservate, e Polifilo è inesauribilmente attento, proteso come a soddisfare la sua filosofica curiositas attraverso la portentosa visio in somniis che lo investe e lo sconcerta (al dextro et sinistro lato ... di nitore speculabile. Tra gli quali ... facendo transito fui dilla propria imagine da repentino timore invaso).
L’osservazione del linguaggio onirico diviene cognizione del medesimo quando, come in uno specchio - parallelismo acutamente sviluppato dall’onirocritica medioevale-, si trasforma in auto-osservazione, cioè nel rispecchiamento dell’itinerario psichico, e Polifilo non perde occasione di ricordare e descrivere con pignoleria e minuzia tutte le immagini che gli corrono dinanzi: sa che dalla loro memoria e dalla loro decifrazione dipende la soluzione della propria psicomachia erotica.
Come scrive Alano di Lilla al termine del suo De planctu naturae, anche Polifilo, alla conclusione del suo sogno speculare, potrebbe ripetere:
Huius igitur imaginarie visionis subtracto
speculo, me ab extasis excitatum .insomnio prior mistice apparitionis
dereliquit aspectus.
Ma vediamo,
in breve, la storia sognata, tenendo innanzitutto presente che il romanzo è
stato pensato e composto dall’Autore secondo uno schema ternario. Tre sono in
sostanza i livelli onirici vissuti dal protagonista Polifilo, tre gli stati psicoerotici
che attraversa: la passionalità irrazionale e infantile, la liberalità d’amore
che muta il giovane amante in uomo libero di scegliere, l’amore nella sua
duplice manifestazione di voluptas
terrena e celeste.
La prima difficoltà che l’anima incontra nella sua onirica battaglia d’amore è il graduale distacco dal corpo, affinché riesca a vedere, a distinguere le immagini che le si pongono davanti, oltre l’ostacolo dei richiami, distrattivi, del sensibile. È la selva, già dantesca, che abbuia la psiche come gli adunchi rovi dell’oscuro bosco abbranchiano le vesti di Polifilo, smarrito e lordo di sporcizia: ma l’ascensus animae si nutre di luce, non di tenebre, e Polifilo con mente pura invoca Giove Diespater, il sommo padre del fulgido giorno.
Ed ecco che la caligine si dipana e agli occhi interiori appare un ruscello, cui però non ci si può dissetare perché distratti da un canto lontano. L’acqua corrente è qui ancora un richiamo al caduco fluire dei sensi mondani, perciò a essa non si disseta Polifilo, incantato dalla melodia che prefigura, come un eco, le armonie celestiali che l’anima godrà in fondo al viaggio.
Oltre il rivo, sotto antichissima quercia, sacro oracolo di Giove, Polifilo si addormenta di nuovo, ma di un sonno profondo che lo fa sognare nel sogno: è la tecnica dell’incubazione praticata nei culti greci e latini, onirica e divinatoria insieme, con la quale, purificato e sopito il corpo, in un luogo sacro, l’anima, sgombra dei residui fisici, è pronta a volare e ad apprendere l’avvenire e il divino.
All’inizio
di una simile visione sono d’obbligo un ammonimento e una speranza: la presenza
di un drago, bestia da evitare perché immagine dell’avaritia amoris che a niente conduce, e l’evidenza di palmizi,
annuncio della futura vittoria dell’anima. Ma ancora un nodo va sciolto:
placare, dopo i pesi somatici già addormentati, anche quelli psichici, avvicendamento
che il Colonna rappresenta inventando
prodigiosi marchingegni monumentali, semplicissimi nella loro ossatura simbolica,
ridondanti fino a stordire il lettore nella incontenibile messa in scena: una
immensa struttura piramidale con altissimo obelisco su cui svetta una statua dell’Occasio-Fortuna; un magno caballo pegaseo su cui cercano invano di salire dei fanciulli; un non meno
grande e corpulento elefante sovrastato da un altro obelisco; un colosso bronzeo
abbattuto; una magna porta: tutte
immagini che mai più ricorreranno così dilatate nel prosieguo dell’Hypnerotomachia.
Qui è l’onirologia di Macrobio (In Somnium Scipionis, 1, 3, 7) a spiegare il perché di tante iperboli quantitative, altrimenti incomprensibili: difatti a chi, come Polifilo, si è da poco addormentato, e giace ancora in una condizione tra la veglia e il sonno pieno, è usuale che appaiano immagini di grandezza e aspetto inusitati, come quelle che il Colonna rappresenta con le sue sovradimensionate antichità. Si tratta dello stato, foriero di spaventi, chiamato phantasma, in cui l’occhio dell’anima non ha ancora puntualmente messo a fuoco la prospettica visione. Se pertanto l’onirocritica latina dipana il senso delle prime, sorprendenti architetture e sculture coniate dal Colonna, il loro significato va invece ricondotto alla incalzante psicomachia che scaturisce dalle oscillazioni tra pneuma e soma.
Infatti la
grande struttura piramidale rappresenta gli ingigantiti phantasmata del corpo, dove l’anima è ancora imprigionata, ma da
cui deve liberarsi. Per riuscirvi Polifilo
ingaggia le sue iniziali, orride battaglie, superando il timore, principio di
ogni sapienza, e poi astenendosi dall’irosa superbia: gesta figurate
plasticamente dalla testa medusea, che terrorizza gli stolti pavidi, e
dall'arroganza dei Giganti che invano cercarono di scalare il cielo,
didatticamente scolpite sul piedistallo della stessa piramide, cioè in basso,
ben lontane e contrapposte ai simboli eliaci e fausti dell’obelisco e dell’Occasio-Fortuna
che coronano la sommità dell’edificio.
Solo vincendo con un’audacia mitigata da umile timore, senza titanica superbia, Polifilo può dunque librarsi all’interno delle mostruose membra piramidali. Così l’anima sale, come insegna la mistica neoplatonica, con moto elicoidale verso il Sommo Sole, il Bene, il divino bagliore di cui è parente e da cui trae alimento. Mentre ascende nella piramide la psiche è illuminata da pertugi posti ordinatamente sulle facce della costruzione: sono le finestre dei sensi aperti ora a vedere nuovi lucori, lontani da quelli della quotidiana abitudine. Giunto in cima Polifilo può ammirare l’obelisco, supremo simbolo di quel Sommo Sole. Su di esso svetta l’Occasio, la Fortuna amoris, soccorrevole nei confronti dell’audace e cavalleresco Polifilo, l’amante filosofo, completamente rapito nella sua combattuta quéte dell’amata, la sofianica Polia.
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